Territorio

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Territorio

Il territorio, come tessuto connettivo, ospita la fertile contraddizione di tutte le varianti della cultura locale.
La divisione conflittuale tra Centro e Periferia, che segna così profondamente il T, può essere indagata studiando il significato delle forme isolate, di qualità, che vengono imposte alla periferia dai centri dominanti, in ostentato contrasto o in funzione normativa, con le forme che sono invece fin dall’inizio destinate alla cultura locale e quindi profondamente radicate nel tessuto connettivo territoriale nonostante la loro eventuale limitata qualità creativa.

La collaborazione con Magliano Romano per il recupero degli affreschi medioevali della Grotta degli Angeli fu l’occasione per me, nel 1994, per un arricchimento del mio lavoro nell’Archivio fotografico di PV attraverso la collaborazione diretta con i Centri minori, un contatto che avevo già avviato con Borbona dal 1983 e che è proseguito poi, dopo Magliano, con Orvinio, Roccasecca e Rocca Sinibalda, tappe di un percorso sempre molto gratificante e sempre all’insegna del volontariato.

Progetti per la valorizzazione del patrimonio territoriale

Il sodalizio professionale con la Storica dell’arte Paola Berardi, un’intelligente e sensibile studiosa del territorio, ha portato all’elaborazione di numerosi progetti di valorizzazione del patrimonio locale dei centri minori.
Dal 1995 abbiamo lavorato alla ricostruzione del corpus delle opere di Vincenzo Manenti (Orvinio, 1600-1674), iniziando con una mostra documentaria a Borbona (Rieti), ‘Vincenzo Manenti e le lunette del chiostro del Convento di Sant’Anna a Borbona’: con questa iniziativa è stato possibile illustrare l’attribuzione a Manenti e bottega del ciclo di affreschi del chiostro del convento di s Anna dei quali la B ha curato una schedatura scientifica, pubblicata prima in un periodico locale (RM Borbona) e poi inserita, ulteriormente rielaborata, nella sua tesi di laurea (cfr. Borbona e il suo patrimonio artistico con relativa bibliografia).
La nostra lunga indagine sul corpus manentiano ha portato ai rispettivi saggi redatti per Il Cavalier Vincenzo Manenti e il suo tempo, Atti del Convegno tenuto a Orvinio nel 2000, in Castello Malvezzi; un volume che poi, nel 2004, è stato presentato a Roma in Palazzo Barberini. Berardi ha aggiornato il corpus del pittore nel 2008 con un articolo su Mondo Sabino, n.3, La presenza di Vincenzo Manenti a Rieti e in Sabina, pagg. 16-17, e nel 2011 con il saggio Per una ricognizione critica delle opere inedite di Vincenzo Manenti in Arte e cultura nel palazzo Ricci di Capitignano, atti del convegno del 2007.
Dal 1995 c’è stata la sistematica revisione della schedatura OA di Borbona presentandone i risultati al paese attraverso numerose conferenze, visite guidate alle chiese e articoli in pubblicazioni locali.
Nel 2004 il progetto scientifico per un Museo civico a Borbona nonché la partecipazione del comune all’European Archelogical Rural Lab, Culture 2000, della Comunità Europea. B ha presentato in un programma RAI la Croce di Borbona.
Negli anni 2000-2008 la valorizzazione del comune di Rocca Sinibalda con un progetto di Museo locale, un website (in rete fino al 2008), due mostre locali e la pubblicazione dei Quaderni di Rocca Sinibalda (nr.1,2,3).
Fino al 2010 vari articoli sulla rivista laziale Fidelis Amatrix.
Dal 2003 al 2006 abbiamo gestito insieme Spazio mostre, un progetto creativo ideato da B, prima nei locali di una sede nel quartiere romano del Testaccio e poi in quelli del casale storico della Cervelletta. Una delle nostre mostre è stata presentata anche a Collalto Sabino (cfr. Spazio Mostre. Un progetto creativo, 2003-2006, n. 20, settembre/ottobre 2006, Fidelis Amatrix). Nel 2009 abbiamo curato il dvd La foto storica come strumento per la tutela del patrimonio. Il ruolo dell’Archivio fotografico della Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Lazio, testi di Giorgio Guarnieri e Paola Berardi, montaggio di Riccardo Croce e Massimo Pomponi.
Nel 2011 c’è stato il nostro contributo specialistico al volume di Giovanna Grumo, La pittura del Cinquecento nel reatino. Dipinti su tavola e su tela. Repertori dell’Arte del Lazio n.3.
La nostra ricognizione del patrimonio territoriale ci ha portato a raccogliere il complesso corpus delle opere della famiglia cinquecentesca dei Torresani e dell’arpinesco Mazzaroppi, a delineare un primo corpus delle croci processionali laziali e delle sculture del settecento reatino, e a ricostruire il ciclo di affreschi medioevali e quattrocenteschi di s Maria extra Moenia di Antrodoco (cfr. Antrodoco: la decorazione pittorica del Quattrocento nel complesso monumentale di S.Maria extra moenia, n.22, gennaio/febbraio, Fidelis Amatrix, 2007; Antrodoco medioevale. Una lettura inedita della decorazione di Santa Maria extra moenia e del battistero, n. 21, novembre/dicembre, 2006).
Ho avuto l’occasione di collaborare con la B per il suo importante lavoro sulla Croce di Vallecupola (2002), presentato nell’ambito della mostra Michelangelo: grafia e biografia (Palazzo Venezia – Bienne), per il suo intervento al convegno su Francesco di Paolo da Montereale del 2007 (cfr. FA, n.24) e per la sua vasta ricognizione del patrimonio di Nepi (2014).
Per le numerose indagini sul territorio della Berardi vedi l’interessante riepilogo in Tra Lazio e Abruzzo: culture che si sovrappongono in una frontiera mobile, in Nel Lazio. Guida al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico, rivista semestrale della SBAS Lazio, 2010
72paolaberardi@gmail.com

All’origine dello stile popolare di Dionisio Cappelli. Il ruolo delle xilografie tedesche
(Fidelis Amatrix n. 12, 2005)

(1) Cornillo Nuovo di Amatrice, particolare della decorazione di Dionisio Cappelli del 1511
(2) Pagina da una Biblia pauperum quattrocentesca

Nel passato di Amatrice (Rieti), negli anni che vanno dall’ultimo decennio del Quattrocento al primo decennio del Cinquecento, c’è qualcosa che permette di osservare da vicino un fenomeno linguistico di grande interesse, un evento che è legato al problema più generale e più complesso della morfogenesi di quegli stili popolari che si consolidano quando una cultura periferica approda a una sua limitata ma consapevole autonomia dalla cultura dominante.
Si tratta del brusco scalino stilistico che in quegli anni coinvolge la pittura di Dionisio Cappelli e della sua bottega, una mutazione apparentemente sconcertante che dà il via a una vivace parlata vernacolare talmente irruente da stravolgere lo stile figurativo che fino a quel momento era stato normativo ad Amatrice e nelle sue ville (fig.1). Una colata lavica di ingenui vocaboli popolari che dilaga negli arcaici ex voto più tardi che sono ormai arte popolare come la intendiamo noi oggi (1).

Ma per interpretare adeguatamente questo fenomeno è necessario ricorrere allo strumento della critica interdisciplinare, dando prima un’occhiata allo scenario storico che fa da sfondo a questa vicenda.
Nella tormentata intercapedine che porta dal civile Umanesimo delle città storiche del Quattrocento all’aggressivo protagonismo dei grandi centri del primo Cinquecento si assiste ad un fondamentale, irreversibile cambio di paradigma culturale, quando nel governo della Chiesa si passa dal colto Enea Piccolomini (+1464) al rigido Alessandro Borgia (+1503) e quando si passa dalla volontà di coltivare una civile grammatica figurativa nei piccoli centri umanistici alla concentrazione di tutte le risorse culturali nelle grandi città, con il conseguente abbandono dei progetti di arricchimento culturale del territorio.

