Teatro
M. Perlini, A, Aglioti, Otello, 1974
2008. Ho perso di vista il teatro dal tempo dei magnifici spettacoli di Memè Perlini alla Piramide, le cose teatrali più emozionanti che io abbia mai visto assieme al film di Mekas per The Brig del Living.
Ho un ricordo emozionante degli spettacoli di Perlini e Aglioti, dove gli oggetti, i corpi e i movimenti smottavano incessantemente in una eterna collisione: Locus solus (1976), La partenza dell’argonauta (1976), Risveglio di primavera (1978), La cavalcata sul lago di Costanza (1979).
Da allora ho trascurato il teatro a favore dell’installazione postconcettuale, che ne ha ereditato esplicitamente una componente essenziale come la neofigurazione lirica della transavanguardia ha ereditato negli anni ’80 il lirismo stuporoso della poesia italiana degli anni ’30. Per lo stesso motivo ho trascurato il romanzo a favore della poesia (2012: adesso però v Narrativa).
C’è un rapporto strettissimo tra la scenografia teatrale novecentesca e l’installazione concettuale e postconcettuale; la troppo manieristica ricerca sperimentale teatrale può essere stata ostacolata in parte proprio dalla performance, dal teatro-danza di Pina Baush e dall’opera radicale di coreografi come Forshite.
2008. A questa data non so ancora se c’è qualcosa di entusiasmante da scoprire nel teatro, si tratta di capire se questa forma sta cambiando pelle, lasciandosi dietro le sue scorie, o se invece sta subendo e soffrendo una radicale mutazione strutturale a favore di altri campi della creatività.
Adesso (2015) mi chiedo quale sia la realtà attuale del teatro nel momento del recupero storico della figurazione e della narrativa del perturbante: Emma Dante ha collaborato con Giorgio Vasta per il suo bellissimo film Via Castellana Bandiera, 2013, che è soprattutto un’opera teatrale.
E’ da valutare il lavoro di Jon Fosse che apre forse al ritorno del ‘teatro di parola’.
1 febbraio 2018, Teatro Argentina. L’Antigone di Federico Tiezzi è la conferma definitiva del ritorno del teatro di parola. Il testo di Sofocle (442 ac) è rispettato integralmente, la lucida scansione del dettato elude la tentazione retorica, e perfino la scarsa mobilità delle figure, nella scenografia statica, accentua e scolpisce l’icasticità della parola, lo spazio stesso è costruito solamente da parole che si stagliano nitide dopo la visualizzazione, sul sipario, della città greca ruinante, un video nella maniera di Bill Viola. Lo sbarramento dei lunghi tubi al neon, memoria delle installazioni di Dan Flavin, mantiene in vita per tutto il tempo il disagio sofferto dai corpi. La scena funebre drammaticamente illuminata che si apre nel fondo al momento della reclusione di A rievoca l’immagine onirica del Sogno di Ossian di Ingres.
2015. Vasi comunicanti: ho tentato una sintesi esplorativa con il capitolo per P Il teatro, autenticità e manierismo.
William Shakespeare
Amleto,1600-1602. Leggendolo da ragazzo pensai per la prima volta che la narrativa può essere il veicolo di pensieri filosofici inediti. Gli straordinari nodi concettuali dell’Amleto, l’impossibilità della morte e la drastica sospensione dell’etica individuale, sono guglie ipnotiche poste al culmine di un insieme di opere che saldano i due poli estremi della percezione della realtà: la leggerezza (nelle commedie) e l’orrore visionario (in Macbeth).
Solo nella Medea di Euripide (431 ac), nel Tieste di Seneca (prima del 65 dc) e nelle Memorie del sottosuolo di Dostoevskji è possibile trovare la sconcertante sospensione dell’eticità che insidia in profondità l’Amleto.
Questa complessità concettuale mi fa credere senza sgomento all’ipotesi che attorno all’uomo di teatro Shakespeare ci sia stato un fertile contesto di scambi e di collaborazioni intellettuali di altissimo livello qualitativo, nella Londra che aveva ospitato Bruno, nella città di Marlowe, di Bacone e di Donne.
1974-2001
2016. Lavorando a un evento dedicato a Shakespeare per la Biblioteca del liceo Righi (Roma) approfitto dell’occasione per rivedere tutte le idee e gli appunti che ho sull’argomento.
