Musei
La difficoltà di leggere con intensità l’opera nel suo contesto integro, la chiesa, la città, la lingua originale, è la stessa che impedisce di capire l’opera nella sua apparente decontestualizzazione museale e anche nella traduzione.
Il dipinto, l’argento, il mobile, il romanzo, si trascinano dietro i segni del loro complesso tessuto culturale, ed è emozionante avvertire questa densità anche nello spazio disorientante del museo e della traduzione; la mediocrità di tante recenti trasformazioni museali, e di tante traduzioni, nasce dalla profonda incomprensione di questa realtà, perché accentuare e forzare artificiosamente la percezione dell’opera porta al risultato paradossale di offuscarne la realtà strutturale.
Da ragazzo ho frequentato molto il Museo di Palazzo Venezia, il Museo Nazionale romano alle Terme di Diocleziano, il Pigorini, il Museo d’arte Orientale e la GNAM, luoghi affascinanti dei quali ero profondamente innamorato e dove poi ho avuto il piacere di lavorare (a PV e alla Gnam) per gran parte della mia vita come archivista dei Beni Culturali.
2008. E’ sempre attraente il magnifico ambiente del museo milanese di Castello Sforzesco, uno dei miei preferiti, con luci naturali, spazi puliti e aperti, interdisciplinarietà, pannelli con immagini di confronto nel settore degli strumenti musicali, schede sala per sala a disposizione dei visitatori; soluzioni intelligenti e difficili per la messa tra parentesi delle opere particolarmente importanti, come è l’allestimento riservato e intenso dedicato alla Pietà Rondinini (che adesso purtroppo è spostata senza motivo in uno spazio anonimo).
2012. Pesaro. E’ magnifico il piccolo museo dedicato a Rossini nella sua casa natale: litografie raffinate, disegni e incisioni del suo amico Dorè, una sala civilmente dedicata all’ascolto delle sue opere.
Emozionante la visita al Louvre, ma non quanto lo è stata quella al British.
Deludente il V&A, con i suoi argenti lucidati con imprevista volgarità. A Londra la delusione più grande è stata quella del Museo della tecnica, che conserva oggetti magnifici che non hanno nessun bisogno di essere messi in risalto da quella sterile scenografia da discoteca del tutto ingiustificata.
Alle pesanti e tristi deformazioni museali degli ultimi decenni del XX secolo replicavano, negli anni ’90, degli episodi eccezionali come il Museo Nazionale Romano e la straordinaria sezione dell’Ottocento italiano della Gnam, che restituiva interamente l’atmosfera intensa della quadreria dell’epoca, anche se oggi, 2016, la quadreria è scomparsa per lasciare lo spazio a un’incredibile e grottesca messa in scena teatrale delle opere che lascia senza fiato.
Il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo (1995), frutto di una intelligente e rarissima osmosi tra tecnologia e studio, è ai miei occhi il miglior museo italiano. Rivedo in questa eccellente sistemazione le opere che andavo a vedere alle Terme di Diocleziano e a volte nei depositi, dove erano conservati gli straordinari affreschi parietali, affascinanti anche prima del corretto restauro brandiano.
L’illuminazione razionale permette di leggere correttamente il diverso ductus scultoreo legato a marmi diversi che sarebbe vanificato dalla consueta illuminazione diretta a luce gialla che infesta senza motivo gli altri musei; le vetrine sono curate con luce fredda che preserva la percezione della materia, esemplari quelle dedicate ai delicatissimi gioielli romani; la ricostruzione degli ambienti originali con affreschi e stucchi restaurati (con grande sensibilità) è eccezionale, soprattutto la parete curva con l’incredibile pittura di tocco di epoca augustea.