Uno degli effetti di questa situazione storica è riscontrabile in prossimità della scadenza del Giubileo del 1500 indetto da Borgia, che alimenta la penetrazione nell’Alto Lazio dello stile romano di Antoniazzo Romano e del figlio Marcantonio per imporre una pittura condizionata dal culto delle icone medioevali teorizzato a Roma da un filosofo carismatico come il cardinale Bessarione e per consolidare una figurazione austera che nell’amatriciano poteva arginare efficacemente la suggestione della fascinosa pittura crivellesca delle Marche e frenare la seduzione di quell’emozionante irrequietudine proveniente dal nord Italia (2).
Ebbene, l’esito di questo tenace lavoro di argine svolto in prossimità del giubileo di Borgia è nell’opera del ‘Maestro della Madonna della Misericordia’, il protagonista che negli anni ’90 opera intensamente nelle chiese delle frazioni di Amatrice, e il suo stile moderato e conciliante viene svuotato e abbandonato dopo la scadenza del giubileo del 1500, quando la cultura dominante sembra improvvisamente disinteressarsi di questa zona di confine.
Il collasso culturale che segue all’abbandono dell’estrema periferia laziale libera uno spazio per la formulazione di una rinnovata cultura locale che è scabrosamente riduttiva ma anche fieramente autonoma. Però questa cultura locale che si apre un varco, quella della parlata popolare di Dionisio Cappelli che scalza l’elegante e compassata figurazione del ‘Maestro’, aveva bisogno di una giustificazione e di un retroterra culturale in grado di sostenerla, un retroterra che gli viene offerto dall’inedito tessuto linguistico stratificato nel Lazio con la presenza degli stampatori tedeschi a Subiaco e a Roma e con il fenomeno straordinario della diffusione di massa delle xilografie tedesche in tutta Europa (fig.2). In quel momento si stava affermando una nuova tecnica espressiva di diffusione massiva (3), ed è a questo vasto tessuto connettivo di diffusione popolare che verosimilmente guarda la pittura amatriciana di Cappelli, già in qualche modo preparata ad un cambiamento dall’ingenua semplificazione segnica che si era insinuata nella zona con le piccole Pietà di matrice o di imitazione tedesca (4).

(3) Anonimo incisore tedesco, xilografia per Sebastiano Brandt, Stultifera Navis, 1498

Adesso, se mettiamo a confronto le sintetiche illustrazioni di Cappelli con le illustrazioni xilografiche circolanti in Europa attorno a quegli anni ’90 (fig.3) possiamo constatare facilmente quanto fosse consapevole questa nuova appartenenza culturale alla strategia della diffusione massiva dell’immagine semplificata e riproducibile in serie (5): la rude semplificazione strutturale della figurazione della bottega di Dionisio Cappelli è chiaramente mutuata o comunque giustificata dalla drastica riduzione a pochi scabrosi elementi grammaticali diffusa dalle xilografie tedesche. 

 (4) Rieti, Tesoro del Duomo, Pianeta di lana, Sec. XV (foto PSAE Lazio)

Nel reatino abbiamo un’interessante conferma di questa giustificazione stilistica offerta dal nord Europa dell’epoca gutenberghiana alla scrittura figurativa popolare: la singolare Pianeta di lana tessuta ad arazzo e conservata nel Tesoro del Duomo di Rieti (fig. 4). Databile anche questa agli anni ’90, la pianeta è un’opera straordinaria che condivide un’intensa simpatia strutturale con le incisioni xilografiche del tempo e con gli analoghi arazzetti conventuali renani. Le sue forme sommarie, intagliate dai segni netti e semplificati di origine xilografica, mostrano una suggestiva parentela con gli affreschi di Cappelli (6).
In questi primi anni del Cinquecento, quindi, è veramente rivelatore il fatto che un pittore locale come Cappelli, una volta accertata la sua gratificante identità di autonomo cantore popolare, tra il 1508 e il 1511 possa firmare vistosamente e orgogliosamente i suoi affreschi, come successivamente a metà Cinquecento continuerà a fare anche un pittore popolare della zona come Bartolomeo di Cola.
E paradossalmente è proprio la presenza nella zona di Amatrice di figure eccentriche come quelle di Cola dell’Amatrice e di Saturnino Gatti (che è presente a Cornillo Nuovo proprio nel 1511 accanto a Cappelli) che ci conferma indirettamente, con l’irriproducibile alta qualità delle loro opere, il carattere di quella profonda mutazione linguistica che in provincia provocava l’irreparabile frattura tra il mondo della comunicazione popolare massiva e quello della ricerca individuale più intensa e autenticamente creativa ma anche drammaticamente isolata, una scissione che da allora ha ulteriormente allontanato il linguaggio popolare di ampia diffusione e di scontata condivisione pubblica dalla più coraggiosa ricerca creativa individuale, separando nella sensibilità comune due forme di cultura che nella loro diversità sono altrettanto vitali e necessarie (7).
La funzione delle xilografie tedesche, in questo processo di consapevolezza dello stile figurativo destinato alla massiva diffusione popolare, rappresenta, pur nella modestia dei suoi limiti, una variante storica di quel ruolo determinante che la miniatura tardoantica aveva svolto in passato nei confronti del mosaico e della pittura altomedioevale e che nel Cinquecento svolgeranno la colta xilografia libraria per l’istoriato della ceramica (8) e l’incisione su metallo per la diffusione in Europa del classicismo romano destinato ad essere mediato e stemperato negli arazzi fiamminghi.
Questa pittura di Amatrice, con la sua consapevole transazione verso l’arte popolare, documenta, come si diceva all’inizio, una delle innumerevoli tappe di quel progressivo smottamento che gli stili figurativi della cultura dominante subiscono verso un registro diverso quando vengono abbandonati per essere declinati in forme impoverite e semplificate ma diffuse capillarmente nella cultura popolare attraverso la facile ripetizione modulare.
Ed è un fenomeno questo, quello della riduzione a semplici moduli seriali ripetibili all’infinito, che è possibile osservare nella regione anche con l’importante gruppo delle scarne Croci arcaiche teramane dei secoli XIII-XV, realizzate con l’impiego di semplificati stampi modulari (9), che entrano in collisione prima con le prepotenti croci angioine del ‘300 e poi nel Quattrocento con l’industria orafa di Guardiagrele. E in questo caso, a differenza di quanto finora osservato per il tardo Quattrocento amatriciano, la cultura dominante colonizza il territorio con grandi forme colte che vengono pensate altrove per sostituire e mettere da parte ciò che la cultura popolare locale aveva già elaborato (10).

2005

Note
1) Cesare Verani, Pitture Quattrocentesche e Cinquecentesche nella città dell’Amatrice e nelle sue ‘Ville’, in AA.VV. Rieti e il suo territorio, 1976.
Verani, che aveva cautamente accennato alla vicinanza del mondo espressivo tedesco, colloca l’attività di Cappelli tra il 1480 e il 1530. Una accuratissima schedatura degli affreschi amatriciani è stata realizzata a suo tempo da Floriana Svizzeretto e da Cristina Ranucci in collaborazione con l’Ufficio Catalogo della SBAS di Roma e Lazio.

2) Chi scrive ha già trattato questo argomento una decina di anni fa, in occasione del ritrovamento a Borbona, nella chiesa di S. Anna, di una decorazione ad affresco attribuibile al ‘Maestro della Madonna della Misericordia e in parte ai pittori popolari amatriciani: G. Guarnieri, Un Inedito affresco del quattrocento nella chiesa di S. Anna a Borbona, RM Borbona, agosto1996.

