Poesia
Nel 1977 una giovane donna conosciuta con il nome di Giada interrompeva le trasmissioni in diretta di una delle radio del tempo, Radio Donna, per recitare le sue poesie apparentemente alogiche e prive di senso. I suoi versi si intromettevano come un fertile e salutare antidoto nella sottile intercapedine scavata tra le animate discussioni in corso provocando a volte impazienza e fastidio.
Ho raccontato di questa poetessa sconosciuta nella biblioteca comunale di Borbona (Rieti) nel novembre del 2010, in occasione di una riflessione sul significato della poesia dell’interiorità. Quella di Giada esemplificava concretamente la specificità stessa della poesia: essere un antidoto alla ineludibile necessità di concretezza ed essere il consapevole anello debole nella catena della comunicazione, una giuntura che può anche essere rimossa e ignorata senza alcun danno, perché la poesia è una preziosa opportunità che nessuno è costretto a cogliere.
Ho scoperto in profondità la ricchezza della poesia in un libro magnifico, La struttura della lirica moderna (1956, ed. it. 1958-1983) di Hugo Friedrich. Ero alla ricerca delle forme più complesse e più oscure, ma sapevo che la radice autentica della poesia si trova sia nelle struggenti vene sotterranee di Amelia Rosselli che nelle disarmanti pagine in piena luce di Saba.
Da ragazzo mi aveva sconvolto l’ascolto di Poeta a New York recitato da Albertazzi in un disco in vinile.
Negli anni ’70 la sperimentazione più accademica e meno necessaria mostrava già il suo invecchiamento precoce. Invecchiavano i testi de I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, 1965, a cura di Alfredo Giuliani, e del Manuale di poesia sperimentale, 1966, di Guido Guglielmi e Elio Pagliarani; la poesia di Sanguineti l’ho studiata a lungo per constatare serenamente quel drammatico invecchiamento precoce che la poesia ha condiviso in quei decenni con tutte le altre forme creative del Novecento (Edoardo Sanguineti. Segnalibro. Poesie 1951-1981, 1982; E. Sanguineti. Il gatto lupesco. Poesie 1982-2001, 2002).
Era possibile invece scoprire testi affascinanti e poco visibili, come il sonetto Io vidi seduto di Leon Battista Alberti (Carlo Oliva, Poesia italiana. Il Quattrocento, 1978); le perturbanti liriche inserite da Giordano Bruno in Degli eroici furori del 1585 (Giulio Ferroni, Poesia italiana. Il Cinquecento,1978); la dolorosa scrittura settecentesca di Faustina Maratta, poetessa dell’Arcadia vicinissima a Leopardi (Giovanna Gronda, Poesia Italiana. Il Settecento, 1978); la rara poesia ottocentesca di Giovanni Camerana (Maurizio Cucchi, Poesia italiana dell’Ottocento,1978).
Di Jacopone da Todi conoscevo bene la stupefacente, materica colata lavica di O Segnor, per cortesia, / manname la malsania, 1303 c. (Giorgio Petrocchi, Scrittori religiosi del Duecento, 1974), ma fu sconvolgente la scoperta della Lauda La fede e la speranza m’è fatta sbandegione / calci m’è dato al core, fatto m’ò annichilare’ (Jacopone da Todi, Laudi, 1991, Laterza) che adesso è al centro del capitolo Nella crisalide.
Nel Canzoniere di Petrarca la poesia più radicata nella specificità di questa tipologia è sicuramente Passa la nave mia colma d’oblio, del 1342-1343 (Francesco Petrarca, Rime sparse, 1979, a cura di G. Ponte).
v AA.vv. a cura di Renzo Cremante e Mario Pazzaglia, La metrica, 1973; Raffaele Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, 1966-1974.
