David Foster Wallace

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David Foster Wallace

Infinite Jest è stato immaginato come un libro triste. Non so come sia per voi e i vostri amici, ma so che la maggior parte degli amici miei è molto infelice
(Wallace)

Infinite Jest, 1996, traduzione di Edoardo Nesi con la collaborazione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua, Einaudi, 2006.
Per IJ Wallace avrebbe voluto in copertina la fotografia di Fritz Lang che parla alle comparse di Metropolis (1927).

Nei primi capitoli di IJ è immediatamente evidente la sua matrice eclettica. La struttura visionaria, materiata da un impasto non sempre gradevole di irrisione e di sgomento, è desunta evidentemente da Pynchon, il monito sul futuro minaccioso da Aldous Huxley e da Orwell, lo sfondo ludico da Laurence Sterne (La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, 1759-1767): come è noto, il titolo Infinite Jest è tratto dal monologo di Amleto su Yorick, ‘un compagno di scherzi infiniti (infinite jest) e in Sterne appare a lungo Yorick associato alle due sorprendenti pagine nere.
Il libro è costruito intenzionalmente come un vasto telaio che riflette le voci già esistenti nella letteratura. Un brano adotta esplicitamente il dettato ansioso e ripetitivo di Tre esistenze (1909) di Stein, (p. 44), un altro rievoca Il giovane Holden (1951) di Salinger (153); un brano di esplicito esercizio virtuosistico antologizza il monologo di impianto teatrale (186), un altro ripercorre la letteratura noir (104); altrove viene simulato il linguaggio del saggio critico sul postmoderno (167); vengono alterate con sprazzi di (apparente?) lucidità filosofica le più banali schede didattiche (205).
Spesso sono innestati dei racconti brevi, limati perfettamente (144), debitori evidentemente di Gente di Dublino, che attestano il piacere della pura leggibilità.

Ci sono momenti bellissimi di splendore della scrittura, c’è il flusso incalzante e ipnotico calibrato sul ricorrente e ipnotico scoprirete che.. (239); c’è un lungo, magnifico brano (261-287) che descrive la vita di una ragazza, Joelle, permeato profondamente di poesia e di doloroso stupore per la vita, di verità.
L’orrore della morte nascosto dalle parole evasive (289); le discussioni sterili (322); i luoghi comuni (323), memore di Flaubert; la dipendenza dai giochi per ragazzi (380).
Il racconto tragico su Tony (359) inizia come un racconto di Poe o di Kafka: ‘da quando aveva scoperto che nella borsa di quella poveretta c’era un cuore’.
C’è lo spazio architettonico congestionato (287) e visionario, dove le catapulte sono una deformazione onirica delle catapulte antiche, che non colpiscono più la città da fuori, colpiscono la sua periferia lanciando i rifiuti dall’interno, non ne demoliscono il volume, ne cancellano il perimetro (v in Vitalità del pensiero poetante il riferimento alle visioni ossessive di Rem Koolhaas e al cinema di Lynch).

Per Orin ( ) il mattino è la notte dell’anima’ (50), è un affascinato ricordo di John Donne (‘la sera fu l’inizio della giornata’, in Anatomia del mondo, una suggestione ripresa anche da Paul Celan: ‘Se anche per te le notti cominciano dal mattino’).

Tutto il bellissimo brano sull’incubo (73) è memore del perturbante che domina i Quaderni di Malte di Rilke. Wallace:Sto cominciando a capire che la sensazione degli incubi peggiori.. ( ) nessun pavimento ha una faccia ( ) poi la sua bocca si apre nella tua luce’. Rilke:‘Io imparo a vedere. Si, comincio ( ) Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano ( )L’esistenza del terribile in ogni particella dell’aria. Lo respiri con la trasparenza; in te si deposita, diviene duro, acquista tra le viscere forme puntute ( ) Guàrdati dalla luce che fa più cavo lo spazio, non volgere gli occhi intorno’. Wallace: ‘Quell’essenza, quel nucleo di male, è proprio qui, ora, in questa stanza. Ed è lì solo per te’. Rilke: ‘Quando morì il mio cane ( ) io guardai involontariamente verso la porta. Ma ciò era già in lui’. Nel pavimento si vede un viso: ‘le pupille dei suoi occhi ( ) come quelle di un gatto ( ) l’orrido sorriso pieno di denti che ha guardato di traverso proprio verso la tua luce’, e questo è il ricordo del ghigno senza gatto di Alice in Wonderland (1865) di Carroll: ‘curioso, ho veduto spesso un gatto senza ghigno, osservò Alice, ma un ghigno senza gatto. E’ la cosa più strana che mi sia capitata!’. Wallace salda la reverie di Rilke alla ludicità stravolta suggerita dal gusto postmoderno al quale non poteva sottrarsi del tutto.