3) Tra il 1467 e il 1530 apparvero in Italia 7.500 volumi illustrati con xilografie. Dal 1467 a Roma operano stampatori tedeschi con libri illustrati da xilografie: Arnold Pannartz e Konrad Sweynheym lavorano dal 1464 nel Lazio, prima nel monastero benedettino di Subiaco e poi a Roma (cfr. Stefania Massari, Francesco Negri Arnoldi, Arte e scienza dell’incisione, 1987. Per la diffusione del libro xilografico in Italia: Armando Petrucci, Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, 1979.
Una preziosa antologia di illustrazioni popolari è raccolta in Robert Philippe, Il linguaggio della grafica politica, 1980.
Naturalmente non tutta l’attività xilografica del tempo si svolge nell’ambito della comunicazione massiva: l’Hypnerotomachia Poliphili (‘La pugna d’amore in sogno di Polifilo), edita a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio con 170 xilografie, è l’esempio raffinato di una nuova editoria umanistica che sfida apertamente la tradizione della grande miniatura (Cfr. Maurizio Calvesi, Il Sogno di Polifilo prenestino, 1980).

4) Vedi L. Mortari, Opere d’arte in Sabina dall’IX al XVIII secolo, 1957, e Ines Millesimi, Il museo civico di Rieti, 1993, soprattutto per la bella scultura in legno del Museo Civico reatino.

5) Vedi, come esempio tra i tanti, la Nave dei folli di Sebastiano Brandt illustrata da xilografie, in Sapienza figurata, 234 incisioni dal 1457 al 1718, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo 1967.

6) L. Mortari, Il Tesoro del Duomo di Rieti, 1974. L. Scalabroni, Gli arredi sacri del XV secolo nel Tesoro del Duomo di Rieti, 1981, in Aspetti dell’arte del ‘400 a Rieti, catalogo della mostra, Rieti 1981. Sarebbe interessante trovare una traccia documentaria che confermi la presenza della pianeta nel reatino in quegli anni di fine secolo e verificare contestualmente la diffusione locale di stampe tedesche. 

7) Per la coesistenza nel territorio laziale di opere profondamente radicate nel tessuto sociale con opere di grande qualità ma quasi sradicate dal contesto vedi i saggi di Paola Berardi raccolti per Fidelis Amatrix nella rubrica Arte e Territorio: i capolavori da riscoprire. La studiosa ha dedicato all’argomento trattato in queste pagine un suo lavoro universitario.
Vedi anche E. Castelnuovo, C. Ginzburg, Centro e periferia, in AA.VV. Storia dell’Arte italiana, vol.I, Einaudi, Torino 1978, pagg.283-352. 

8) AA.VV. Historiato – libri a stampa e maioliche italiane del Cinquecento, Catalogo della Mostra, Salone Sistino della Biblioteca Vaticana, Giugno-Settembre 1993.

9) Luisa Mortari, La croce nell’oreficeria del Lazio dal Medioevo al Rinascimento, 1979.

10) Cfr. P. Berardi, Le croci processionali della provincia di Rieti, Fidelis Amatrix n.7, 2004.

Il patrimonio del Museo Civico di Amatrice ‘Cola Filotesio’ come mappa territoriale (*)

Amatrice, iI museo prima del sisma del 2016

Un modesto contributo che in questo momento drammatico è possibile e necessario dare ad Amatrice, come persone che operano a vari livelli nel contesto dell’arte e della cultura del libro, è quello di far conoscere meglio il suo interessante patrimonio culturale a cominciare dal Museo Civico ‘Cola Filotesio’, perché anche questo aspetto della civiltà locale ha bisogno di essere urgentemente ricomposto nella sua integrità per tornare ad essere quello che è sempre stato: una preziosa mappa territoriale.
Chi scrive ha avuto l’opportunità, lavorando per anni nell’Archivio Fotografico della Soprintendenza di Palazzo Venezia, si seguire da vicino la nascita del Museo civico di Amatrice e di godere della consuetudine e dell’affettuosa amicizia di Floriana Svizzeretto, la studiosa che prima di esserne la direttrice ha dedicato tante energie a quella esplorazione sistematica del territorio amatriciano che ha portato alla fondazione del museo stesso.
Quelle che seguono sono riflessioni e appunti di lavoro rivolti soprattutto a individuare i legami che innestano la cultura amatriciana in un più vasto contesto extra regionale.
Per la storia dettagliata e per i contenuti del Museo civico si rinvia all’esaustivo catalogo edito nel 2005 a cura di Alia Englen, Brunella Fratoddi, Adriano Ruggeri e Floriana Svizzeretto, il Museo Civico ‘Cola Filotesio’ di Amatrice, sezione storico-artitica.

L’insieme del patrimonio di opere d’arte concentrato nel museo amatriciano costituisce una vera e propria mappa territoriale capace di segnare le tappe dello sviluppo culturale di questa terra di confine posta tra Lazio, Marche e Abruzzo, e già l’inserimento del museo nello spazio della ex chiesa di s Emidio è significativo della sua presenza nel tessuto vivo del territorio.

(1) Amatrice, Museo civico, Madonna in trono col Bambino, sec. XIII, da s Maria di Cossito
(2) (2) Berlino,Prete Martino,Madonna lignea del Centro Italia,1119

Il tracciato del museo inizia dall’opera più antica del comune di Amatrice, la tavola con la Madonna in trono col Bambino (1) attribuita nel catalogo a Ignoto umbro-sabino attivo alla metà del Duecento (cfr. Svizzeretto 2005). Una forma iconica fortemente caratterizzata, memore delle più arcaiche figurazioni italiche, che ha dominato a lungo la figurazione medioevale soprattutto con la sua diffusissima versione plastica (2).

(3) Amatrice,ex Chiesa di s Emidio, Museo Civico, affreschi, sec. XV

Gli affreschi di metà Quattrocento della chiesa che ospita il museo (3) mostrano invece con la loro elegante matrice tardogotica un esempio della continuità di un eloquente gusto narrativo che nel Quattrocento ha continuato a suggerire un intenso racconto figurativo materiato anche da una sua peculiare fascinazione letteraria. Un linguaggio che a metà secolo, nei centri periferici, non aveva ancora subìto l’omologazione dettata dai grandi centri rinascimentali.

Nel tardo Quattrocento Amatrice ha un rapporto privilegiato con la vicina Borbona, lo attestano i pregevoli affreschi (5) trovati nel 1995 nella chiesa di s Anna, uno dei pochi edifici sopravvissuti al sisma settecentesco che distrusse il paese.


(4) Amatrice, s Maria delle Grazie, Maestro della Madonna della Misericordia (notizie 1490 -1500 c.), affresco;
(5) Borbona, S. Anna, Maestro della Madonna della Misericordia (attr.),affresco con i santi Antonio e Rocco, fine sec. XV.

L’affresco con i Santi Antonio e Rocco nella chiesa francescana di S. Anna, è attribuibile stilisticamente al Maestro della Madonna della Misericordia (4) attivo ad Amatrice, ed è databile agli anni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, quando con il giubileo del 1500 di Alessandro Borgia si tenta con Antoniazzo Romano e con il figlio Marcantonio, attivi a Rieti nell’ambito della Confraternita di S. Antonio, un recupero del rigore arcaicizzante delle icone medioevali che è giustificato teoricamente, a Roma, dal filosofo Bessarione’ (cfr. GG, Un inedito affresco del Quattrocento nella chiesa di S. Anna a Borbona. RM Borbona, n. 2, 1996).
‘Il pittore di Amatrice ha lasciato a Borbona un esempio della sua cauta scrittura figurativa formulata tra l’espressionismo crivellesco delle Marche e la severa staticità di Antoniazzo e di Marcantonio Aquili. E subito dopo la scadenza del giubileo si consolida nella zona tra Amatrice e Borbona il forte idioma vernacolare di Dionisio Cappelli, una declinazione popolare dello stile del Maestro della Madonna della Misericordia’ (Cfr. GG, Borbona e il suo patrimonio artistico, 1996-2005, testo in pdf disponibile nel webiste del comune di Borbona, pubblicato anche in Borbona immagini e poesia, a cura di D. Teofili e A. Scarpitti, 2003).
Nel 1995, con una conferenza e visita guidata che organizzai con la Biblioteca comunale di Borbona per la chiesa amatriciana di S Maria delle Grazie, il santuario dell’Icona Passatora, nella frazione di Ferrazza, suggerii di verificare sul posto questo interessante rapporto territoriale tra le due città. E oggi una riproduzione a grandezza naturale dell’affresco di s Maria delle Grazie è conservata nella biblioteca borbontina.
A documentare questi anni cruciali tra la fine Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, il museo di Amatrice conserva quattro tavole della bottega del pittore Dionisio Cappelli, il protagonista locale della declinazione vernacolare del linguaggio rinascimentale (6).