Ho precisato meglio a me stesso la realtà culturale di S. C’è un ambizioso e invadente uomo di teatro proveniente dalla provincia e subito osteggiato dagli universitari londinesi che ne biasimano la mancanza di cultura erudita e l’aggressiva intraprendenza; questo mediocre attore e abile costruttore di copioni per la sua compagnia assediata dalla concorrenza intuisce la possibilità di plasmare un registro espressivo e narrativo esteso dalla commedia di Plauto alla visionaria terribilità di Seneca e si impone proprio con questa intensiva strategia capace di ricostruire un orizzonte psicologico di estrema malleabilità per il quale utilizza senza remore tutti i testi classici tradotti in inglese che riesce a trovare, in un dilatato orizzonte che è ancorato su due formidabili cardini, il pensiero scettico di Montaigne (per Amleto) e il pensiero dell’Io scisso di Seneca (per Macbeth).
Il fenomeno che è emerso con grande evidenza da questa indagine è l’impressionante scissione dell’Io che S attinge esplicitamente da Seneca (nello sconvolgente Tieste e in Medea) che a sua volta lo aveva trovato in Euripide.
Quando ho ipotizzato qualche decennio addietro l’interesse di Shakespeare per Euripide non conoscevo ancora nei dettagli la sua possibile conoscenza delle tragedie di Seneca, uno straordinario trasmettitore di idee perturbanti. Adesso capisco bene che la suggestione di grande e inedita estensione del registro psicologico che avvertiamo ammirati in S è il frutto di una acuta e ostinata sintesi attuata con grande sensibilità e forse facilitata proprio dalla mancanza di una vincolante e fossilizzata erudizione universitaria.
In definitiva, ciò che ci affascina in S come preparazione di quanto consideriamo pensiero moderno è soprattutto il riemergere prepotente e irresistibile del perturbante pensiero senza tempo di Euripide, attraverso l’intensità di Seneca, coniugato e addolcito alla freschezza della riflessione di Montaigne.
Deve essere ridimensionato il mito deteriore e fuorviante di S inteso come genio dominatore del suo tempo a favore della riscoperta di un contesto culturale di grande fertilità che non poteva prescindere dalle indagini filosofiche di Francis Bacon sul linguaggio, sugli Idola, e sulla trasmissione universale della cultura, dalla presenza di musicisti sensibili e inquietanti come John Dowland e di poeti colti come John Donne.
S, in questo contesto, si nutre, fosse anche indirettamente, dell’apporto eccezionale di tre grandi pensatori: Giordano Bruno, che a Londra negli anni ’80 pubblica De gli eroici furori, Montaigne, che viene tradotto in inglese a fine Cinquecento, e soprattutto Seneca, del quale entro la fine del secolo vengono tradotte tutte le tragedie (n).
(n) Gino Giardini, in Seneca, 1972, annota tra le opere elisabettiane influenzate da Seneca, che agì come ‘principale modello’: Spanish Tragedy di Kid, Ebreo di Malta di Marlowe, Amleto e Macbeth di Shakespeare (pag.106-107).
La potente suggestione di universalità e di estrema, inedita estensione della gamma espressiva presente nell’opera di S deve essere opportunamente ridimensionata tenendo conto di questo straordinario orizzonte culturale, e le incredibili sciocchezze che vengono dette sulla presunta irrealtà di S come autore derivano dalla mancata riflessione relativa ad una realtà che è sotto gli occhi di tutti: S ha capito con grande sensibilità e intelligenza che poteva attingere liberamente da una fonte inesauribile di pensieri e di forme costituita dalla tradizione letteraria e filosofica per costruire intenzionalmente un registro di vastissima estensione espressiva captando in particolare le suggestioni più profonde del pensiero di Montaigne e di Seneca.
Le sue stesse carenze culturali e i limiti della sua educazione scolastica sono state paradossalmente il suo punto di forza: è questo che gli ha permesso di non restare irretito nella retorica degli autori ‘universitari’ del tempo per spaziare, con una libertà che solo il contesto elisabettiano poteva concedere e giustificare, alla ricerca di modelli narrativi e di pensiero sempre più fascinatori, fino a trovare in Montaigne l’estremo, disarmante scetticismo dell’Amleto e in Seneca l’ossessione onirica della scissione dell’Io che perseguita Macbeth.
