La Croce di Borbona
(sec. XIV, 1320-1330 c.)
Foto di Alessio Giorgetti
Un capolavoro dell’oreficeria medievale
Databile entro il primo trentennio del Trecento (1320 – 1330 c.) la Croce di Borbona (figg. 1-2 ) (Borbona, S. Maria Assunta) è interamente modellata in lamina d’argento dorato, sbalzato, cesellato e rifinito a bulino, decorata da quaranta smalti traslucidi (1) e da sfere terminali in rame dorato; misura cm. 115 x 70 incluso il nodo astile a base esagonale del 1580 in rame dorato.
L’opera ha subìto nel tempo varie alterazioni più o meno gravi. La zona della Crocefissione è stata maldestramente restaurata: fino al 1933 mancavano le spalle e le gambe del Cristo, forse inserite col restauro di G. Vitali del 1957. Il confronto con l’analoga Croce degli Orsini (fig.3) permette di avere un’idea esatta dell’assetto originario di questa parte della croce, con l’Albero della vita integro. Nel 1933 mancavano anche le teste di alcune figure, poi goffamente sostituite: la coeva Croce di Forcella (fig.4) mostra gli evangelisti con testa d’aquila, leone e toro come dovevano essere in origine anche nella croce di Borbona.
Gli smalti hanno sofferto per manomissioni e sostituzioni. I due ‘profeti’ sottostanti l’arcangelo Michele sono evidentemente un’aggiunta più tarda nello stile popolare riscontrabile in croci abruzzesi del tardo trecento.
Fig.3, Fig.4 Foto Sbas Lazio
Opere d’arte che tornano
Da tempo in Italia tanti centri minori come Borbona sono impegnati a dimostrare la loro volontà di proteggere e valorizzare opere d’arte importanti altrimenti conservate nei musei delle grandi città.
Negli anni ’90, con significativo parallelismo, mentre la Croce di Borbona tornava a casa, dopo essere stata esposta (in deposito dal 1974) nel prezioso museo del Tesoro del Duomo di Rieti, un’opera strettamente imparentata con la nostra, la Croce degli Orsini del 1334, tornava a Celano, nel museo del Castello Piccolomini, dopo un’assenza molto lunga da quella zona dell’Abruzzo: nel 1915 il terremoto della Marsica aveva imposto il suo trasferimento a Roma e fino al 1992 era esposta nella sala degli argenti abruzzesi del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia.
Oggi le due grandi croci angioine sono idealmente riunite in quella zona di frontiera del Regno per la quale nel Trecento erano state create, e questo è dovuto anche alla disponibilità che la Soprintendenza ai beni artistici e storici di Roma e del Lazio ha dimostrato verso il territorio che ha il compito di tutelare e rivitalizzare.
Per l’Anno santo del 1975 la croce era esposta a Roma nella mostra Tesori d’arte sacra di Roma e del Lazio dal medioevo all’800 (Palazzo delle Esposizioni), un’occasione importante per la conoscenza degli argenti sacri laziali e dunque della croce, anche se studiosi come Luisa Mortari e Angelo Lipinsky l’avevano già intelligentemente scoperta e studiata dal 1957 al 1969.
L’Iconografia
Fig.5, Foto Giorgetti
Leggiamo, prima di tutto, il racconto visivo che si articola all’interno della sua potente struttura architettonica con l’intensità di un grande libro miniato:
Sul recto il Cristo è crocefisso sull’Albero della vita, arbor vitae, che sorge al centro dell’Eden, una forma allegorica di grande importanza per il medioevo, desunta dal Genesi e dall’Apocalisse, e il suo sangue bagna (redime) il teschio di Adamo sepolto alla base del Golgota che qui è anche l’Eden dal quale egli è stato espulso.
Gli angeli in volo presso il Cristo, nelle placchette smaltate, ne compiangono la morte, mentre ai lati Maria e Giovanni sono contriti come in una lauda drammatica.
L’arcangelo Michele, in alto, trionfa sul drago; in basso un plastico angelo annunciante, Gabriele (fig.5), fa da perno tra il recto e il verso della croce introducendo la figura di Giovanni Battista splendidamente accampata presso il solenne Cristo in trono.
Il Cristo, coronato di gigli angioini, siede sul trono che lo aspetta alla fine dei tempi (sul libro si legge EGO SUM LUX MUNDI ) ed è attorniato da Pietro, Paolo e dagli evangelisti, alati come nella visione apocalittica, tra i quali emerge prepotentemente Giovanni, il filosofo dei vangeli, con testa d’aquila (fig.6).
