Marcel Proust
Alla ricerca del tempo perduto, 1913-1927. A cura di Paolo Pinto e Giuseppe Grasso (1990, terza edizione, 2011), In appendice al volume un denso saggio critico di Giuseppe Grasso.
Sulla brutta copertina del volume ho incollato una foto del dipinto di Pierre Bonnard, Nudo nella vasca da bagno, 1935, che ai miei occhi corrisponde perfettamente alla scrittura di P. La pittura di Bonnard è l’equivalente visivo della scrittura di P, un impasto opaco di racconto inerte e di emotività, di addensarsi della cancellazione laddove ci si aspetterebbe invece uno schiarirsi, una dolorosa, ineludibile, percezione della carnalità del mondo.
In Vitalità del pensiero poetante ho registrato le tappe del discusso rapporto di P con Bergson, che nel 1896, in Materia e memoria, ha scritto parole che illustrano perfettamente l’opera creativa di Proust e sembrano mostrare in sintesi il progetto stesso della Ricerca:
‘Un essere umano che sognasse la sua esistenza invece di viverla, terrebbe senza dubbio sotto il suo sguardo, in ogni momento, la moltitudine infinita dei dettagli della sua storia passata’
Nel 1919, in occasione del Premio Goncourt, Bergson comunicò a P la più sottile, sintetica interpretazione della sua opera poetica:
‘Raramente l’introspezione è stata spinta così lontano. E’ una visione diretta e continua della realtà interiore’.
Nella R ogni segno della memoria si specchia nella memoria individuale di chi legge, non c’è nessuna finzione letteraria, è tutto realtà concreta.
In Ulisse la percezione procede dall’interno del corpo verso il mondo esterno, dalla struttura nascosta alla massa concreta che l’assedia; nella Ricerca, invece, la percezione procede dalla superficie epidermica del mondo e traspira in profondità verso l’Io che la osserva.
Ulisse mostra l’Io denudato, la R mostra l’esoscheletro che lo protegge.
La R educa a essere consapevoli della propria sensibilità ed emotività. Anche se tutto il ciclo dei sette romanzi è la rielaborazione continua di un materiale sostanzialmente autobiografico, la vera materia della narrazione è la percezione stessa che ognuno ha del mondo, e P commenta puntualmente proprio questo fenomeno, il progressivo accorgersi del mondo nella sua sfuggente complessità, innestando un diario nella struttura viva della scrittura. Si avverte costantemente un Io che alle nostre spalle osserva e riflette su ciò che stiamo sperimentando, ed emerge lentamente in un’irrefrenabile proliferazione di tracce, di suggestioni e di sviste, tutto ciò che individualmente possiamo aver già provato. E’ naturale, allora, che non si riesca a leggere con piacere la R se si ha una debole esperienza della propria emotività e della propria memoria delle cose.
Nella R l’apparenza del racconto tradizionale può essere scostante, le descrizioni, i modi di dire, i dialoghi, sono un retaggio del romanzo ottocentesco che P non vuole affatto superare, ma spingere fino alle estreme conseguenze. La R contiene tracce evidenti di una parte della letteratura precedente (Flaubert, Zola), e condivide la ricerca di un estremo approfondimento della percezione del mondo che in quegli stessi primi decenni del Novecento stavano conducendo anche altri autori molto diversi tra di loro, come Joyce, Rilke, Musil, Kafka, ognuno con una diversa declinazione di quella stessa necessità di mettere lucidamente a fuoco una realtà denudata che solamente Dostoevskij, Flaubert e Baudelaire avevano già esplorato.
L’emotività e la sensibilità, nella R, sono il vero e unico soggetto del racconto, ogni cosa è filtrata dai nervi, ogni dettaglio del mondo esteriore è reso trasparente da una febbrile necessità di vedere oltre le apparenze. P ha saldato alla forma del romanzo tardo ottocentesco la tradizione francese della riflessione interiore e individuale, da Montaigne (Saggi) a Pascal (I pensieri), e questo giustifica la voce esterna, l’Io narrante, che riflette incessantemente su ciò che accade.