Thomas Stearns Eliot scrive in un suo saggio del 1927, Seneca nelle traduzioni elisabettiane (Opere, a cura di R. Sanesi, Bompiani), che ‘Nessun autore ha esercitato più vasta e profonda influenza sul pensiero e la forma della tragedia elisabettiana di quanto abbia fatto Seneca’. Newton aveva tradotto dal latino all’inglese tutte le opere di Seneca entro il 1581, ma le traduzioni di altri autori inglesi erano iniziate già dal 1559.
I contemporanei d’altra parte erano consapevoli del progetto di S rivolto a saldare i poli estremi della psicologia teatrale: nel 1598, Francis Meres, nel suo trattato Palladis Tamia (1598), fondato sul parallelismo fra gli autori antichi e i moderni, afferma che ‘come Plauto e Seneca vengono considerati i migliori per la tragedia e la commedia fra i Latini, così fra gli Inglesi Shakespeare eccelle in entrambi i generi sulla scena’ ed è significativo che il critico Thomas Rymer critichi invece il drammaturgo proprio per la sua combinazione di comico e tragico.
Sarah Bakewell, in Montaigne, l’arte di vivere (2010, it 2011), dedica un paragrafo alla conoscenza che S poteva avere di Montaigne all’epoca della stesura dell’Amleto: W. Cornwallis, conosciuto da S, aveva divulgato a Londra la traduzione dei Saggi di M dovuta a John Florio, che anche S conosceva personalmente, e pubblicata a Londra nel 1603. Ora, l’Amleto è datato 1599-1600 circa, o 1660-1602, ma il testo di Florio circolava prima del 1603 come manoscritto, come attesta lo stesso Cornwallis, secondo il quale già nel 1599 il manoscritto passava ‘di mano in mano’ (n.11, pag.410).
Per Bakewell nell’Amleto c’è il raffinato pensiero di Montaigne: ‘Noi siamo, non so come, doppi in noi stessi’ (pag.314) e anche Giorgio Melchiori ha sottolineato l’influsso di Montaigne sull’Amleto.
Seneca e Macbeth
Nel Tieste (ante 65 dc) ci sono dei passi di straordinaria intensità psicologica che hanno evidentemente impressionato S suggerendo lo sdoppiamento dell’Io presente nel Macbeth.
Nel Tieste e nella Medea sembra davvero di leggere S.
Tieste è turbato e sconvolto da qualcosa che non riesce a percepire con chiarezza:
Perché mi ordini di piangere se non c’è motivo di dolore? Perché mi proibisci di cingermi i capelli con questi bei fiori? Grida di non farlo, di non farlo. Le rose primaverili cadono dalla mia fronte, sul capo mi si rizzano, in un accesso d’orrore, i capelli impregnati di profumi. Perché dal mio volto, che non vuole, cade questa pioggia? Tra le mie parole si insinua un gemito. È la tristezza che ama le lacrime sue compagne, è la crudele voglia di piangere degli sventurati.
Che succede? Le mie mani non vogliono obbedire, la coppa si fa troppo pesante, la mia destra si abbassa. Il vino si ribella se lo avvicino alle labbra, elude la mia bocca, le scivola intorno ( ) Il fuoco dà una luce stenta. Questo cielo grave, che si è fatto deserto, stupisce lui stesso che non sia giorno né notte. Cosa c’è? Trema, trema sempre più scossa, la volta del cielo. Scende caligine densa più che la tenebra fitta. La notte s’è nascosta nella notte. Ogni stella è fuggita.
In una scena centrale del Macbeth il tema della scissione dell’Io, così intenso in Seneca, si impone con forza e le parole sono quasi le stesse del Tieste:
E’ un pugnale questo che mi vedo davanti col manico rivolto verso la mia destra? Vieni lascia ch’io t’afferri. Non ti sento in mano e pur ti vedo ancora. Fatale visione non sei dunque sensibile al tatto come alla vista? o sei soltanto un pugnale dell’immaginazione, un parto menzognero del cervello eccitato dalla febbre? Ti vedo ancora e in una forma palpabile come questo che or traggo. Tu mi guidi come un araldo a quella via per la quale io stesso mi mettevo.