(6) Amatrice, Museo Civico, seguace di Dionisio Cappelli, Quattro Santi (inizio sec. XVI)

La pittura di Cappelli e della sua bottega segna lo scalino di un fondamentale paradigma storico che vede il diverso protagonismo popolare dei centri periferici con la conseguente, dignitosa consapevolezza della propria identità; un linguaggio vernacolare che si avvale di una grammatica figurativa dalla forte impronta popolare con il quale i paesi come Amatrice si differenziano ostentatamente dagli stili imposti dai centri egemoni.
Con un saggio del 2005, pubblicato su Fidelis Amatrix, il periodico diretto da Mario Ciaralli che ne ha fatto per anni un prezioso e insostituibile archivio storico amatriciano, ho cercato di ricostruire la morfogenesi di questo vernacolo locale collocandolo nello sfondo della grande innovazione della stampa a caratteri mobili (cfr. All’origine dello stile popolare di Dionisio Cappelli. Il ruolo delle xilografie tedesche, Fidelis Amatrix n. 12, 2005).

In questi stessi anni, attorno al 1490 si impone ad Amatrice la figura di un artista affascinante, il marchigiano Pietro Vannini (Ascoli Piceno 1413/18 – dopo il 1496), presente nel Museo civico con due capolavori emozionanti, le croci d’argento provenienti dalle frazioni di Pinaco e di Preta (per la vicenda dettagliata delle due croci v il catalogo del museo).

(7) Amatrice, Museo Civico, Pietro Vannini, Reliquario della Filetta, 1472, da S. Francesco

Lo stile raffinato di Vannini si emancipa da un linguaggio tardogotico iniziale, quello del Reliquiario della Filetta del 1472 (7), per approdare alla maniera diffusa nel Lazio e Abruzzo da Nicola Gallucci da Guardiagrele (1385-1462 c) (cfr. Svizzeretto, 2005).
Mentre Nicola alimenta il suo stile più maturo studiando l’esempio di Ghiberti a Firenze, Vannini guarda invece all’espressionismo di un pittore emotivo come il geniale Carlo Crivelli, esule dal Veneto verso Ascoli Piceno dove muore nel 1495.
Però sia Nicola che Pietro hanno nel territorio laziale-abruzzese un formidabile modello strutturale al quale ispirarsi: la maestosa Croce di Borbona del 1320-1330 circa, conservata a Borbona in s Maria Assunta e già facente parte di uno straordinario gruppo di novanta croci processionali angioine legate a L’Aquila (cfr. GG, La Croce di Borbona, RM Borbona, nn. 7~12, 1996, con ristampe e aggiornamenti fino al 2001).

(8) Amatrice, Museo Civico, Pietro Vannini, Croce di Pinaco, 1490 c.

La croce di Pinaco (8) irradia, con i suoi segni acuti innestati nel corpo dell’opera, un’intensa, ferrigna energia plastica che è paragonabile solamente ai dipinti più intensi e amari di Crivelli, mentre la luce delicata dell’argento addolcisce e allo stesso tempo esaspera la sua superficie tormentata.

(9) Borbona, s Maria Assunta, Andrea di Jacopo d’Ognabene (attr.),Croce processionale, 1320-1330
(
10) Rieti, Museo diocesano, Nicola da Guardiagrele, Croce processionale,1450 c, da Antrodoco

Le due magnifiche opere di Vannini, le croci di Pinaco e di Preta (11) vanto del museo, costituiscono uno snodo di eccezionale potenza che si pone tra la cultura espressionista marchigiana e la potente tradizione angioina del Trecento, quella cultura che nel Quattrocento, tra Abruzzo e Lazio, viene adottata con moderazione da Nicola da Guardiagrele (cfr. GG, La Croce di Antrodoco e Nicola da Guardiagrele, Prospettive Sabine, 1987; Paola Berardi, Le Croci processionali della provincia di Rieti, Fidelis Amatrix, n.8, 2004; di Berardi vedi anche: Tra Lazio e Abruzzo, culture che si sovrappongono in una frontiera mobile, in Nel Lazio. Guida al patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico, 2010) (10).

(11) Amatrice, Museo Civico, Pietro Vannini, Croce di Preta, 1490 c.

La seducente Croce di Preta (11) mostra un’integrazione settecentesca, la placca con l’iscrizione che documenta il restauro voluto dalla popolazione di Preta nel 1728, un interevento che rievoca l’analoga integrazione, attuata con un tempietto cinquecentesco posto come nodo astile, che nel 1580 viene operata sulla Croce di Borbona per attestare, anche in quel caso, un restauro.

(12) Amatrice, Museo Civico, Pietro Vannini, Croce di Preta, 1490 c, particolare
(13) Parigi, Louvre, Bartolomeo Bellano, s. Girolamo e il leone, bronzo

Se l’impianto architettonico delle due belle croci amatriciane croci è desunto dal modello angioino di Borbona e dalla variante elaborata un secolo dopo da Nicola da Guardiagrele, la densa volumetria delle figure (12) è invece dovuta forse allo studio che Pietro può aver fatto (come ha suggerito Benedetta Montevecchi) delle opere del veneto Bartolomeo Bellano (Padova, 1437 c- 1497 c), un interessante allievo di Donatello a Padova che poi si è mosso anche nelle Marche, un vigoroso plasmatore di forme implose che sembra aver suggerito la severa, massiva stacicità mantegnesca delle potenti figure forgiate da Vannini (13).

 Amatrice, Museo Civico, dettagli dalla Croce di Preta
Amatrice, Museo Civico, dettaglio dalla Croce di Pinaco

Accanto a questi capolavori ci sono nel museo delle forme plastiche di minore qualità formale e prive della densità culturale portata in dote da Vannini ad Amatrice, che mostrano però un interessante sviluppo della scultura lignea che nel Cinquecento riveste una grande importanza non solamente devozionale per la continuità del tessuto connettivo territoriale: forme che declinano in vernacolo i grandi modelli dei centri maggiori.
L’interessante S Giovanni battista (14) del museo documenta appunto il grande interesse locale per la scultura lignea e permette un confronto con una raffigurazione altrettanto interessante di s Antonio Abate (15) conservata a Borbona in S Anna.

(14) Amatrice, Museo Civico, S Giovanni Battista, legno, sec. XVI
(15) Borbona, S. Anna, S Antonio Abate, legno, sec. XVI-XVII

Nelle due opere agisce la stessa volontà di suggerire il volume in movimento, nonostante i limiti tecnici di una cultura semi popolare. D’altra parte, la scultura borbontina sembra essere una derivazione vernacolare dello straordinario S. Antonio abate in terracotta di Saturnino Gatti (+1521) conservato nella chiesa omonima di Cornillo Nuovo, frazione di Amatrice, e databile al 1511.

(16) Amatrice, Museo Civico, Cola dell’Amatrice, Sacra Famiglia, 1527
(17) Giovanna Grumo, La pittura del Cinquecento nel reatino. Dipinti su tavola e su tela.
Repertori dell’Arte del Lazio n.3,

La figura eccentrica di Nicola Filotesio detto Cola dell’Amatrice (Amatrice, fraz. Filetta, 1480-90 – Ascoli Piceno post 1547) è rappresentata nel museo da un dipinto, la Sacra famiglia del 1527 (16) proveniente da una chiesa locale, improntato a quella maniera raffaellesca che dai primi anni del Cinquecento ha condizionato in profondità tutto il territorio del Centro Italia attraverso l’immissione sistematica di stampe realizzate a Roma.
L’attività di questo interessante pittore è stata adeguatamente documentata nel volume realizzato dalla Soprintendenza per il Lazio nel 2011 al quale hanno dato un contributo anche chi scrive e Paola Berardi: Giovanna Grumo, La pittura del Cinquecento nel reatino. Dipinti su tavola e su tela. Repertori dell’Arte del Lazio -3, L’Erma di Bretschneider, Roma. In copertina (17) figura uno dei dipinti più significativi di Cola, Il Cristo Redentore tra profeti e angeli (1515) conservato nella collezione della Cassa di Risparmio di Rieti, un esempio di quella splendida maniera eccentrica che Cola ha coltivato prima della sua adesione al dettato raffaellesco documentato dal dipinto amatriciano.