Le delicatissime liriche di Tasso rivelano la sua inquietante fragilità:
‘e noi tegnamo ascose / le dolcezze amorose / Amor non parli o spiri / sien muti i baci e muti i miei sospiri
(Tasso e i lirici del Cinquecento, 1965, a cura di U. Dotti).
Poi c’erano la poesia perturbante di John Donne (John Donne. Liriche sacre e profane. Anatomia del mondo. Duello della morte,1983, a cura di Giorgio Melchiori); Il sogno di Leopardi (Leopardi, Canti, 1975, a cura di F. Bandini); le poesie dell’amaro Gérard De Nerval (Gérard De Nerval, Chimere e altre poesie, 1972, a cura di D. Grange Fiori); l’affascinante lievità concettuale di Emily Dickinson (Emily Dickinson, Poesie, 1979, a cura di M. Guidacci e I. Bossi Fedrigotti, e Dickinson, Poesie, 1991, a cura di M. Bacigalupo); I fiori del male di Baudelaire, nella bellissima traduzione di Luigi de Nardis (Charles Baudelaire, I fiori del male, 1857/1861, 1961-1989, a cura di LdN); Walt Whitman (Foglie d’erba, 1965, a cura di Roberto Sanesi), e naturalmente Arthur Rimbaud, nella splendida traduzione di Ivos Mangoni del 1964 (Opere) che avevo sempre con me; avevo letto l’Arthur Rimbaud scritto nel 1911 da Ardegno Soffici, un testo che aveva entusiasmato sicuramente Dino Campana (Dino Campana, Canti orfici e altri scritti, 1941-1974, introduzione di Carlo Bo).
Accanto a Mallarmé (Stéphane Mallarmé, Un colpo di dadi mai abolirà il caso, 1897, con prefazione dello stesso Mallarmé, edizione curata da M. Cucchi, 1987-2003), leggevo, ma solamente per dovere, Les Amours jaunes (1873) di Tristan Corbière (Tristan Corbière, Tutte le poesie, 1973, introduzione di A. Giuliani; P.A. Jannini, Un altro Corbière, 1977; e Les complaintes di Jules Laforgue, 1885.
Le poesie di Rilke mi interessavano meno del suo perturbante testo in prosa Quaderni di Malte Lauridis Brigge (1910), ma la lettura dell’opera completa di Paul Celan fu per me una delusione (Paul Celan, Poesie, 1998, a cura di Giuseppe Bevilacqua) perché mi confermò proprio ciò che angustiava tanto quel poeta infelice, il debito troppo grande con altri autori, da Donne a Rilke.
I libri di Montale li portavo in tasca ovunque, anche nei viaggi in treno (Eugenio Montale, Ossi di seppia 1920/1927, Mondadori,1979; Le occasioni 1928/1939, Mondadori, 1976); il delicato Canzoniere di Saba mi educava all’umiltà (Umberto Saba. Il canzoniere, 1900-1954, adesso nuova edizione 2014 con Introduzione di Nunzia Palmieri).
Da Esilio (1942) di Saint-John Perse (Le luci della vita, 1972, a cura di R. Lucchese) ho preso il titolo del mio libro senza condividere la solare positività avventurosa del poeta.
L’incontro con la poesia di Amelia Rosselli, limitatamente ad alcune sezioni particolari della sua opera, è stata una delle emozioni più intense della mia vita di lettore di poesia (Amelia Rosselli. Le poesie, 1952/1981, a cura di E. Tandello, pref. di G. Giudici, 1997), una fonte inesauribile di stupore e di fascino. La lettura di Rosselli (suicida nel 1996) è stata per me la conferma definitiva di come la poesia più autentica abbia la sua radice profonda nel dolore individuale. Ho dedicato a lei il capitolo di Nascosti nelle pieghe della luce.
Nel 2016, collaborando come volontario con la biblioteca del Liceo Righi di Roma, ho potuto realizzare un mio sogno: programmare la lettura, da parte di giovanissimi e straordinari studenti-attori, delle poesie di Bruno e di Donne nel contesto di un evento dedicato a Shakespeare che ho curato assieme ad altri.
