Thomas Pynchon
L’arcobaleno della gravità,1973; traduzione di Giuseppe Natale, BUR, 2015.
All’inizio ci sono splendide pagine con un intersecarsi di inedite, straordinarie immagini poetiche e di fascinoso impasto letterario, c’è uno smottamento materico di ipnotica suggestione dove la percezione concreta della realtà sensoriale si innesta viva in un racconto affabulatorio sempre divagante che qui non si mostra come opera di fantasia, ma come una smarrita voce narrante che gioca con le parole per nascondere un doloroso, scabroso sentimento di vuoto. Ma poi la lettura diventa davvero insostenibile e inutile, è impossibile essere interessati alle fantasie visionarie del più radicale gusto postmoderno; come ogni libro, anche l’Arcobaleno seleziona i suoi lettori.
Ho cercato di leggere a suo tempo L’incanto del lotto 49 (1965), ma il mio rifiuto per la costruzione del racconto in termini di divertita visionarietà me lo ha fatto mettere subito da parte, e ora (2017) capisco meglio perché: la cosa che davvero non tollero è la complicità sorniona che viene richiesta e offerta al lettore, l’intesa tra furbi solidali nel condividere una scontata e inoffensiva irrisione di un mondo che si presume eternamente dedito agli intrighi da smascherare.
D’altra parte, a proposito del culto fanatico che gli adepti del postmoderno riservano a P, leggo che per molti Sterne è stato considerato l’uomo più saggio (?).
Marco Trainini, nel suo A silent Exinction. Saggio su L’Arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, 2010, sostiene che P con il suo romanzo alluderebbe nientemeno che all’estinzione dell’umanità (?).
Pynchon, e in parte Wallace, continuano un filone storico del romanzo che dalle più remote opere di Luciano arriva a Rabelais, a Sterne e poi agli scrittori di inizio Novecento come Roussel, in quella eterna attitudine della modernità, come Lyotard stesso ha preferito chiamare il postmoderno, che ha una radice nel più remoto contrapporsi di Aristofane a Euripide, dove la familiarità e l’ironia liberatrice facilmente condivisibili (di A) si oppongono alla perturbante e disorientante oscurità che in E traspare da ogni evento e da ogni parola (cfr. Vitalità del pensiero poetante).
Un linguaggio che si sviluppa parallelamente alla ricerca strutturale che va invece da Flaubert e da James a Joyce e a Proust fino a DeLillo, anche se poi con Finnegan’s Wake Joyce ha scelto apertamente di far parte, negli ultimi anni della sua vita, di quella tradizione del romanzo grottesco.
2017