Gli occhi miei sono ludibrio degli altri sensi o altrimenti essi valgono più di tutti loro messi insieme: io ti vedo ancora; e sulla tua lama e sull’impugnatura vedo stille di sangue che prima non v’erano. No non c’è nulla di simile. E’ l’atto sanguinoso che sto per compiere il quale prende corpo così davanti agli occhi miei. Ora sopra una metà del mondo la natura sembra morta e malvagi sogni ingannano il sonno tra le sue cortine.
In Medea Seneca rievoca l’orrore irrelato che dominava le tragedie di Euripide.
Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l’odio, di là l’amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L’ira dà il bando alla pietà, la pietà all’ira.
Nelle parole finali, rivolte da Giasone a Medea, emerge scioccante il nichilismo che in S materia Amleto e Macbeth con quella assenza di Dio che Croce ha notato nell’opera di Shakespeare.
Vattene per gli spazi celesti, nel cielo più alto. Sarai la prova vivente, dovunque arriverai, che gli dèi non esistono.
4.2016. Per il catalogo della mostra che insieme ad altri ho organizzato e coordinato per il Righi (Shakespeare in progress) ho scritto un brano sulla presenza dei segni di S in Sterne, Joyce, Rosselli e in Wallace.
http://www.liceorighiroma.it/wp-content/uploads/catalogo-Shakespeare-in-progress-aprile-2016.pdf
Un compagno di scherzi infiniti
Quando ci avventuriamo nella narrativa più complessa e ambiziosa e nella poesia più inquieta troviamo spesso il sollievo delle tracce confortanti e familiari di Shakespeare.
I rari scrittori davvero innamorati della ricerca e dell’intensità risalgono la corrente a ritroso per tornare alla fonte della loro inquietudine e a volte approdano a quel crocevia irripetibile che noi chiamiamo Shakespeare nel quale la modernità si è data convegno e dove si sono sedimentati con struggente intensità pensieri straordinari che sono più che mai perturbanti, l’intollerabile dolore della scissione dell’Io, sperimentata da Euripide e trasmessa poi con prepotente energia a Shakespeare da Seneca, la sconvolgente radicalità di Bruno, presente a Londra negli anni ’80, e l’altrettanto radicale scetticismo di Montaigne, tradotto in inglese a fine Cinquecento, in un luogo della storia abitato dalla fascinosa poesia di Donne e dalla musica dolorosamente delicata di Dowland, nella Londra dell’indagine filosofica sul linguaggio condotta da Bacone.
Ebbene, James Joyce ha scelto di mettere a dimora proprio nel cuore del suo Ulisse (1922) un lungo dialogo che rievoca esplicitamente la più duratura ideazione shakespeariana, quella che conosciamo con Amleto e con Macbeth, l’impressionante sovrimpressione di voci discordanti che coniuga ciò che si ascolta con ciò che si sta dicendo e che intanto si sta anche diversamente pensando, in un impasto disorientante di dolente, frustrata interiorità e di irritante, ludica superficialità. Nella biblioteca di Dublino, nell’Ulisse, assistiamo alla scena di una conversazione su Shakespeare che viene continuamente inquinata dall’irrisione dei presenti in una disarmante deriva che lascia emergere una consapevole, commovente matrice specificatamente shakespeariana (1).
D’altra parte, Joyce a Parigi andava a incontrare i suoi amici scrittori di lingua inglese nella libreria aperta nel 1919 da Sylvia Beach (l’editrice dell’Ulisse nel 1922) e dedicata esplicitamente al nostro poeta, la Shakespeare & Company, un segno anche questo della presenza mai dimenticata dell’amato nume tutelare della cultura anglosassone.
E c’è un filo rosso che segna la continuità di queste diffuse tracce shakespeariane. Nell’opera giovanile di una grande e infelice poetessa italiana, Amelia Rosselli, che ha plasmato la sua sensibilità leggendo precocemente l’Ulisse di Joyce, Shakespeare e la poesia di John Donne, troviamo una raffinata, consapevole rivisitazione stilistica dell’estetica poetica del rinascimento inglese con le October Elizabethans del 1956, scritte a Roma in inglese da una giovane eternamente in esilio che aveva studiato a New York e a Londra, e in queste fragili costruzioni, prima dell’avvento della straziata liricità della sua poesia più matura, Rosselli si è reincarnata, pensando a Shakespeare e a Donne, nelle poetesse rinascimentali, rivendicandone la dolente melanconia: / e sempre missive ti spedisco / ficcandoti il mio pungolo nel cuore come un’ape / che paga con la morte la sua cieca voracità (2).