A Londra, in S. Paul, sono andato a cercare lo stupefacente monumento funebre che John Donne fece realizzare per se stesso prima della sua morte (1631), mentre era decano della cattedrale
Giovanna Sicari
Ho trovato per la prima volta l’insolita energia poetica di Giovanna Sicari in Accessibili distanze. I volti della poesia, 1999, a cura di E. Toccaceli, e poi ho letto spesso i suoi testi emozionanti (come Epoca immobile, 2003, in volume nel 2004) nella bella rivista dell’editore Crocetti, Poesia, la migliore divulgazione della poesia che ci sia mai stata in Italia, avviata nel 1988 con la deludente e scostante direzione di Valduga, ma poi continuata con la limpida e intelligente chiarezza di Cucchi.
Sicari purtroppo é rimasta nell’ombra, nonostante la sua altissima qualità, non figura neanche nella grande, inclusiva antologia curata dal bravo Andrea Cortellessa, Parola plurale, Sessantaquattro poeti italiani tra due secoli. 2005.
Quando nel 2003 ho cercato di contattarla per farle sapere che stavo preparando una lettura dei suoi testi per la biblioteca di Borbona ho scoperto che stava morendo in un ospedale romano.
Sicari è stata esclusa dalle antologie perché ha riproposto, nell’epoca della ritrovata e più accessibile linearità discorsiva, l’implosione interiore di Rosselli.
C’è una giovane albanese, Anila Hanxhari (1973), in Italia dal 1993, che ha seguito evidentemente il percorso di Rosselli e Sicari e poi a fatto perdere le sue tracce (Nuovissima poesia italiana, 2004, a cura di M. Cucchi e A. Riccardi).
E’ bellissimo leggere la poesia in pubblico: dal 1994 al 2011 ho tenuto vari incontri sulla poesia nella biblioteca di Borbona, cercando sempre di decifrare ciò che nella scrittura in versi appare incomprensibile, ma inutilmente, perché la forza della poesia dell’interiorità si oppone al dispiegarsi delle sue pieghe più intime e torna sempre a raccogliersi nel suo cono d’ombra, nelle pieghe della luce, perché è impossibile memorizzarla e legarla a momenti isolati della propria vita.
Nel 2014, dopo aver letto in quella biblioteca le poesie di Sicari, una signora mi confessò con ammirevole sincerità: purtroppo io non capisco la poesia.
Chi avverte con sgomento questa oscurità non fa altro che rivivere l’arcaica, perturbante angoscia del buio.
Vasi comunicanti. In P la poesia naturalmente è ovunque: Attraversare l’esteticità diffusa, Vitalità del Pensiero poetante, Nella crisalide, Nascosti nelle pieghe della luce, Poesia italiana e arte: la simpatia strutturale.
Nel 2008 ho avuto il piacere di creare un evento di lettura di poesia nell’ambito di una bellissima mostra del cinese Huang Rui, Pechino 2008, allestita da Mary Angela Schroth, curatrice di Sala I Centro internazionale d’arte contemporanea nel Museo delle mura delle Mura Aureliane. Alle opere di Rui ho associato i testi raffinati di Yang Lian scelti dal suo libro Dove si ferma il mare (2004, a cura di Claudia Pozzana, Scheiwiller), un poeta che ho scoperto nel 2007 grazie ad una intelligente pubblicazione curata da Jacopo Ricciardi, PlayOn Poetry, realizzata da Aeroporti di Roma.
Recitava le poesie, con grande intensità, l’attore Biagio Pelligra.
Per l’occasione ho scritto un testo:
Esilio
Questa è la riva da dove mi guardo prendere il largo
(Yang Lian, Dove si ferma il mare, 1993)
Nelle ore di amarezza immagino sfere di zaffiro, di metallo. Sono padrone del silenzio. Perché una parvenza di sfiatatoio dovrebbe impallidire all’angolo della volta?