La destinazione di una sala unica per il magnifico Sarcofago di Portonaccio permette la comprensione profonda e meditata di un capolavoro straordinario, a differenza di quanto accade negli altri musei che mostrano invece l’incapacità di sottolineare la qualità estrema dell’opera, come dimostra la maldestra e sconcertante destinazione recente (2015) della Pietà Rondanini, nel Castello Sforzesco di Milano, ad una grigia sala unica, scorporata senza motivo dal percorso museale e allestita come un banale spazio per conferenze, con le sedie allineate di fronte all’opera in piena luce, una scultura che necessita invece di una luce diffusa che non esasperi inutilmente il biancore del marmo e soprattutto di poter essere aggirata lentamente per coglierne il perturbante e discontinuo sviluppo plastico nello spazio. Nella collocazione originaria la Pietà era immediatamente visibile entrando nello spazio cautamente circoscritto che la ospitava, serenamente in penombra, mentre adesso la si trova insensatamente di spalle e collocata su un ridicolo plinto che la allontana verticalmente impedendo l’indispensabile percezione ravvicinata. A differenza dell’intelligente sistemazione del Sarcofago, che mostra oscuramente la sua altissima qualità, la Pietà è sottolineata con la sterile retorica di chi la vuole imporre come opera del genio, mortificandone la realtà di opera amaramente autocritica.
Berlino
Sono magnifici i musei di Berlino. I dipinti non sono mai isolati come capolavori unici, ma collocati in un ampio contesto (al Gemalde); cataloghi tematici sono offerti in consultazione gratuita (al Bode); ci sono comodi spazi per la sosta (Gemalde); luce razionale e moderata; assoluta mancanza di suoni invadenti; stupefacente allestimento di grandi frammenti architettonici.
Il Pergamonmuseum comprende il Vorderasiatisches Museum e il Museum für Islamische Kunst ed espone la ricostruzione di interi vastissimi ambienti architettonici. Ci sono lo stupefacente Altare a Zeus di Pergamo, (166-156 ac), eretto sotto Eumene II e Attalo II, reso leggibile da un corretto restauro brandiano (v Aa.Vv, Museo di Pergamo, 1995), la facciata completa del Mercato di Mileto (120 dc), atmosferico e lieve come un’immensa terracotta, la grande, sconvolgente Porta di Histar, con la sua lunga strada processionale, da Babilonia, VI sec. ac (625-562 c), ricomposta qui dal 1930, con il colore liquido del blu che smaterializza il volume mentre il colore opaco e denso dei leoni rende più acuti gli inserti naturalistici.
La magnifica raccolta di Papiri è visibile con un razionale sistema di cassettiere che, azionate da un pulsante, scorrono brevemente senza esporre troppo a lungo alla luce il delicatissimo materiale.
Nella sezione preistorica, il grande Cappello dorato di Schifferstadt, in lamina d’oro, età del bronzo (1800-500 ac), da Spira (Germania), è analogo al copricapo pubblicato in L’arte europea delle origini, 1968 (it.1969) di Walter Torbrugge. Qui è possibile ascoltare un impressionante Lur in bronzo del II millennio ac, con il suono registrato in due tonalità, grave e acuta, (v foto di opere analoghe in Alexander Buchner, Enciclopedia degli strumenti musicali, 1980, e illustrazioni in Diagram 1977).
C’è il grande frammento di 33 metri del Palazzo della Mshatta, castello giordano del 743-744 c. costruito dal califfo al-Walid II, di cultura Omayyade, ma già creduto sasanide per i suoi rilievi e per le forme decorative esplicitamente mutuate dalla tradizione locale bizantina e sasanide; donato nel 1903 a Guglielmo II (v le foto delle rovine attuali del castello in Carel Du Ry, L’arte dell’Islam, 1970, it.1972, e quelle del grande frammento di Berlino in Arte islamica di Giovanni Curatola, 2007, Art Dossier).
C’è un’intera affascinante stanza siriana del 1603 c, da Aleppo.
Qui si ricostruiscono le vaste zone meno studiate della creatività maturata al confine con la declinazione popolare delle grandi forme storiche: l’arte funeraria egizia, dalle forme plebee ai ritratti del Fajum; l’arte Ittita, con una grande e impressionante raccolta; l’arte Copta, tra Egitto antico e Altomedioevo europeo (v Gustave Deneuve, L’arte copta, 1970).