Lavorando all’Ulisse, Joyce ha tenuto in mente, tra le tante altre forme letterarie già esistenti, un modello settecentesco di irresistibile seduzione, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1759) di Laurence Sterne, dove si scopre, con il personaggio di Yorick, un suggestivo riferimento al momento più inquietante dell’Amleto, l’incontro nel cimitero con il becchino irriverente e con il teschio del buffone di corte Yorick, una scena che nell’Amleto è materiata di perturbante e amara ludicità e che ha suggerito forse a Sterne l’impianto generale del suo romanzo sperimentale (3).
Ora, come è noto, la vulgata popolare ha equivocato spesso la scena amletica del giovane che riflette con il teschio in mano, trasformandola nell’iconografia del memento mori e saldando arbitrariamente due momenti che sono invece diametralmente opposti nel testo shakesperiano, quello della cupa, ossessiva riflessione sulla presenza e quello, liberatorio, della ludica riflessione sulla morte (con il teschio del buffone), che permette invece di spaziare liberamente con l’immaginazione fino a ipotizzare che il corpo di Alessandro Magno possa essersi trasformato, alla fine, in un volgare tappo di creta.
Ecco, è qui, in questo oscillare apparentemente contraddittorio tra i due poli opposti della deprimente melanconia e dell’euforica irrisione, tra l’Eraclito che piange e il Democrito che ride, così cari all’iconografia rinascimentale, che sopravvive con più forza il lascito shakespeariano che si era nutrito contemporaneamente con Plauto e con Seneca.
E’ in questo inquieto territorio di confine che si estende tra il dolore intimo e la lucida consapevolezza della fragilità che si muovono, memori di Shakespeare, Sterne, Joyce, Rosselli.
E oggi questo retaggio arriva fino a noi attraverso un’opera di grande intensità, Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace.
Wallace, con Infinite Jest, ha continuato consapevolmente a sviluppare le forme letterarie elaborate da Joyce innestandole però in un anomalo spazio narrativo che è permeato dell’infestante ludicità che l’autore ha desunto evidentemente dal Tristram Shandy di Sterne. Ma l’influsso più forte che agisce sul romanzo di Wallace è proprio quello di Shakesperare: il titolo del suo libro è una citazione letterale dall’Amleto (le infinite jest del buffone Yorick) perché la burla infinita, nel suo drammatico scavo della contemporaneità, indica con esasperata amarezza venata di ironia la feroce macchinazione ordita dall’ingranaggio coercitivo della dipendenza contro la volontà individuale, il tema ossessivo della vita purtroppo sfortunata di Wallace (4).
E anche in Infinite Jest, come nell’Amleto, in Tristram Shandy e nell’Ulisse, domina incontrastata la shakespeariana oscillazione melanconica tra poesia e irrisione, tra il pianto di Eraclito e il riso di Democrito.
1
James Joyce, Ulisse, 1922, traduzione di Giulio de Angelis. La riedizione del 2008 offre una preziosa Guida alla lettura curata dal raffinato e colto anglista Giorgio Melchiori.
2
Amelia Rosselli. Le poesie, a cura di Emmanuela Tandello, prefazione di G. Giudici, 2004.
Rosselli è morta suicida nel 1996. La sua poesia, nonostante tutto, aspetta ancora il pieno riconoscimento che merita.
3
Laurence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1759), a cura di Lidia Conetti, con un testo di Walter Scott, Mondadori 1992, ristampa 2011.
Forse non è stato ancora notato che nel Tristram Shandy le due pagine completamente nere che seguono la morte di Yorick, da sempre considerate una pura bizzarria tipografica, sembrano rievocare intenzionalmente il quadrato completamente nero che rappresenta Il vuoto nero prima dell’universo posto nella prima pagina di un trattato del 1617 dell’alchimista inglese Robert Fludd (Londra 1574-1637), notissimo al tempo di Shakespeare. Una conferma, forse, dell’impasto di ludicità e di melanconia che anche Sterne rivive nel suo romanzo, che avrebbe potuto figurare nell’Anatomia della malinconia redatta nel 1621 da Robert Burton, un uomo sofferente di depressione che si firmava Democritus junior.
