Televisione

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Televisione

Per chi è nato nel 1947 è più facile difendersi dall’invadenza barocca della figurazione televisiva. Guardare la televisione in b/n al bar, di sera, e non a casa, ha permesso alla mia generazione di coglierne l’aspetto teatrale e artificiale.

Negli anni ’50 la Televisione subiva una mutazione: integrava la sua matrice originaria, quella del cinema di derivazione popolare di Meliès, con il teatro.

La letteratura, in forma di riduzione teatrale, ha conosciuto un momento di bellissima divulgazione attraverso la prima Televisione italiana degli ultimi anni ’50. Ricordo soprattutto con grande emozione L’idiota di Dostoevskij, con Giorgio Albertazzi trasognato e quasi diafano nel delicato bianco e nero dell’epoca (1959, regia Giacomo Vaccari). Molto bello anche l’Amleto di Gassman del 1955 (un anno dopo l’inizio delle trasmissioni del 1954) con Zareschi e Benassi, regia di Claudio Fino, uno spettacolo specificatamente televisivo, come L’idiota e come il Macbeth: scenografia schiacciata e grigia, volutamente informe e priva di profondità, costanti primi piani, estrema attenzione per la parola esaltata dal bianco e nero dell’epoca.
Quando nel 1967 appare il Caravaggio di Volontè ho scoperto la voce teatrale scabra, a tratti confusa, priva di stilizzazioni accademiche. Mi fece dimenticare la retorica degli attori televisivi del repertorio classico e quella scolastica delle stesse commedie televisive.

Il magnifico Macbeth con Glauco Mauri, del 1975, era recitato con un’estrema naturalezza quasi anti teatrale e quindi adatta alla ripresa ravvicinata della camera televisiva (nella foto la sequenza impressionante delle Streghe).

Vasi comunicanti: Arte e Televisione (2010), Esteticità.

2015. La bella serie televisiva francese Les Revenants (2012), alla quale ha contribuito all’inizio anche Emanuele Carrére per la sceneggiatura, è la risposta dignitosa e colta alle orribili serie americane, con le sue atmosfere raffinate, l’intenso ritmo letterario, la fotografia memore del migliore cinema francese, la recitazione scabra e naturale, un racconto che non sconfina mai nel genere narrativo legato alla paura dell’ignoto per essere invece materiato da un indefinito perturbante, con una suggestione che è più interiore che concretamente materiale: tutto questo fa dimenticare il cinema declinato in televisione di Lost, racconto piacevole ma limitato da un linguaggio che è sempre artificiale.
Les Revenants mi fa pensare alla risposta colta e civilissima che il Cinema europeo seppe dare all’infestante cinema americano nei primi decenni del ‘900, soprattutto con la cultura tedesca e scandinava.

Era affascinante per me pensare come in Televisione fosse passato John Cage (Lascia o raddoppia, 1958), ma la trasmissione analoga della televisione americana visibile su YouTube (2010) mostra purtroppo uno spettacolo ridicolo, dove Cage assume tristemente la figura del quacchero puritano che non si scompone di fronte all’irrisione del pubblico pur di officiare il suo patetico rituale: una scena imbarazzante che sembra tratta da un film con Buster Keaton o con Jerry Lewis. La triste retorica della nuova accademia aveva creato già, in questo caso, il mito dell’artista incompreso che si esibisce con candore di fronte ad un pubblico popolare sfidandone serenamente le risate, Ma in realtà C era patetico come Gary Cooper ne Il buon samaritano. L’idea stessa di poter sfidare impunemente con una performance una macchina popolare come la Televisione dimostra la confusione concettuale che ha travagliato l’arte novecentesca.

La mia conferenza del 2003, La televisione, la pubblicità, i video, sono arte figurativa? (Biblioteca di Borbona), provocò una reazione di imbarazzo in un pubblico che si aspettava evidentemente un’impostazione sociologica e soprattutto un giudizio negativo sulla Televisione, anche se poi, a distanza di tempo, ho scoperto che per qualcuno quella conferenza è stata invece illuminante.