(Arthur Rimbaud, da Infanzia, Illuminazioni, 1874)
Nei sentieri della creatività contemporanea più autentica ci si imbatte in un’affascinante poetica della sovrapposizione degli spazi materiali, una perturbante sovrimpressione di luoghi fisici che coincide in profondità con un inquieto stratificarsi degli spazi erratici della memoria.
E’ all’interno di questa poetica della sovrapposizione che l’opera di due autori straordinari, Huang Rui (Pechino 1952) e Yang Lian (Berna, 1955), condivide un territorio comune.
Huang Rui e Yang Lian hanno scelto coraggiosamente di vivere l’esilio o comunque il dissidio profondo dalla loro terra, ed è questo nomadismo che li ha trascinati in quella dimensione dolorosa ma esaltante che a volte può iniettare nell’opera una radicale, struggente necessità, un’autenticità che è l’unica risposta rigorosa all’arrogante dominio di coloro che impongono con cinismo nello scenario della creatività una retorica, epidermica spettacolarità dell’immagine.
‘Io abiterò il mio nome’ fu la tua risposta ai questionari del porto
(Saint-John Perse, Esilio, 1942)
Laddove c’è nomadismo della memoria in poesia e nell’arte c’è nomadismo reale nella vita di chi fa l’esperienza drammatica dell’esilio; lo dimostrano l’antico isolamento consapevole di Eraclito, la vita erratica del meticcio Rimbaud, la vita dell’esule Joyce, quella di Amelia Rosselli, sempre dolorosamente priva di patria, e lo dimostra tutta l’opera di colui che è stato il più nomade degli artisti contemporanei, Joseph Beuys (1).
La mia patria è la poesia (Yang Lian)
L’installazione di Huang Rui, Pechino 2008:il tempo, gli animali, la storia è disseminata nello spazio di frontiera costituito dalla romana Porta San Sebastiano, con la proiezione di un secondo allestimento laterale aldilà delle mura antiche, in prossimità di un altro accesso alla città, Porta S. Giovanni (2).
Tenebre, la sezione più intensa della raccolta poetica Dove si ferma il mare (1992-1993) di Yang Lian, è stata composta dal poeta nel 1992 a New York ‘in un registro allo stesso tempo tenebroso e primaverile’, come scrive la sensibile studiosa e traduttrice di Lian Claudia Pozzana. E il libro di Lian è stato edito nel 2004 in Italia, in tre lingue, per la moderna porta d’accesso alla città, l’aeroporto (3).
Queste due opere, di Huang Rui e di Yang Lian, condividono pienamente in una prospettiva interdisciplinare la poetica della sovrapposizione ad un livello di altissima e quasi anomala qualità.
E c’è un elemento fondamentale che accomuna l’installazione di Rui e la raccolta lirica di Lian: queste opere non possono essere fruite per frammenti, ma solamente nel loro insieme.
E’ necessario cogliere l’insieme della struttura complessiva dell’installazione di Porta S. Sebastiano, la sua irripetibile osmosi con lo spazio circostante, la sua pacata messa a dimora nell’esilio, così come è necessario avvertire il vasto sistema di vasi comunicanti che attraversa tutto il libro di Lian: evitando di isolare il singolo frammento per adottare una lettura dilazionata nel tempo e disponibile all’inarrestabile, emozionante metamorfosi delle parole.
Nell’incavo senza tempo della Porta i mattoni salvati dalle demolizioni di Pechino 2008 sono raccolti a mosaico con una disarmante purezza concettuale. Formano delle zolle erratiche di materia che vengono calamitate con inquietante dolcezza dallo spazio che le ospita, e implodono nello stupore di una muta reverie della memoria e della percezione. Due spazi diversi e remoti si sedimentano sotto i nostri occhi nello stesso luogo fisico per pura simpatia strutturale, per un’associazione mnemonica che non sarebbe possibile senza il precedente della stratificazione dei riverberi di memoria dell’Ulisse di Joyce.