I riferimenti di P a Montaigne, d’altra parte, sono evidenti: ‘Ogni lettore è il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore è solo una specie di strumento ottico offerto al lettore per consentirgli di discernere ciò che forse, senza quel libro, non avrebbe potuto intravedere in se stesso’ (pag. 2350, ed. 2011).
Non riesco a chiamare Il narratore (come fanno tutti) l’Io narrante della R, per me è semplicemente P, Proust.
La prima immagine della R è, per me, assolutamente straordinaria:
‘mi sembrava di essere io stesso l’oggetto di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra francesco I e Carlo V. Questa convinzione sopravviveva ancora qualche istante al mio risveglio; non offendeva la mia ragione, ma premeva sui miei occhi come una squama’ (2).
Questa suggestione sconcertante è quella che ho sempre provato io nel dormiveglia e provoca in me una profonda familiarità con l’uso della percezione sensoriale di P.
Sono pagine di stupefacente verità, l’incertezza inquietante del proprio corpo e della sua posizione nel mondo, il nebuloso dormiveglia, sono fin dall’inizio la condizione percettiva dominante della R, in un fluire liquido che condiziona radicalmente tutto ciò che si legge dopo, come una corrente marina che attira incessantemente il corpo altrove. D’altra parte, la camera da letto è, per P, il ‘punto fisso e doloroso delle mie preoccupazioni’ (8).
Dopo la messa in moto di questa macchina della percezione anomala e interiorizzata inizia il ricorrere incessante degli stereotipi, che P associa sempre alle singole persone: ‘è un peccato restarsene al chiuso in campagna’ (9), ma l’acuta sofferenza provocata dall’amore della madre contrasta con la normalità di questi stereotipi che disegnano i dettagli della mappa della vita comune (11).
La visita di Swann è ‘oggetto di una preoccupazione dolorosa’ perché interferisce con la sua necessità di intimità con la madre (19), ogni gesto degli altri è denudato ai suoi occhi, il nonno lo priva del bacio serale della madre con ‘inconscia ferocia’ (23), sale la scala ‘come dice l’espressione popolare, ‘a malincuore’, salendo contro il mio cuore’ (23), l’odore di vernice della scala rende ‘più crudele’ la sofferenza (23), e pensando ancora al dormiveglia torna un riflesso di quell’idea straordinaria delle prime pagine, ‘come un verso di Molière che ci ripetiamo senza posa’(23), una dolorosa suggestione che personalmente mi tormenta ancora oggi nei rari momenti di incubo da febbre alta.
P descrive il tentativo di far avere un biglietto alla madre, e ripenso alle ore interminabili e ansiose passate da ragazzo ad aspettare che una certa ragazza, mia coetanea, uscisse sul balcone per vederla; un fluire affascinante di narrativa pura (24-28). Il dolore dell’infanzia è inestinguibile: ‘Un’angoscia simile fu per lunghi anni il tormento della mia vita’ (25). ‘La festa inconcepibile, infernale’ che lo separa da chi ama, i ‘piaceri sconosciuti’ (26).
In giardino vede il ‘chiaro di luna’ che ‘raddoppiando e facendo indietreggiare ogni cosa, stendendole dinanzi il suo riflesso, più denso e concreto delle cose stesse, aveva a suo tempo rimpicciolito e ingrandito il paesaggio, come una mappa fin allora ripiegata che venga distesa’(27), dove penso al dipinto bizantino con l’angelo dell’Apocalisse che riavvolge il cielo.
Il pianissimo orchestrale viene rievocato con perturbante intensità pensando al ‘fremito minuzioso’ del silenzio, che è come ‘l’avanzare lontano di un esercito in marcia che non avesse ancora svoltato per rue de Trévise’ (27).
La madre, aderendo ai suoi desideri, resta con lui di notte: ‘potevo piangere senza peccato’ (31). ‘Mi sembrava di aver tracciato, con mano empia e segreta, una prima ruga nella sua anima’ (32). La riflessione su questa vittoria si trasforma in scrittura trasparente, dove si scorge in filigrana tutta la complessità sfuggente della percezione sensoriale.