(18) Amatrice, Museo Civico, Altare maggiore, 1666-1672, attribuibile a G. Gigli
(19) Borbona, S Anna, Altare ligneo, prima metà del sec. XVII

All’inizio del Seicento troviamo un altro segno del legame che unisce Amatrice a Borbona, gli altari lignei realizzati dalla bottega di intagliatori Gigli.
Il grande altare maggiore (18) della ex s Emidio, incorporato nel museo civico, è databile agli anni 1666-1672 e attribuibile a Giambattista Gigli (cfr. Svizzeretto, 2005): un eccellente capolavoro di una maniera ampiamente diffusa nel territorio, un’opera plasmata da un linguaggio che attenua intenzionalmente l’enfasi barocca a favore in una cauta conservazione della più composta struttura del manierismo tardo rinascimentale.
A Borbona gli altari secenteschi di S Anna (19) sono di più modesta fattura, forse di bottega dei Gigli, però fanno parte di un raro complesso di decorazione lignea ancora integra che si estende a tutto lo spazio della chiesa, dal soffitto alla sacrestia.
Agli intagliatori Marco e Giambattista Gigli hanno dedicato dei saggi accurati Adriano Ruggeri e Gialuigi Simone in Fidelis Amatrix n.26 del 2007 e n.30-31 del 2008.

(20) Amatrice, Museo Civico, Giulio Cesare Bedeschini, Crocefissione con Santi, sex, XVII
(21) Borbona, Convento di s Anna, Vincenzo Manenti e bottega, Storie di s Francesco (particolare), sec. XVII affresco

Infime, il dipinto con Crocefissione e santi (20) del poco documentato Giulio Cesare Bedeschini, forse piemontese, attivo a L’Aquila negli anni 1607-1625 (cfr. Svizzeretto 2005) permette di individuare un ulteriore e fondamentale elemento del tessuto connettivo periferico, quello dei tanti pittori secenteschi che nella prima metà del secolo hanno operato nel territorio, non solamente laziale, con uno stile moderato e colloquiale materiato da forme di grande leggibilità popolare e articolato in limpidi moduli facilmente ripetibili dai pittori locali, uno stile che evita intenzionalmente le complesse forme del barocco, quelle icastiche del classicismo e quelle perturbanti del naturalismo di matrice caravaggesca.
Ebbene, questa maniera di Bedeschini è analoga a quella di un pittore a lui molto vicino e quasi contemporaneo, Vincenzo Manenti (21), che ha lasciato a Borbona e in tutto il Lazio una grande quantità di opere realizzate con l’aiuto del padre Ascanio e dell’attivissima bottega (cfr. i testi di GG e PB in Il Cavalier Vincenzo Manenti e il suo tempo, 2004, Atti del Convegno tenuto a Orvinio, Castello Malvezzi, nel 2000).
Una conferma ulteriore del carattere extra regionale e di vocazione territoriale del patrimonio amatriciano.

(*) Intervento alla giornata dedicata ad Amatrice dalla Biblioteca comunale di Borbona (8 ottobre 2016)

Per una riflessione critica sulla morfologia delle opere dei Maestri di Castel s Elia (*)

Basilica di Castel s Elia, particolare degli affreschi, sec, XI-XII, Foto SBAS Lazio

In passato anche gli studiosi più esperti hanno sempre avuto qualche difficoltà nell’individuare e delimitare chiaramente il corpus dei tre Maestri della basilica di Castel s Elia, ed è naturale, considerando la frequente condivisione delle stesse matrici stilistiche che nel corso dell’XI secolo c’è stata tra i pittori dei cicli laziali, matrici comuni che sono state quasi sempre trasmesse dai libri miniati più prestigiosi, come hanno dimostrato gli studi di Toesca (1929), Garrison (1955), Matthiae (1965), Zuccaro (1977) e Piazza (2002).

Una attenta lettura delle forme permette però di aggirare la suggestione epidermica delle somiglianze esteriori e di individuare, nei limiti del possibile e con ampi, inevitabili margini di errore, la specificità strutturale di questa interessante bottega operante tra gli ultimi decenni dell’XI secolo e l’inizio del XII.

Più che di influsso bizantino sui nostri Maestri, che è presente nella loro opera come volontà esplicita di citare letteralmente e ostentatamente le forme ravennati e romane del VI secolo, si può parlare di un linguaggio che è invece profondamente materiato dalla più radicata tradizione romana e anche, come si sostiene in questa sede, dal modello degli affascinanti Exultet miniati del X secolo.
D’altra parte, laddove nell’arte bizantina si immaginano forme ieratiche e astratte c’è invece un’incredibile e perturbante carnalità memore della pittura romana più sensitiva, una matericità che viene trasmessa dalle tante miniature medio orientali e che trova poi nelle zone periferiche monastiche della Cappadocia, nel X secolo, forme di estremo, viscerale espressionismo.
Ed è significativo che le forme più avanzate della pittura del XI secolo, quelle della stupefacente decorazione di S Angelo in Formis (1087) che si avvale di pittori chiamati dal medio oriente bizantino nel monastero di Montecassino, edificato proprio a partire dallo stesso anno (1071) della definitiva esclusione della presenza di Bisanzio dall’Italia, portino ad una soluzione magmatica che non ha nessun precedente nell’arte bizantina ufficiale, a parte li scontati schemi superficiali, rispecchiando semmai intensamente la fascinazione dell’arte provinciale anatolica, con una inedita e irripetibile qualità poetica che non può essere definita bizantina.

I M, a Castel s Elia, citano apertamente la Ravenna bizantina e la romana s Cosma e Damiano del VI secolo, certo, ma lo fanno intenzionalmente, perché la cultura benedettina nell’epoca della lotta per le investiture impone rigorosi riferimenti all’ortodossia; però il fresco serpeggiare vivace del segno slegato all’interno delle rigide icone dei M tradisce una seppur frenata capacità di pensare l’immagine in termini di ariosa e liberatrice empatia con l’osservatore, una freschezza grafica che ha la sua origine più remota nella fluida pittura vascolare italica che ha portato gradualmente alla straordinaria realizzazione degli Exultet del X secolo, una delle fonti vitali della morfologia stilistica dei M.

Per quanto riguarda questa specificità linguistica locale dei M c’è un passo illuminante di Gandolfo (1988):‘Gli affreschi di s Pudenziana debbono essere considerati ( ) testimonianza dell’esistenza a Roma di una prospettiva pittorica autonoma rispetto alla maniera degli affreschi di s Clemente e rispetto alle novità di importazione da essi proposte. Una tradizione calata nella precedente cultura locale, cosa del resto confermata dal fatto che in essa trovano riscontro alcuni, anche se non tutti, i miniatori attivi per la Bibbia di s Cecilia. Si tratta di una maniera in cui al linearismo fluente di s Clemente si contrappone un fare saldamente plastico e costruttivisticamente geometrico, nell’articolazione convenzionale delle forme’ (pag.254).
Una definizione perfetta della maniera dei M.