Atene
Il Museo Archeologico Nazionale è una magnifica raccolta di opere: i marmi delle Cicladi, gli affascinanti ori di Micene, i grandi kouros, i tanti gioielli greci, la ceramica dalla poetica geometrica a quella descrittiva, i pochi bronzi greci sopravvissuti, i delicatissimi vasi funerari a fondo bianco. Si esce dal museo con il desiderio di continuare a osservare meglio le tantissime opere.
Il Museo d’arte cicladica, retto da una fondazione privata, è strutturato razionalmente e costituisce la civilissima risposta scientifica allo squallore penoso del goffo museo dell’Acropoli. Le monete qui sono contestualizzate all’interno di vetrine illuminate razionalmente e dotate di didascalie efficaci; l’allestimento dei marmi cicladici esalta le varianti dimensionali interne a un sistema di ossessa, poetica ripetizione e la visione d’insieme toglie il respiro.
Il cd Museo Bizantino è purtroppo uno squallido deposito di opere insignificanti, mentre il Museo Numismatico espone con scostante freddezza istituzionale il suo patrimonio mostrandone solamente, con gelida pedanteria didattica, il contenuto storico: i grandi autori delle monete greche del V secolo qui sono del tutto ignorati.
Il Museo Benaki, creato da un collezionista negli anni ’30, è, assieme all’Archeologico e al Cicladico, un autentico gioiello museale: un settore etnografico vastissimo ed esaustivo (abiti, mobili, gioielli, dipinti popolari, tessuti), una raccolta magnifica di arte bizantina, con grandi strutture in legno salvate dal degrado e con dipinti di grande qualità (due piccole opere di El Greco attestano la sua incerta prima maniera); la pittura popolare e adriatica è documentata da un’impressionante raccolta di grande fascinazione. Nel B è possibile vedere una raccolta imponente di gioielli greci, bizantini e soprattutto popolari.
All’interno del brutto Museo dell’Acropoli di Bernard Tschumi (2008) l’intero fregio del Partenone è goffamente ricostruito utilizzando gli illeggibili resti e le orribili copie in gesso dei frammenti conservati al British. A parte le suggestive cariatidi, inaspettatamente barocche, e l’intenso Moscoforo arcaico, le opere conservate, poco più che modesti pezzi da magazzino, sono svilite da un allestimento insensato che le affoga in uno spazio opaco e paradossalmente privo di respiro; le ridicole luci gialle accecano i marmi ignorando irrazionalmente le sproporzionate fonti di luce naturale (con l’ulteriore assurdità delle finestre semi abbuiate, come se le opere non fossero marmi ma dipinti o disegni).
Nonostante ci sia lo spazio a disposizione per pannelli trasparenti ad altezza ragionevole, per leggere le invisibili didascalie è necessario stendersi letteralmente per terra; in uno spazio fastidiosamente esteso, da supermarcato, non è stato possibile collocare un adeguato sistema di contestualizzazione delle opere che sarebbe stato facilmente realizzabile con una pannellatura leggera e ben calibrata; una vetrina di monete bizantine del VI secolo dc è collocata irrazionalmente, spettrale e immotivata, tra le opere della Grecia classica.
Si tratta sicuramente del museo più brutto e inutile che io abbia mai visto, uno spiacevole scatolone neoclassico che nega tutte le conquiste dell’architettura più civile. Le speranze riposte nel passato decostruttivismo di Tschumi desunto da Derrida sono vanificate da un contenitore abnorme e sterile, da un involucro insignificante e fuori scala del tutto privo di spazio interno.
Involuzione della cultura del museo
2006. Paradosso involutivo del Pigorini. Nella sua prima tetra forma museale, ancora visibile negli anni ’60, quando il museo era all’ultimo piano del Collegio Romano con le sue tristi vetrine da ambulatorio medico, le opere esposte conservavano un loro fascino inquietante perché erano ancora intrise del pudico ritegno ottocentesco che le teneva a distanza. Con l’ariosa esposizione degli anni ’70, all’EUR, il museo si è mostrato in piena luce, disponibile alle più contrastanti interpretazioni critiche dell’arte non occidentale, ma la recente e radicale ridefinizione teatrale del museo riporta quella collezione a un deprimente sapore esotico, e la possibilità di leggere le opere nella loro straordinaria autenticità sembra allontanarsi nuovamente.