IJ capta e seleziona i suoi lettori delineandone una mappa quasi topografica e disegnando un’urbanistica del lettore; è un contenitore frammentario di testi che è possibile capire solamente se c’è la complicità e l’interesse specifico in chi legge, le lunghe e dettagliate sezioni sul tennis (tra le tante: 308) da una parte mostrano l’alternativa fisica al degrado della dipendenza in forme di altra e diversa, ulteriore dipendenza, mentre dall’altra sono saggi che ricalcano il linguaggio specifico del cronista, anche se poi ognuno dei tanti brani sul tennis contiene passi acuti che non riguardano affatto lo sport, ma la realtà sfuggente del corpo (Wallace era ossessionato dal sudore delle crisi di panico, e si travestiva dal giocatore di tennis che è stato portando la bandana sulla fronte e spesso una racchetta che goffamente serviva a giustificarla).
Il tennis in IJ mostra la nicchia militarizzata dello specialismo accademico del corpo confinante con il degrado inarrestabile della dipendenza. Il giovane deforme che abita lo spazio del tennis è un Calibano che officia questo confine.

IJ viene considerato divertente e ironico, ma non lo é affatto. Come nel libro di Sterne, la scansione apparentemente ludica delle sezioni non porta affatto a soluzioni comiche, ma ripropone costantemente, con un sorriso straniante, le fratture che separano i diversi segmenti di questo territorio accidentato, e la pesantezza opaca, la troppo gravosa zavorra dei lunghi testi illustrativi e delle insopportabili note, attesta piuttosto la bulimia di un autore che evidentemente non è stato in grado di dare un ordine all’eccesso di materiale che ha plasmato.

Wallace evidentemente ha utilizzato la scrittura, coltivata fin dall’infanzia, per costruire l’unica casa mentale nella quale potesse abitare. Nella brutta intervista a W di David Lipsky (it. 2016) emerge un uomo quasi insignificante, noioso, appesantito da luoghi comuni e dal più goffo manierismo, e anche in questo c’è forse il segno profondo della sua realtà. W ha vissuto non per la letteratura, ma grazie alla letteratura, e lui stesso sembra essere, in quella intervista, il primo a stupirsi di cosa IJ è diventato attraverso la sua mediazione di autore ossessionato dalla ricerca di una possibile sopravvivenza.

In una lettera W si dichiara ‘come al solito ( ) professionalmente disorientato’. Aveva forse esaurito la sua necessità di scrivere ricordando il linguaggio di altri e si sentiva tristemente privo di scopo.

La biografia di W scritta da D.T.Max, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi. Vita di David Foster Wallace, 2011 (it. 2013), documenta con ossessiva e dolorosa lucidità la concreta realtà umana dello scrittore, un uomo ossessionato dalla paura di non avere successo e di essere eternamente inadeguato, uno scrittore con una tendenza poco nobile all’imitazione stilistica e al plagio, un poco dignitoso misogino a volte violento fino a sfiorare l’omicidio.
La pesante volgarità e la triste banalità delle sue tante lettere stride con la raffinatezza dei passi più belli di IJ e insinua un dubbio, che è impossibile e inutile cercare di eludere, sui debiti che W può aver contratto con la corposa letteratura postmoderna di cui si è sempre fin tropo nutrito.

In un film di Stan Brakhage, un autore che ha molte cose in comune con W, Anticipation of the Night (1958), c’è la scena di un suicidio visibile attraverso le ombre che il corpo proietta sulla parete. W conosceva quel film? Ha voluto morire in quel modo terribile e antico restando ancora una volta all’interno di forme creative già esistenti?
2015