Stereotipi
6.2017. Recensendo la mostra Vezzoli guarda la Rai, Fondazione Prada, Milano, AG commenta l’evento riportando frasi e opinioni involontariamente ridicole: nella frase di S. Themerson (1974) ‘Il tempo tramuta annunci pubblicitari in poesie e le poesie in annunci pubblicitari’ ci sarebbe ‘una profonda verità’ (?); i tre programmi più importanti della televisione degli anni ’70 sarebbero Rischiatutto, 90° minuto e Portobello (?), perché ‘la tv o è di massa o non è’.

Può sembrare incredibile, ma per G le opere televisive realizzate negli anni ’70 da Olmi, Taviani, Rossellini, Antonioni sono ‘cinema’, non Televisione: ‘è altra cosa’ scrive G, che tracura la differenza sostanziale tra il Cinema e il film specificatamente televisivo, come evidentemente non vede la differenza sostanziale che c’è tra il teatro e il romanzo e la loro radicale e specifica riduzione televisiva.
Il risultato migliore della televisione italiana di quegli anni è evidentemente in San Michele aveva un gallo (1973) dei Taviani, impressionante e specificatamente televisivo, in Cartesio (1974) di Rossellini, limpidamente televisivo, nel magnifico, televisivo, Macbeth con Glauco Mauri (1975), nello sceneggiato Ligabue (1977) di Nocita, che poteva essere solamente televisivo, e in Padre padrone (1978) dei Taviani, ma G si accorge solamente del ‘mitico’(?) Fracchia, e ne parla con un lessico da bar di periferia (il miglior Villaggio di sempre).
G ha raccolto le sue schede per la Garzantina, ma non si occupa della funzione di riduzione e semplificazione modulare che investe le tradizioni popolari di piazza (i giochi, gli scherzi, i balletti, le opinioni a confronto) assieme alle forme della letteratura e della musica.
Nel suo articolo peraltro G non cita mai Senaldi, consulente assieme e a Bernardini della mostra della F Prada, forse per evitare un commento sull’impegnativo Arte e televisione scritto dallo studioso del 2009.
G pensa (nel 2017) che la televisione sia necessariamente un prodotto commerciale quantitativo, mentre la T, come qualsiasi altra forma di creatività in un contesto civile, è caratterizzata dall’essere semplicemente a disposizione e rivolta sia al gusto popolare, con l’ottusa imitazione della piazza, sia a chi sceglie invece di usare questo strumento per rileggere visivamente il teatro e la narrativa, per ascoltare magnifiche registrazioni di concerti e, oggi, anche per seguire eccellenti programmi di conoscenza su Rai 5 e Rai Storia.
Comunque gran parte del testo di G era costituto da un articolo già pubblicato su L’Europeo del maggio 2010, quindi mancano la qualità innovativa di Rai Storia e di Rai 5, ma anche la bella novità di Les Revenants (2012), la risposta colta alle modeste serie italiane e a quelle d’importazione, che G definisce ‘americane’ mentre in realtà sono anche tedesche, latinoamericane e francesi.
Un altro commentatore (LP, su Il Venerdi) ripete le ingenue frasi di Vezzoli secondo il quale, chissà perché, ‘la T amplifica lo sviluppo dell’immaginario collettivo’ (?).