Ora, i tre pittori, Johannes et Stephanus fratres pictores romani e Nicholaus nepos vere Johannis. sono sicuramente li stessi che operano, inconfondibili, a Roma nel riquadro aggiunto nel 1066 (?) in s Maria in Pallara, in s Pudenziana, nel ciclo della basilica di Castel S Elia e quindi nelle miniature delle Bibbie ‘atlantiche’ di s Cecilia e del Pantheon se non anche, come si sostiene in queste pagine, nel Salterio di Mantova.
A Nepi e a Magliano opera presumibilmente il più giovane e meno esperto del gruppo, Nicola (nepos), che può aver guidato più tardi, dopo il 1122, un suo gruppo di collaboratori eclettici in s Maria f.p. di Antrodoco, ultima, ma significativa pallida traccia della maniera dei M.
E qui è opportuno ricordare che la cronologia del corpus dei M di CsE, come quella di tante altre imprese medioevali, deve essere considerata orientativa: per avere un’idea di quanto la datazione delle opere attribuite ai M possa essere oggetto di continue oscillazioni cfr. Premoli 1975.

Pannello aggiunto dopo il 1061, anno del governo di Montecassino sulla chiesa di s M in P
Attribuito ai M di CsE

L’esordio (o presunto esordio) dei M di CsE, che siano stati o meno dei monaci, è già nell’ambito benedettino: nel 1061 S Maria in Pallara (S Sebastianello al Palatino, affreschi del 973-1000) entra nella sfera del governo di Desiderio di Montecassino, abate del monastero dal 1058 al 1086, poi papa Vittore III dal 1086 al 1087, e nel 1066 viene aggiunto un pannello con s Domenico e altri due santi, un riquadro che oggi è attribuito definitivamente ai M di CsE (cfr. Romano, 2006).

S Maria in Pallara, 973-1000; Castel s Elia

Il ciclo di S M in Pallara è il modello normativo adottato dai M, e la loro carriera, a quanto pare, inizia proprio nel momento in cui Desiderio assume il governo di una chiesa storica romana che mostra esplicitamente il recupero anacronistico dell’iconografia e della maniera della tradizione paleocristiana e tardo antica, nel contesto storico che vede la rigida contrapposizione tra i filo imperiali, tra i quali figurano i potenti monaci di Farfa, e i filo papali come i benedettini di Montecassino, custodi dell’ortodossia.
Il ruolo storico dei M è quindi fin dall’inizio quello di ribadire con lucida determinazione i valori della tradizione, e nessuna chiesa romana poteva offrire un modello più idoneo di s M in Pallara, però la rigorosa icasticità di quel ciclo non poteva bastava da sola per la creazione di un linguaggio capace di fronteggiare il potente sviluppo coevo che stava portando al vivace espressionismo di Tuscania e al racconto fluido e accattivante, europeo, di s Clemente.
Si rendeva necessario un fertile catalizzatore.

 S M in Pallara; Castel s Elia; Exultet di Gaeta, fine sec. X

Fenomenologia dello stile. I M coniugano con un colpo di genio la perentoria icasticità di s M in Pallara alla forma creativa più popolare dell’inizio del secolo, gli exultet, plasmando una forma straordinariamente efficace di ibridazione tra il volume fossilizzato di matrice ravennate, quello perentoriamente rievocato in s M in P,

 Exultet di Gaeta, fine sec. X o prima metà del XI; particolare da CsE

e la scrittura vivace e piacevolmente sfribrata delle miniature degli E, destinata ad una popolare condivisione pubblica, un interessante processo di fondamentale calibratura strutturale che gli studiosi dei M sembrano aver trascurato nella pur copiosa letteratura sull’argomento; un’ipotesi critica che è forse legittimo ritenere inedita, almeno a questa data (1994).

Miniatura dalle Pericopi di Enrico II (1007-1012)

Nella loro attenta scelta dei modelli, peraltro, i M integrano anche un elemento della scrittura figurativa delle grandi miniture ottoniane delle Pericopi di Enrico II (1007-1012), dalle quali accolgono la lucida schematicità ripetitiva, la moltiplicazione modulare dei segmenti e la lineare immediatezza compositiva; un riferimento quanto mai opportuno, perché il gusto ottoniano di Enrico II è legato all’ultima possibilità di un rapporto armonioso che in quel momento era ancora possibile tra Chiesa e Impero, immediatamente prima della crisi.

Benedictio fontis, Gli angeli cacciano gli spiriti corrotti, c. 969-982. Roma, Biblioteca Casanatense.

Ci si rende conto di quanto queste scelte fossero premeditate e mirate mettendo a confronto gli Exultet e le Pericopi con gli altri grandi modelli miniati che intanto stavano plasmano profondamente i fondamentali cicli della pittura del tempo: la Benedictio Fontis (969-982), matrice privilegiata per tante imprese pittoriche del tempo (cfr. Zuccaro (1977),

Miniatura dal Registrum Gregorii (sec.X-XI)

e soprattutto il magnifico Registrum Gregorii (sec. X-XI), una delle possibili matrici della seduttiva scrittura fluida e malleabile del Maestro di Beno in S Clemente.

I M, in definitiva, offrono con il loro lavoro una delle eclettiche varianti della complessa cultura figurativa benedettina, che nell’arco del XI secolo culmina nel capolavoro assoluto della pittura medioevale europea, gli affreschi di s Angelo in Formis, voluti da Desiderio e completati nell’anno della sua morte (1087), mentre altrove si lavorava agli altri grandi cicli pittorici laziali con i loro diversificati linguaggi: S Pietro a Tuscania (1085), S Clemente a Roma (1099), e la stessa Basilica di Castel s Elia (sec XI –XII).

S Pudenziana, particolare

Gli inizi. Entro il 1085 i M realizzano a Roma l’Oratorio di s Pudenziana, un’opera che perfeziona il loro peculiare linguaggio prima che questo si estenda in tutte le sue varianti in Castel S Elia.

Nell’Oratorio i riferimenti all’ortodossia iconografica paleocristiana sono espliciti, e contrastano apertamente, da Roma, lo sviluppo quasi espressionista del ciclo coevo di s Pietro a Tuscania (1085).

Castel S Elia, fine XI Inizio XII sec

Quando poi negli anni tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII i M lavorano alla loro opera più impegnativa, il ciclo di Castel S Elia, i riferimenti al passato si rafforzano ulteriormente fino a citare letteralmente i mosaici di Ravenna del V secolo, con una ragionata e motivata scelta iconografica che ha fatto parlare erroneamente di inesistente stile bizantino.

 Bibbia di s Cecilia, 1097; Bibbia del Pantheon (sec. XI-XII)

Dopo (o durante) il lavoro in Castel s Elia, i M si dedicano, a quanto pare, alle miniature della Bibbia di S Cecilia (datata 1097) e di quella più tarda cd del Pantheon (Vaticano).
Siamo negli anni a cavallo tra i due secoli, e anche qui i M mostrano l’osmosi quasi polemica, soprattutto nella cd B del Pantheon (a ds) tra la loro peculiare maniera (le due figure simmetriche) e l’anacronistica rievocazione di etimi esplicitamente arcaici, che in questo caso fanno pensare addirittura alla più remota arte copta (l’angelo in alto), un attestato del rigore tradizionalista giustificato più che mai dalla crisi che stava portando alla provvisoria soluzione del concordato di Worms e che sarebbe durata quindi ancora almeno venti anni.

Già Toesca (1929) notava a proposito della Bibbia di s Cecilia un contatto con Castel s Elia, mentre Garrison (1955) accostava le figure della Bibbia di s Cecilia a Castel S Elia, ma anche a s Pudenziana e a Magliano (cfr. Premoli, 1975).

Ebbene, forse è possibile aggiungere al corpus dei M un’opera importante, il Salterio della scuola benedettina di S. Benedetto Po (Polirone) conservato a Mantova nella Biblioteca comunale.
Guardando a suo tempo la bella tavola del Salterio pubblicata da Salmi nel 1955 (tav. IV), che lo studioso attribuiva a scuola padana con influssi nordici, notai la forte vicinanza tra il Salterio e la maniera dei M di CsE, trovando poi una conferma nelle parole illuminanti di Toesca (1927), riflette tanto lo stile delle Bibbie atlantiche romane che potrebbe provenire dall’Italia centrale’ (pag.1058), e in un passo di Ragghianti (1968), che attribuisce a quel maestro una ‘formazione sostanzialmente romana’ (pag. 854).