Nei suoi ricordi d’infanzia passano per un attimo la ‘cattedrale di Chartes dipinta da Corot’ (33) e ‘il Vesuvio dipinto da Turner’ (33).
Poi c’è la presenza perturbante dei nomi: la parola ‘Champi’, nel racconto letto dalla madre, assume un sapore ambiguo (35), mi fa pensare con tenerezza al fatto che da bambino la parola attimpuri (non commettere a), pronunciata così, di seguito, dal sacerdote, mi risuonava nella mente come una situazione incomprensibile, misteriosa e perturbante.
P ripensa ai suoi giorni con un’immagine inquietante: ‘una sorta di lembo luminoso, ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che la vampa di un fuoco di bengala o un fascio di luce elettrica illuminano e sezionano in un edificio di cui le altre parti restino immerse nella notte’ (36).
Mangiando un dolce con il the avverte il perturbante affiorare di una memoria sfocata: ‘depongo la tazza e mi rivolgo allo spirito. E’ compito suo trovare la verità’, sembra di leggere Le Confessioni di Agostino.
‘Il ricercatore é al tempo stesso anche il paese oscuro dove deve cercare’ ( ) Chiedo al mio spirito uno sforzo ulteriore’ (37).
Il dolce a forma di conchiglia evoca forse il pellegrinaggio in Galizia (cfr. nota 42), una epifania della memoria diffusa che sembra davvero legata alla riflessione di Agostino sul tempo e sul presente, e la descrizione accurata e lenticolare di questa percezione, che é ostinatamente ripetuta per essere capita meglio, fa pensare subito a Bergson e ai dati immediati della coscienza:
‘L’odore e il sapore rimangono ( ) a sorreggere ( ) l’immenso edificio del ricordo’ (39).
André Gide rifiutò la pubblicazione del romanzo, perché ritenne incongruo il paragone, così perturbante, che viene fatto tra ‘ i cappelli finti’ della zia e ‘le vertebre’ che dalla parrucca trasparivano come una ‘corona di spine’ (43, nota 44).
Nel centro del romanzo (130-133) è messa a dimora la suggestione perturbante del sadismo, come lo chiama P. Spiando da una finestra aperta la figlia del musicista Vinteuil, che poi rivive nel frammento musicale che seduce chi lo ascolta, la vede nell’intimità erotica con una sua amica:
‘una familiarità rude e imperiosa ( ) ad ogni istante, in fondo a lei, una vergine timida e supplichevole implorava, e faceva indietreggiare un soldataccio rude e prepotente’.
E’ una scena di raffinata, incredibile indagine psicologica, una bellissima scena d’amore, delicata e perturbante, forse una delle pagine più belle e vere della R
‘Quel ritratto di mio padre che ci guarda..’, dice la ragazza oltraggiando sadicamente la fotografia del padre morto, fa pensare all’espressione analoga di Lucia Joyce rivolta al padre: ‘ci sta guardando tutto il tempo’.
L’evento mostra ‘la forma terribile e permanente della crudeltà’ (133), ma P non da un giudizio morale, vede lucidamente, nelle parole e nei gesti, l’ambiguità e il tormento del conflitto, e d’altra parte P qui riflette anche sulla sua sessualità.
Può darsi che il giudizio negativo sull’erotismo perverso della R, che più tardi darà Croce, derivi da questa cellula tematica poi estesa a Sodoma e Gomorra. Impossibile per me non ripensare a una inquietante scena di lotta erotica che vidi da ragazzo nella camerata di una delle tante colonie estive.
La descrizione impressionista dei campanili di Martinville (145) è un brano già ideato nel 1907 a seguito delle escursioni notturne in automobile con Alfred Agostinelli e pubblicato come ‘Impression de route en automobile’ su Le Figaro, che P adesso inserisce nella R (146):
‘essi virarono nella luce come tre perni d’oro e disparvero ( ), ma ( ) li vidi un’ultima volta ( ), tre fanciulle ( ) abbandonate in un luogo solitario quando già scendeva l’oscurità ( ) li vidi cercare timidamente il cammino e ( ) stringersi l’uno sull’altro, scivolare l’uno dietro l’altro, lasciare apparire nel cielo ancora rosa nient’altro che un’unica forma nera, incantevole e rassegnata, e nascondersi nella notte’ (146).