La stessa sorte l’ha seguita il pochissimo frequentato Museo d’Arte Orientale di Palazzo Brancaccio.
Quando lo andavo a visitare negli anni ’70 era un silenzioso deposito di opere straordinarie che risplendevano nella penombra con una naturalezza alimentata dalla stessa neutra esposizione museale, i custodi accendevano le luci quando entravo. perché il museo era del tutto ignorato.
Negli anni ’90 il museo si è trasformato in una sconcertante galleria luminosa, dove il design inadeguato e l’illuminazione irrazionale accecano le opere senza motivo. Le incredibili tankas tibetane adesso sono illeggibili, sospese in alto e illuminate a giorno secondo i criteri di una deteriore scenografia spettacolare, e oggi, 2017, si parla di perfino un irresponsabile spostamento altrove.
L’incredibile disparità di risultati conseguiti nell’allestimento museale negli stessi anni e nello stesso contesto regionale è il frutto della mancata assimilazione delle culture estranee al tessuto culturale della città. La mancanza di riflessione critica sull’arte non occidentale, che in Italia continua ad essere documentata quasi sempre da pubblicazioni che non offrono una sola parola di critica formale, porta quasi inevitabilmente a una goffa e accademica cancellazione degli allestimenti del passato che in parte erano giustificati proprio, almeno negli anni ’60, dall’inedita disponibilità allo studio interdisciplinare e alla lettura critica.
E’ davvero incredibile e penosa l’accozzaglia di oggetti senza senso del Museo del design della Triennale di Milano.
Per gli oggetti più noti del design ci sono cartellini minuscoli e illeggibili al posto di comprensibili targhette, laddove sarebbe stato utile trovare pannelli trasparenti e agili con storia, confronti e letture formali.
Imperano uno sgradevole e insensato gusto del lusso e un’ironia indesiderata e priva di senso. Si ripete lo stesso fenomeno che ho trovato nel grottesco Museo del cinema di Torino; invece di andare verso un museo permeato dalla sempre più necessaria interdisciplinarietà si va verso musei che pretendono arrogantemente di rinnovarsi nel senso opposto, mirando ad una demagogica familiarità con il fruitore che elude l’informazione a favore dell’ambiente abitato da oggetti seducenti, ma privi di storia.
C’è la sgradevole presenza, in questi due musei, di una tecnologia che viene utilizzata senza motivo e senza intelligenza con inutili proiezioni alle pareti e con la sovrapposizione insensata e stupidamente teatrale delle voci e delle immagini. Nel museo del Cinema c’è l’aggravante di aver occupato in congruamente lo spazio straordinario e irripetibile della Mole Antonelliana che meritava di essere conservato nella sua incredibile e inedita intensità.
Il museo del MAXXI, è un penoso e grottesco museo degli orrori, insulso e superficiale, un’altra occasione sprecata.
Assoluta mancanza di lettura critica, totale assenza di spirito interdisciplinare, esplicita preferenza per l’elemento spettacolare e demagogico, implicita avversione per la linea poetica dell’antidoto al racconto, che nell’arte contemporanea, sequestrata dalla scolastica accademica e dalla grande committenza del marcato, sopravvive a fatica.
La brutta architettura conferma ciò che avevo intuito e anticipato con la mia conferenza sull’architettura nel 2002: La nuova architettura a Roma: dall’Auditorium di Renzo Piano ai progetti futuri.
La Spezia. E’ magnifico il Museo civico Lia, ma sono deludenti gli altri musei locali. Nel Castello di S. Giorgio, che ospita il Museo archeologico, l’esposizione delle importanti steli di cultura neolitica della Lunigiana è incredibilmente banale, le opere sono confinate, per una irrazionale e scolastica esigenza cronologica, in uno spazio chiuso, privo di aria e di luce, e manca una seppur minima contestualizzazione della vasta diffusione neolitica delle steli in Italia e in Europa, mentre ai piani superiori sono esposti inutilmente in vaste sale piene di luce naturale dei frammenti irrilevanti di architettura romana, materiale da deposito.