La serie televisiva Lost (2004) costituisce un esempio notevole della capacità della cultura egemone di neutralizzare le istanze più avanzate della ricerca linguistica riducendole a gradevole e accattivante spettacolo popolare, e tutte le stupide chiacchere che sono state fatte su questo innocente intrattenimento dimostrano quanto la demagogica cultura della mediocrità, quella degli insulti in rete e delle informazioni ossessive trasmesse via cellulare, abbia esteso il suo dominio.
Il fenomeno di Lost si spiega facilmente con la riduzione a livello popolare di tutto ciò che nella cultura dominante è stato messo in quarantena e musealizzato: lo spazio plurale della letteratura, la dislocazione alogica del cinema sperimentale, il prevalere dell’interiorità del cinema filosofico (Muriel), la poesia con le sue sospensioni del tempo vissuto; tutto questo viene captato dal telaio di stereotipi di Lost e sminuito a puro divertimento con quella leggerezza che da l’illusione di essere a contatto con forme di raffinata complessità concettuale e di colta erudizione.
E non si tratta di un gioco effimero, Lost sperimenta con grande impiego di risorse la declinazione in forme popolari di una cultura complessa che oggi (2016) viene avvertita con sempre maggiore insofferenza: siamo nel tempo della denigrazione sistematica della critica, della ricerca individuale e soprattutto della complessità letteraria che viene avvertita ipocritamente come inutile e spocchiosa tirannia dell’autore sul lettore. Biasimare Freud, Joyce, la narrativa e la musica più autentica del Novecento, fa parte di un progetto condiviso che accomuna critici e divulgatori.
La frustrazione che la maggioranza delle persone, soprattutto delle ultime generazioni, prova per l’inaccessibilità di quelle forme di ricerca considerate a torto elitarie e ostili alla comprensione, ha creato una inedita disponibilità ad accogliere con favore tutto ciò che di quelle forme offre una facile riduzione discorsiva, e lo spettacolo televisivo di L soddisfa pienamente questa necessità.
Nel contesto che ospita L i residui della sperimentazione creativa, sigillata e musealizzata dalla cultura egemone, sono stati prima di tutto tradotti in forme intermedie e progressivamente sempre più stilizzate, e da questo deposito viene ricavato il materiale eterogeneo per L.
E’ stato notato che Lost introduce il campo lungo filmico nel racconto televisivo, che di norma tende invece a contrarre tutto sul piano bidimensionale; in questo modo Lost offre un’alternativa al cinema stesso, estendendo nel tempo un film non televisivo con modalità che invece sono specificatamente televisive.
Nell’epoca del fanatismo religioso e della diffidenza per ogni forma di potere occulto, subito dopo l’attacco a NY, L ripropone i valori delle redenzione individuale, del finalismo divino, del potere del numinoso di muoversi nel tempo (con un riferimento ingenuo ma seducente alla nuova fisica).
La nube nerastra che vive come un essere divino nell’isola è la stessa nube grigia che nei filmati sull’attacco a NY insegue i fuggiaschi, un monito divino.
In L, in una cappella segreta sotto una chiesa, c’è il pendolo di Foucault. L’isola si sposta mentre uno dei personaggi agisce a forza di braccia un argano, come il protagonista di Metropolis cerca di fermare le lancette della fabbrica sotterranea.
Tutto quanto appare in L è una scimmiottatura dell’antologia accademica del progressismo culturale, non c’è niente del sapere novecentesco che non sia rievocato e rìdotto a divertente e innocuo, piacevolissimo intrattenimento.

Libri
1955: un anno dopo l’inizio di regolari trasmissioni televisive in Italia (1954), la rivista SeleArte, voluta dall’intelligenza di Adriano Olivetti che aveva promosso con SA la prima proposta italiana di interpretazione interdisciplinare dell’arte, pubblicò l’articolo di C. Ragghianti ‘La televisione come fatto artistico’ con il quale si auspicava la creazione di un laboratorio sperimentale per lo sviluppo delle potenzialità estetiche della televisione (ho scoperto e letto questo articolo solamente nel 2009).
1981. Oreste del Buono, Album di famiglia della Tv. 30 anni di televisione italiana.
1996-2003. Aldo Grasso, Enciclopedia della Televisione, Garzanti.

2003-2004. B. Scaramucci e C. Ferretti, RicordeRai, 1924/1954/2004. Una grande raccolta di immagini e di notizie utile per riflettere sullo sviluppo dell’estetica televisiva italiana, anche se limitatamente alla RAI.
2009. Marco Senaldi, Arte e televisione. Da Andy Warhol al Grande fratello. L’unico studio serio sui rapporti tra Arte e Televisione, con risultati critici che non posso condividere.
2010. Aa.vv. Storia della RAI, L’Europeo