4
David Foster Wallace, Infinite Jest, 1996, nell’eccellente traduzione italiana di Edoardo Nesi in collaborazione con Annalisa Villoresi e Grazia Giua, 2006. Wallace, gravemente malato di depressione, si è suicidato nel 2008.
Per Wallace vedi anche: Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene M. Zangari, Guida alla letteratura degli Stati Uniti. Percorsi e protagonisti. 1945-2014, 2014.
Stefano Ercolino, nel suo interessante Il romanzo massimalista. Da L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon a 2666 di Roberto Bolano, 2015, annota gli ‘onnipresenti’ riferimenti all’Amleto reperibili in Infinite Jest per concludere che ‘Wallace utilizza la traccia intertestuale fornita da Amleto come un dispositivo semantico in grado di organizzare, controllare e dare un senso allo sterminato materiale di cui compone la diegesi’ (pagg.155-157).
Libri
1961-1973. Vito Pandolfi, Regia e Registi nel teatro moderno. Utile rassegna storica.
1964. Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio. Prefazione di J. Derrida (It. 1968-2000). Testi di A dal 1926 al 1930.
1964. Raymond Roussel, Impressioni d’Africa. Testo del 1910, successivamente trasformato in brano teatrale, che impressionò molto Duchamp (cfr. Bernard Marcadè, Marcel Duchamp. La vita a credito, 2009).
1964. Jonas Mekas, The Brig. Lo spettacolo del Living Theatre, The Brig, da Kennet Brown, visibile nel magnifico film di Mekas, è stato forse l’episodio più autentico di un teatro che poteva essere capace di evitare la retorica senza abolire inutilmente il racconto, a un livello altissimo di intensità della presenza del corpo nei limiti dello spazio, sintesi perfetta tra forma e contenuto (cfr. Esteticità).
1973. Alberto Miralles, Il teatro oggi (it. 1977). Tutte le peggiori banalità divulgative sul teatro.
1974. Jaques Burdick, Il Teatro. Dalle orgini ad oggi (It. 1978), Mondadori.
1976. AA.VV. Lo Spettacolo. Enciclopedia Garzanti. Per il Teatro: Odoardo Bertani.
1977. Numero speciale e molto bello (n.17) di Lotus International, Casabella, dedicato al teatro antico e contemporaneo, con testi di Celant e Quadri.
1978. A cura di Giuseppe Bartolucci, Teatroltre. Antologia di testi, da Kirby a Cage.
1978. G. Bartolucci e L. Capellini. Il segno teatrale. Avanguardie alla Biennale di Venezia 1974/1976. Bella antologia con ottime foto in bn, dal Living a Perlini.
1982. A cura di Dario Del Corno, Sofocle, Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, Mondadori. Nel magnifico Antigone ritrovo tutto lo Shakespeare letto da ragazzo.
1984. AA.VV. Oltre Raffaello. Aspetti della cultura figurativa del cinquecento romano. Il saggio di Calvesi, Raffaello. La Trasfigurazione, introduce l’interessante rapporto del dipinto con le teorie teatrali, aristoteliche, di Trissino.
1990. William Shakespeare, Amleto, trad. Di Luigi Squarzina.
1992. Aristotele, Poetica.Laterza.
1993-2009. Intr. di Franco Rella, Euripide. Baccanti. Feltrinelli. Bellissima la lettura critica di Rella: ‘Nelle Baccanti lo smisurato del dolore non si muta in sapere, rimane solo crudo dolore, irrimediabile, assoluto dolore’.
1996. Teresa Macrì, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della performance.
1997. Intr. di V. Di Benedetto, Euripide, Medea. BUR.
2000. Stefania Chinzari, Paolo Ruffini, Nuova scena italiana. Il teatro dell’ultima generazione. Una splendida rassegna del nuovo teatro italiano.
2002. F. Bonami e AA.VV. Exit, Nuove geografie della creatività italiana, con un testo di Cristina Ventrucci sul nuovo teatro italiano.
2005. Paul Virilio, L’arte dell’accecamento (It. 2007). Senza temere di essere impopolare, V condanna con decisione il culto infestante dell’immagine nell’estetica contemporanea, e una delle opere che biasima è il teatro della Societas Raffaello Sanzio, che viene invece, acriticamente e fanaticamente, esaltato da tutti.
2007. M. Gioni, Mattew Barney. L’opera di B è legata al teatro più di ogni altra forma dell’area post concettuale.