Dove si ferma il mare è stato scritto da Lian mentre si spostava nomade da New York alla Nuova Zelanda e all’Australia, tra il 1992 e il 1993. Inutile ripetere quanto è già stato scritto con intelligenza da Pozzana, ed è inutile citare la straordinaria, intima riflessione che Lian stesso ha compiuto sulla sua creatività nel saggio Internazionale nel locale (2003) che completa il libro.
E’ possibile invece aggiungere un tassello inedito per la comprensione della scrittura poetica di Lian, che crea con disarmante purezza concettuale delle zolle erratiche di memoria calamitate con inquietante dolcezza nella tradizione occidentale che le ospita, dove implodono scardinando il senso logico del racconto in una fascinosa reverie della sovrapposizione.
La matrice formale di Pechino 2008 è quella dell’installazione postconcettuale, che permette ad artisti di tutto il mondo, spesso braccati dall’intolleranza e dalla violenza del fanatismo, di trascinare ogni volta uno spazio della memoria individuale nello spazio fisico collettivo che li accoglie altrove.
La matrice formale di Dove si ferma il mare, soprattutto per il prezioso gruppo di Tenebre, scritto a New York, è nella scrittura disseminata e febbrile di Poeta a New York, che Garcia Lorca scrisse nella città aperta del nomadismo negli anni 1929-1930.
Lorca arrivò a New York proveniente dalla Spagna popolare; aveva sperimentato la disgregazione nomade della memoria recitando con forsennata emozione quell’Apocalisse che noi immaginiamo scritta da un uomo esiliato nell’isola deserta di Patmos.
Lian ha trovato evidentemente in Poeta a New York la forma di una disperante frantumazione della memoria che circonda (che consola) con la sua fertile ricchezza l’io sgomentato dall’esilio, e ne ha mutuato spesso le forme di più grande, ipnotica fascinazione.
I frammenti lirici che compongono il mosaico di Tenebre continuano nel tempo il mosaico emozionante di Poeta a New York, ne rinnovano il doloroso stupore e lo innestano nell’irrefrenabile emozione dell’arrischiante avventura individuale:
Tenebre
Non c’è bisogno di tradurre il battito della riva del fiume
l’estetica della morte spinge i fiori a sciamare
Un altro mondo è ancora questo mondo dicono le tenebre
(New York, 1992)
da Poeta a New York (G.Lorca)
i dormienti cancellano i profili sotto la matassa delle lumache,
e resta il vuoto della danza sulle ultime ceneri
Ma la notte è interminabile quando si appoggia sui malati,
e ci sono navi che cercano d’essere guardate per potersi affondare tranquille
(New York, 1930)
1) La memoria, in Principi dell’esilio, è la fonte più profonda delle immagini e delle suggestioni, non è semplicemente la sede dei ricordi del passato; è quella diramazione delle immagini mentali che conosciamo con Memoria di Rimbaud (1872).
2) Pechino 2008: il tempo, gli animali, la storia. Un’opera di Huang Rui. Catalogo della mostra, Sala I, Roma, a cura di Mary Angela Schroth, con testi di Huang Rui, Alessandra Cappelletti, Filippo Salviati, Emanuela Termine; Gangemi, 2008.
3) Yang Lian, Dove si ferma il mare, a cura di Claudia Pozzana, Libri Scheiwiller – Playon (Aeroporti di Roma S.p.A.), 2004.
Una sezione del libro era già stata pubblicata in PlayOn Poetry, a cura di Jacopo Ricciardi, 2002 (traduzione di Pozzana).
Per un panorama complessivo della poesia cinese contemporanea vedi Claudia Pozzana, Alessandro Russo, Nuovi poeti cinesi, Einaudi, 1995.
2008