Non ho consultato il libro di G. Zanichelli, Le bibbie atlantiche e il monastero di s Benedetto al Polirone, Arte medioevale, anno VII, n.1, 1993, e quindi non ne conosco i risultati, ma per quanto mi riguarda già il confronto di queste poche immagini che seguono parla chiaro: il Salterio è presumibilmente opera degli stessi autori della Bibbia del Pantheon.

Il volume di Emma Pirani, Miniatura romanica, 1966, permette, con le sue riproduzioni, di mettere agevolmente a confronto la Bibbia del Pantheon con il Salterio di Mantova.

A sn: Bibbia del Pantheon; a ds Salterio di Mantova

E’ impossibile non accorgersi delle evidenti corrispondenze stilistiche che intercorrono tra le due opere: la tavola 26 (Bibbia del Pantheon) coincide fin nei dettagli morelliani più minuti, come quelle singolari capigliature rosse, con il Salterio di s Benedetto Po (tavola 40).

 A sn: Bibbia del P; a ds: Salterio di M

I riscontri formali e iconografici tra le due opere sembrerebbero inequivocabili.

 A sn: Bibbia del P; a ds: Salterio di M

 

 A sn: Bibbia del P; a ds: Salterio di M

 Particolare da S Pudenziana; a ds: Salterio di Mantova 

E anche l’altra bella tavola del Salterio pubblicata da Salmi nel 1955 (a ds), e da Ragghianti nel 1968, conferma pienamente la coincidenza stilistica: la stessa plastica icasticità, l’estrema caratterizzazione tipologica delle figure, che poi è la cifra distintiva dei M di CsE, lo stesso impianto timbrico destinato all’accordo acuto del rosso e del verde con forti intarsi di blu, e la stessa contratta ripartizione ritmica;

 A sn: Bibbia del P; a ds Salterio di M

elementi formali fortemente caratterizzati che rendono inverosimili le passate attribuzioni del Salterio alla cultura del nord Italia con influssi europei.

Insomma, è difficile resistere alla tentazione di immaginare il centro benedettino di Polirone che in piena crisi tra papato e impero commissiona a Roma un libro importante da spedire nella terra governata da Matilde di Canossa (+1115), la mediatrice che nel 1077 ospita nella sua residenza il pontefice Gregorio VII in attesa del (momentaneo) pentimento dello scomunicato Enrico IV.

I Maestri di Castel s Elia erano forse alla conclusione della loro carriera, anziani e lontani dalla fatica dei ponteggi, mentre il membro più giovane della bottega, Nicola, il nipote di Giovanni, era ormai autonomo e lavorava con i suoi modesti aiutanti in S Biagio a Nepi, nella Grotta degli angeli di Magliano e forse ad Antrodoco.

Nepi, S Biagio

Nicola dipinge, presumibilmente, a Nepi e a Magliano Romano con il suo stile più abbreviato: è l’erede della bottega dei due maestri ormai attempati che possono aver lavorato per l’ultima volta a cavallo tra i due secoli per le suggestive miniature delle Bibbie e (credo) del Salterio.

Il ciclo della Grotta degli angeli di Magliano Romano, databile ai primi decenni del Sec. XII e attribuito unanimamente a Nicola, è dipinto con uno stile più sciatto e più adatto al carattere popolare di un sito rupestre.

Antrodoco, s Maria extra moenia; Castel s Elia

Dopo il 1125, quando Farfa, con il Concordato di Worms, non è più abbazia imperiale e passa sotto la chiesa romana, la chiesa di s Maria extra moenia di Antrodoco, già possedimento di Farfa, è decorata da un gruppo di pittori eclettici di modesta levatura guidati forse da Nicola, che sembra riconoscibile con la sua maniera nella figura del profeta con cartiglio (a sn).

Il ciclo di Antrodoco riepiloga tutti i temi romanici in una interessante summa iconografica:
Il ciclo pittorico dell’abside è indubbiamente un importante evento celebrativo che non può non essere legato alle vicende di Farfa. Come è noto, dopo il Concordato di Worms (1122), l’abbazia rientra nell’obbedienza romana dopo la lunga militanza filoimperiale, e solo allora lo spirito della riforma benedettina, sostenuta da Ildebrando di Soana (Gregorio VII dal 1073 al 1085) e da Desiderio di Montecassino prevale sugli interessi della potente casta monacale farfense. Il Regesto di Farfa conclude la sua lunga cronaca nel 1124; nel 1125 l’abate Adenolfo sancisce ufficialmente la sudditanza di Farfa al potere papale, e proprio in quest’anno potrebbe essere stato redatto nella chiesa di Antrodoco un vero e proprio atto di consacrazione con un ciclo pittorico capace di riproporre esplicitamente i grandi temi delle chiese benedettine del tempo, un’opera realizzata verosimilmente da pittori benedettini’.
Cfr. Paola Berardi, Giorgio Guarnieri, Antrodoco medioevale. Una lettura inedita della decorazione di Santa Maria extra moenia e del battistero, n. 21, Fidelis Amatrix, novembre/dicembre 2006.

Lo sfondo storico è noto: dal 910 l’abbazia di Cluny è il primo monastero sottratto alle interferenze feudali; dopo il Privilegium Othonis di Ottone I (962) Farfa aderisce alla riforma cluniacense e da allora sarà filo imperiale e avversa a Roma, soprattutto con l’abate Berardo I (1047-1089), che interviene nel sito rupestre di Tancia. Nel 999, per disposizione di Ottone III, Farfa può eleggere l’abate senza interferenze papali (Cfr. Premoli, 1974).

Gli altri linguaggi

S Pietro, Tuscania, 1085

Mentre i M di CsE operano vengono realizzati gli altri grandi cicli laziali e campani che mostrano quanto fosse articolata la strategia della comunicazione pittorica nel XI secolo: dalle animate figurazioni di s Pietro a Tuscania

S Angelo in Formis (Capua), 1087

alla perturbante, convulsa matericità di s Angelo in Formis,

Roma, S Clemente, 1099

mentre a Roma risplende più serenamente il racconto sdrammatizzato e colloquiale del raffinato Maestro di Beno nella basilica inferiore di s Clemente.

I siti rupestri

All’inizio del XII secolo i siti rupestri laziali, bonificati dalla presenza benedettina che ne ha cancellato drasticamente la memoria etrusca e longobarda, appaiono come una declinazione ormai quasi vernacolare della grande pittura del secolo precedente: esemplari in questo senso sono quelli quasi coevi di Magliano Romano e del Monte Asprano. 

Uno studio aggiornato sulla pittura dei siti rupestri è offerto dal saggio di Simone Piazza, Pittura rupestre medioevale, 2006, uno specialista che ha già pubblicato nel 2002 l’eccellente studio La grotta dei Santi a Calvi e le sue pitture, RIASA, n. 57, pagg. 169-208.

Vallerano grotta del Salvatore, II metà del X sec.

I resti della decorazione rupestre laziale più antica, quella di Vallerano, mostrano il riflesso dell’aspro linguaggio alimentato nel X secolo dalla tradizione cappadocena che i successivi interventi benedettini, nei siti più tardi, hanno avuto il compito di addolcire e stemperare con forme più moderate e meno emotive.
La straordinaria arte dei siti rupestri della Cappadocia è documentata dal magnifico libro di Catherine Jolivet-Lévy, L’arte della Cappadocia, 2001.
Nel 2008 l’Università della Tuscia ha promosso un opportuno convegno di studi su La Cappadocia e il Mediterraneo esteso a Roma con una mostra.
L’Università La Sapienza studia le chiese rupestri del Lazio.
Nell’archivio fotografico ho rinvenuto a suo tempo e messo in sicurezza nell’ufficio tecnico una serie di rilievi grafici preparati evidentemente in occasione di un mancato studio dei siti rupestri laziali.
Nel 2009 ho presentato alla Sop. Lazio un progetto di studio dei siti rupestri.

