Pittura

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Pittura

Il Rio dei mendicanti, di Francesco Guardi, stampato magnificamente sulla copertina di un quaderno di scuola, è stato il catalizzatore del mio primo profondo innamoramento per la pittura, e fu emozionante, indimenticabile, il primo incontro con la delicatissima Gondola sulla laguna al Poldi Pezzoli, un dipintro che avevo sempre amato in foto.

Nell’Incendio a San Marcuola (Venezia, Accademia) Guardi ha creato una struttura visiva pura: le due fasce parallele, le case in fiamme e la folla attonita, sono calamitate da una forza malata verso l’invisibile asse orizzontale che le separa, il segno sottile che corrode il profilo della massa in fiamme è lo stesso che esaspera l’addensarsi del gruppo in basso; niente in questo dipinto stuporoso e poetico può sottrarsi all’ipnosi che costringe la retina a restare aperta, perfino la narrazione esteriore, la scena dipinta, è attratta con struggente dolcezza sul fondo di un cono visivo dal quale non può più risalire, siamo condannati a un vagare infinito dello sguardo in una dimensione che è solamente retinica, dove la fissità del segno ossessivamente ripetitivo inibisce e vanifica ogni somiglianza con la stessa realtà fisica, come avviene nella Tempesta di mare di Vivaldi.

Altri incontri emozionanti: San Salomone e i figli dei Maccabei, in S. Maria Antiqua, opera di un pittore ipersensibile del tempo di Papa Martino I (649-655); La Gioconda, infinitamente perturbante, e L’ultima cena leonardesca, delicatissima e fluida.

Davanti agli affreschi di Salviati mi è sempre stato impossibile smettere di continuare a guardare ansiosamente. Con Salviati si deve continuare a decifrare un testo pittorico complesso che è materiato come pochi altri di incessanti, frenetiche sollecitazioni visive.
Senza avere l’intensità visionaria di Rosso, né la morbosa, straniante matericità di Pontormo, Salviati mette in azione un congegno percettivo che rivela in lui una comprensione profonda della fisiologia della visione, una strategia che questo pittore coltiva studiando l’osmosi ininterrotta che vige tra gli oggetti.
S non ha l’ambizione di una pittura estrema, però seduce se stesso mentre sceglie consapevolmente di sedurre anche la percezione degli altri.

In Principi ho cercato lo specifico della pittura, prima nel brano su Rosso Fiorentino e poi in Seghers e Altdorfer. In copertina ho messo l’opera di Seghers, Paesaggio roccioso con mulino a vento, incisione del 1620 c, che non è solamente incisione, naturalmente, ma pittura allo stato puro.
Con la pagina su Rosso ho utilizzato tutti gli elementi interdisciplinari che portano alla decifrazione integrale di un singolo dipinto; é la mia risposta alla temporanea eclisse della critica formale e del comportamento interdisciplinare che esplora l’opera scandagliando il terreno con l’intuizione per approdare ad un’interpretazione consapevolmente parziale e soggettiva.
Ho raccolto in Principi e qui, nel Quaderno interdisciplinare, un mio ideale museo di pittura.

Vasi comunicanti. Nel capitolo su Seghers avevo inserito una nota (2003) che adesso invece (2012) tolgo e conservo qui:
Sull’esempio di Elsheimer maturano, oltre allo stesso Seghers, pittori rari e intensi come J.H.Schoenfeld (+1683) e come Leonard Bramer (+1674) di cui recentemente è stato possibile vedere tre straordinari dipinti su rame del 1623 c. nella mostra ‘Caravaggio e il genio di Roma, Palazzo Venezia 2001, tra le cose più belle e più autentiche esposte in quell’occasione.
L’importante articolo di SeleArte, purtroppo senza firma, non collegava comunque Seghers alla pittura cinese, eppure ci sono tracce visibilissime della presenza della splendida pittura cinese in Europa fin dal 1500: le forme rocciose dei dipinti del fiammingo Herri Met de Bles Il Civetta (1550 c.) e del suo maestro Patinier (1524), di N. M. Deutsch (1530) e di Lucas Van Valckenborg (1597), sono state definite dagli studiosi strane e capricciose, ma il ‘carattere fantastico nei loro eccentrici paesaggi di rocce non è altro che l’eco dei paesaggi cinesi visibili sicuramente nell’ambiente olandese degli scambi commerciali con l’Oriente.
Un paesaggio disegnato da Jan Van Stinemolen (1617), caratterizzato dall’‘impressionante irrealismo visionario, ha fatto scrivere a R. Bacou che ‘bisognerebbe avvicinare quest’opera affascinante all’arte dell’estremo oriente.
Ma tutte queste opere in realtà riflettono solo epidermicamente e mediocremente il contatto con la pittura cinese e non ne condividono certo profondamente e intimamente la struttura; sono semplicemente la traccia storica di un evento che forse la Storia dell’arte non ha ancora preso in considerazione. Seghers sembra essere stato l’unico pittore secentesco in grado di adottare con autenticità una struttura visiva estranea all’arte occidentale.
Scopro solo adesso (2003) un articolo pubblicato sul Giornale di Estetica nel 1999: G.Paternolli, C. D. Friedrich e la pittura cinese. Non ho consultato (2008) il testo di E.Haverkamp Begemann, Hercules Seghers, Amsterdam,1968.
12.2016. Ad Amsterdam è in corso una mostra antologica di Seghers. In una succinta recensione su La Lettura leggo che morì ‘alcolizzato e poverissimo’.

Stereotipi
La pittura dell’800 italiano resta ancora oggi poco familiare per i giovani studiosi. Complice di questo disinteresse è evidentemente la stessa educazione accademica che identifica quel periodo storico con gli eventi storici. Eppure nell’Ottocento italiano ci sono autori lirici e intensi come Fontanesi, Caffi, Toma. Un testo incredibile di Longhi su Carrà (in un raro volumetto degli anni ’40 della mia biblioteca) attesta la sua desolante cecità per la pittura poetica di questo periodo storico.

2016. Pompei. Con la mia seconda visita a P ho avuto una percezione più intensa dello spazio pittorico creato dalle grandi campiture parietali di giallo e rosso delle case pompeiane, uno spazio timbrico che a volte viene esaltato anche dall’accordo di rosso e verde.
Il ciclo della Casa dei Misteri, che avevo appena intravisto l’ultima volta, relegato al buio in un ambiente miserabile, adesso è più visibile, anche se quasi deformato da un restauro eccessivo e a volte falsificante: comunque il legame con la pittura trecentesca e giottesca è più che mai evidente, come ho sempre pensato dalle illustrazioni.
Il ciclo a quanto pare è una copia da un originale campano, ed è questo carattere di copia che porta a quella netta squadratura dei volumi che deve aver impressionato i pittori del tempo di Giotto (a Roma erano sicuramente visibili tanti analoghi affreschi antichi).