La prima parte del romanzo si chiude con un’immagine della luce diurna, che sembra sempre contrapposta all’intimità inquietante della notte:
‘quel pallido segno tracciato sulle tende dal dito levato del giorno’ (150).
La sua sensibilità associa l’esperienza dell’arte e della musica al dolore dell’amore inquieto. La percezione della musica (167), ‘un’impressione così confusa ( ) impressioni ( ) forse le sole puramente musicali, senza estensione, originali del tutto, irriducibili a ogni altro ordine d’impressioni’ (169).
‘Questa cosa che non è più musica pura, è disegno, architettura, pensiero’ 169); ‘Aveva provato un amore sconosciuto’ (169). ’l’immagine di una bellezza nuova che conferisce alla propria sensibilità un valore più grande’ (170).
La scrittura, quando è più fluida, permette una riflessione splendida sulla parola (il nome) come filtro che prepara l’incontro con la realtà: Venezia, Firenze, sono immaginate prima di essere vissute (307-315).
All’ombra delle fanciulle in fiore (1918). Il libro vince il Premio Goncourt nel 1919, e Bergson scrive il suo bellissimo elogio del romanzo.
Il romanzo si chiude con una perturbante immagine funeraria della luce solare:
‘E mentre Francoise toglieva gli spilli dalle imposte, staccava le stoffe, tirava le tende, il giorno d’estate che scopriva sembrava altrettanto morto e immemoriale di una sontuosa e millenaria mummia che la nostra vecchia domestica avesse liberato con cautela dal viluppo di tutte le sue bende, prima di farla apparire, imbalsamata nella sua veste d’oro’ (740).
Sodoma e Gomorra, edito nel 1921-22: ‘A volte l’avvenire abita in noi senza che ce ne rendiamo conto’ (1234).
Inserti diaristici: ‘Sconvolgimento di tutto il mio essere’ (1324). ‘Ai turbamenti della memoria sono legate le intermittenze del cuore’ (1325). ‘L’io che ero allora e che era scomparso così a lungo, era di nuovo così vicino a me’ (1325).
Pagine oniriche (fino a pag. 1330) delicatissime e struggenti che a tratti sembrano tratte dall’Interpretazione dei sogni di Freud:
‘cervi, cervi, Francis Jammes, forchetta’ (nota a pag 1329).
Schumann (1350): ‘c’è qualcosa che ha il potere di esasperazione non raggiungibile da una persona, ed è il pianoforte’.
‘Gomorra, dispersa, tende, in ogni città, in ogni paese, a ricongiungere le membra sparse, a riformare la città biblica, mentre ovunque gli stessi sforzi sono sì perseguiti, sia pure in vista di una ricostruzione intermittente, ma dai nostalgici, dagli ipocriti, e a volte dai coraggiosi esiliati di Sodoma’ (1398).
Bergson e Boutroux, Plotino (1502-1503): nella nota 2 (1502) i rapporti personali documentati di Bergson con Proust.
A volte le ossessioni di P diventano davvero tediose. L’anatomia della gelosia, l’accanimento sensoriale della presenza fisica, il manierismo della memoria minuta, la comicità involontaria delle perversioni (le catene, le fustigazioni, la ricerca di mutilati di guerra da parte di un vecchio sadico, il letto di ferro adatto alle catene). Perfino le lunghe riflessioni sull’arte, dopo un secolo di critica d’arte, appaiono noiose e scontate.
La devastante percezione della carne satura di vita, nelle pagine finali, è artificiosa perché non viene mai ibridata dalla percezione opposta della freschezza e tradisce la miseria personale dell’autore e delle sue sofferenze fisiche, ma il pregio della R è nella straordinaria capacità dell’autore di fissare negli occhi la realtà, dalle deformazioni più sottili e anomale della percezione ai desideri più morbosi e inconfessabili.