Al polo opposto dell’emotiva pittura di Vallerano c’è il sito rupestre del Monte Arprano a Roccasecca, databile, secondo chi scrive, tra il 1122 (Worms) e il 1137, ultimo anno del controllo benedettino su Roccasecca (cfr. G. Guarnieri, Pittura medioevale a Roccasecca, appunti critici sugli affreschi della chiesa rupestre di Monte Asprano, Il Cronista, 2005).
Nel 2012 sono intervenuto al convegno di Roccasecca dedicato al complesso di Sant’Angelo in Asprano sottolineando l’esito eclettico della tarda cultura benedettina che prevedeva la sopravvivenza ormai manieristica dell’osmosi tra la perentoria icasticità dell’arcaica Madonna orante e la vivace stilizzazione tipologica delle figure adiacenti, una maniera ormai lontana dell’eccezionale livello qualitativo raggiunto in s Angelo in Formis grazie alla potente personalità di Desiderio.

La vicenda della Grotta degli angeli di Magliano Romano

Quando attorno al 1994 vennero nell’Archivio Fotografico di PV il parroco di Magliano, don Angelo Baiocchi, e un giovane studioso locale, Antronio Migliarelli, per chiedere informazioni del ciclo della Grotta degli angeli, prelevato dalla sua sede nel 1939, si stupirono piacevolmente nello scoprire che conoscevo bene i dipinti (pubblicati nel 1968 da Ragghianti e presenti nell’Archivio con le bellissime foto storiche utilizzate per l’articolo del 1939) e che sapevo dove trovare gli affreschi staccati e conservati nel grande deposito di PV. Fu l’inizio della lodevole restituzione al territorio del ciclo che oggi è conservato a Magliano in s Giovanni Battista.

Magliano, gli affreschi della Grotta degli angeli in situ prima del distacco del 1939, foto SBAS Lazio

La vicenda degli affreschi di Magliano è interamente documentata dalle foto storiche conservate nell’Archivio fotografico di Palazzo Venezia (Sop. Lazio): nel 1939 Pasquale Rotondi ha ricostruito le fasi dello strappo dei dipinti dalla Grotta degli angeli (Le Arti, 1939) per conto della Soprintendenza alle Gallerie.

Gli affreschi durante la fase di distacco e ricomposizione

Gli affreschi conservati nella Galleria Corsini già dall’anno 1939

 Sala della Galleria Corsini con gli affreschi (1939), Foto SBAS Lazio

Nel 1994 gli affreschi vengono restaurati per la restituzione a Magliano Romano (1999).

IL Messaggero riporta la notizia del recupero (agosto 1999).

I dipinti durante la stuccatura

Particolari durante il restauro

I dipinti collocati attualmente nella chiesa di s Giovanni Battista a Magliano 

S Giovanni Battista

Nota
I Maestri di C s Elia continuano ancora oggi (2018), nonostante tutto, a essere poco conosciuti; soprattutto la vicenda di Magliano è quasi ignorata: la scheda Treccani dell’Enciclopedia dell’Arte Medievale, firmata da S. Manacorda, non è aggiornata dal 1995. E’ utile per chiarire la cronologia dei M, ma non menziona il ciclo di Magliano Romano, che veniva parzialmente riscoperto proprio negli stessi anni di quella scheda. 

In Roma Sacra i M sono ignorati: nell’itinerario 28 del 2004 si pubblica una foto dell’Oratorio di s Pudenziana con l’attribuzione generica a Scuola romana dell’XI secolo, senza altri commenti; nell’itinerario 3 del 1995 il pannello in S Maria in Pallara è datato al ‘tardo XI secolo in virtù della presenza benedettina’ senza citare l’attribuzione di nostri pittori.

Due belle foto del ciclo di Magliano sono state pubblicate in Nel Lazio. Guida al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico, rivista semestrale della SBAS Lazio, 2010, in un articolo che riepiloga il progetto che ho presentato nel 2007 al soprintendente per una mostra delle foto storiche dell’Archivio Fotografico di PV, anche se nell’articolo, firmato come d’accordo dalla direttrice dell’Archivio quando io ero già in pensione (2010) il progetto è datato erroneamente al 1995, confondendolo con un’altra iniziativa che ho promosso e realizzato in quell’anno.

(*) 1994
Con aggiornamento al gennaio 2018

Bibliografia essenziale
La pittura
Pietro Toesca, Il Medioevo, I tomo, 1927

Edward B. Garrison, Studies in the History of Medieval Italian Painting, Florence, 1955, vol. III.
Guglielmo Matthiae, Gli affreschi di Castel S Elia, RIASA, 1961.
Guglielmo Matthiae, Pittura romana del Medioevo, secoli XI-XIV, vol. II, Palombi Editori, Roma, 1965, con aggiornamento scientifico di Francesco Gandolfo (1988).
Carlo Ludovico Ragghianti, L’Arte in Italia, vol. II, 1968, Gherardo Casini editore, Roma.
Beatrice Premoli, Gli affreschi di s Biagio a Nepi, 1975, Commentari, pag. 135-141.
B. Premoli, La chiesa abbaziale di Farfa, RIASA, nn.21.22, 1974-1975, pag. 5-77.
B. Premoli, Affreschi medioevali nella chiesa dell’Assunta di Ceri, in Colloqui del Sodalizio degli Storici dell’Arte, n. 5, 1975-1976, pagg. 25-33.
Adriano Prandi, Arte in Sabina, in Rieti e il suo territorio, Milano, 1976
Antonio Cadei, S. Maria Immacolata di Ceri e i suoi affreschi medioevali, Storia dell’Arte n,44, 1982
Julie Enkell Julliard, Il Palatino e i Benedettini, un unicum iconografico a s Maria in Pallara, RIASA, n.57, 2002, pagg.209-230.
Paola Berardi, Giorgio Guarnieri, Antrodoco medioevale.Una lettura inedita della decorazione di Santa Maria extra moenia e del battistero, Fidelis Amatrix n. 21, novembre/dicembre 2006
Serena Romano, La pittura medioevale a Roma. Corpus 4, 1050-1198, 2006

La miniatura come modello normativo per i cicli pittorici
P. Toesca, Miniature romane nei sec. XI e XII, RIASA, 1929, pag.69-96.
Mario Salmi, La miniatura italiana, 1955
Carto Bertelli, Miniatura medioevale, vol, II, 1966
Emma Pirani, Miniatura romanica, 1966
Moneti, La miniatura benedettina
G. Zanichelli, Le bibbie atlantiche e il monastero di s Benedetto al Polirone, Arte medioevale, anno VII, n.1, 1993 (non consultato).

La pittura laziale nei siti rupestri tra X e XII secolo
Pasquale Rotondi, Il distacco degli affreschi di Magliano Romano, Le Arti, 1939-1940
Righetti Tosti, sul sito rupestre di Tancia (pag.14-27) in AA.vv. La Sabina medioevale, Rieti 1990.
R. Zuccaro, Gli affreschi nella Grotta di S Michele a Olevano sul Tusciano, 1977
G. Guarnieri, Gli affreschi medioevali della Grotta degli angeli di Magliano Romano, 1994 (inedito fino al 2018)
Catherine Jolivet-Lévy, L’arte della Cappadocia, 2001.
Simone Piazza, La grotta dei Santi a Calvi e le sue pitture, 2002, RIASA, n. 57, pagg. 169-208.
Dalla tesi di laurea (1997) dello studioso presso la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università degli studi della Tuscia di Viterbo. L’argomento è stato ripreso da P nella tesi di dottorato del 2002 con la cotutela parigina di C. Jolivet-Lévy.
Simona Moretti, Alle porte di Roma: un esempio pittorico e il suo contesto da ricostruire. La ‘Grotta degli angeli’ a Magliano Romano, Rendiconti, Pontifica Accademia Romana di Archeologia, n. 76, 2003-2004.
Simone Piazza, Pittura rupestre medioevale, 2006

Per la dizione tradizionale Exultet, seguita dagli studiosi di miniatura invece dell’attuale Exsultet, cfr. Enciclopedia cattolica online.