Il CAMeC, d’arte contemporanea, mostra con ossessiva e sconcertante evidenza i limiti dell’attuale inaccettabile asservimento al mercato: la collezione permanente è invisibile perchè si lascia il posto a costose mostre prive di necessità. Nelle teche di un corridoio sono esposti con arrogante idiozia feticistica i testi di Deleuze e di altri autori per i quali i curatori suppongono arbitrariamente che ci sia qualche interesse anche fuori dall’ambito strettamente specialistico. Lo spazio disponibile, vuoto e inondato di luce naturale, è enorme e assolutamente sprecato, ed è impossibile non pensare all’ambiente squallido del Castello nel quale sono recluse senza motivo le preziose Steli della Lunigiana, la cosa più importante che La Spezia possiede e che evidentemente ignora.
Ma a La Spezia la sorpresa più grande, purtroppo anche questa negativa, è quella del Museo tecnico navale, che è in realtà un’incredibile tempio dedicato alla guerra e fanaticamente incentrato sul periodo fascista esaltato senza pudore fino al limite del reato di apologia: nella vetrina d’ingresso ci sono dei libri sconcertanti dedicati ai criminali U-boot nazisti, mentre i tanti libri relativi alla vera storia della marina (italiana, non fascista) sono assolutamente invisibili in un corridoio interno e inaccessibile che si attraversa solamente per andare al bagno.
Il Museo è un vasto, imbarazzante deposito di armi, e non c’è nessuna forma di civile distacco dalla tragedia della guerra, che qui viene anzi enfatizzata implicitamente come teatro di gesta eroiche.
La raccolta di modelli navali è sconfinata e di enorme importanza, un patrimonio meraviglioso, eppure i cartellini sono ridicoli e vecchi di decenni, le opere, centinaia di grandi modelli di navi, sono stivate penosamente in teche che li rendono quasi illeggibili, mentre ognuna di esse potrebbe e dovrebbe essere esposta ariosamente per facilitarne lo studio del design (nel misero depliant si leggono poche righe banali sotto la dicitura riduttiva di modellismo navale); tra i tanti, il modello della Vespucci, che ho visitato a Genova qualche anno fa, è magnifico, ma quasi illeggibile.
Si trascura il fatto che questa raccolta stupefacente potrebbe essere la base per una fondamentale conoscenza approfondita del trascurato design navale, e lo stesso vale per la raccolta straordinaria e affascinante di lampade per fari.
Gli interessanti scafandri sono segregati in un angolo a favore dell’esposizione abnorme di armi, che potrebbero essere conservate e studiate su richiesta in un vasto deposito attrezzato da ricavare negli spazi inutilizzati dell’Arsenale.
Una grande, magnifica elica di nave è esposta nel giardino di bosso decontestualizzata come se fosse una suggestiva scultura contemporanea da ammirare solamente per la sua disarmante bellezza, ma le eliche navali, con il loro raffinato e fluido design datano dagli inizi dell’Ottocento e questa sarebbe l’occasione ideale per documentarne l’interessantissimo sviluppo.
Perché questo museo di La Spezia non può essere un grande e magnifico museo della navigazione e non (insopportabilmente) della guerra? L’ambiente che lo ospita, il grande Arsenale del 1869 è un episodio imponente di archeologia industriale, ma è visibile un solo giorno all’anno; potrebbe ospitare una esposizione più ariosa dei materiali e gli indispensabili apparati documentari (foto, dipinti, illustrazioni) rinunciando ad enfatizzare le gesta criminali della marina nazista, una pirateria che prendeva di mira vigliaccamente le navi civili disarmate.
Libri
1993. Roland Schaer, Il Museo, tempio della memoria, Gallimard (it. 1996). Bella raccolta di immagini sulla storia del museo.
2005. Il museo dei musei, TCI.
2006. Musei d’Italia, TCI.
Tralascio qui i tanti cataloghi di musei della mia Biblioteca, raccolti lavorando e viaggiando.
Nel mio archivio ho raccolto una corposa documentazione di tutte le piccole pubblicazioni cartacee dei musei locali che ho visitato.