Fig.6, foto Sbas Lazio
Il senso profondo di questa iconografia è tutto nel nesso che si avverte tra l’inizio della vicenda umana (l’Eden) e la sua conclusione (io sono l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine, dice il Cristo dell’Apocalisse).
E lo Spirito Santo, che permea della sua presenza tutta la croce, saldandosi alle immagini del Figlio crocefisso e del Padre in trono evoca con forza il paradigma centrale della fede, il nodo concettuale della Trinità.
Tutto nella croce sembra accentuare questa vibrante presenza angelica dello Spirito Santo: Michele trionfante sul drago rappresenta anche i doni del battesimo che vincono il male; Gabriele, veicolo dello Spirito Santo, non annuncia qui, a parere di chi scrive, la nascita di Cristo, quanto piuttosto la nascita del Battista, che è appunto il fondamentale intermediario della terza persona della Trinità. E la figura corrispondente a Gabriele, sul verso, deve essere quindi Zaccaria, il sacerdote del Tempio padre del Battista che riceve la visita dell’angelo sei mesi prima della Vergine (Luca, 1) (2); sopra di lui c’è il figlio, il Battista, in una posizione di centrale importanza.
Nella croce è poi esaltata l’immagine di Giovanni, colui che più di ogni altro evangelista ha messo al centro del pensiero cristiano la Trinità e la missione dello Spirito Santo in veste di Consolatore (il Paracleto).
La Croce e il suo tempo
Siamo di fronte ad uno straordinario capolavoro dell’oreficeria medioevale che è anche la testimonianza di un cruciale momento storico, perchè la croce vive nel cuore di un evento drammatico quale è la frattura che divide i francescani spirituali, fautori di una Chiesa priva di ricchezze, dalla curia pontificia di Giovanni XXII (1316-1334) trasferita ad Avignone.
E il grande mediatore di questa amara controversia è Roberto d’Angiò il Saggio (1309-1343), custode della causa guelfa ma anche protettore degli spirituali nel regno di Napoli (3). Siamo in un luogo della storia che precede la grande peste del 1348, abitato da Dante (il Paradiso è concluso nel 1321), da Giotto, attivo per la corte angioina dal 1328 al 1333, da Petrarca (Canzoniere dal 1335) e da Simone Martini, entrambi frequentatori di Roberto a Napoli.
E’ l’epoca della filosofia di Guglielmo di Occam; ora i protagonisti dello scontro tra papato e spirituali non sono più quelli di vent’anni prima, il poeta spirituale Jacopone da Todi e l’autoritario Bonifacio VIII: all’ambiguo Giovanni XXII è contrapposto un filosofo come Occam, il francescano di Oxford capace di dichiarare eretico il pontefice stesso (4).
In questo contesto il modello unitario della Trinità, nodo di ogni argomentazione dottrinale, si impone con irresistibile fascinazione. Basti pensare che nel mondo degli spirituali la teoria della Trinità elaborata (ereticamente) da Gioacchino da Fiore (1130 c.-1202) permetteva l’identificazione di Francesco d’Assisi con il Paracleto, lo Spirito Santo del quale si prevedeva l’avvento liberatorio (5), mentre Giovanni XXII nel 1331 imponeva a tutta l’Europa, per la prima volta, la festa della SS. Trinità.
La croce, come manifesto politico e religioso e come frutto di una fondamentale opera di mediazione, è stata ideata verosimilmente in uno dei centri orafi del regno angioino tra la corte di Napoli e la frontiera settentrionale del regno con Sulmona e L’Aquila (6).
La sua eccezionale potenza espressiva riflette il carattere cosmopolita della corte angioina del tempo di Roberto il saggio e permette di formulare un’interessante ipotesi sul possibile autore dei rilievi, mentre il rapporto che stabilisce con altre croci angioine del territorio lascia credere che essa potesse rientrare in un disegno di più vasto respiro, una foresta di splendide croci monumentali che forse la distruzione degli argenti operata nel settecento napoleonico ha poi quasi cancellato.
La fortuna critica
‘La Croce di Borbona ha sempre costituito un problema critico’, scriveva Luisa Mortari in uno dei suoi tanti interventi (1979); e in realtà le grandi anomalie che caratterizzano così fortemente la croce hanno frenato fin dall’inizio l’esplorazione degli studiosi di oreficeria abruzzese.
L’acre sapore neoromanico della sua architettura, fossilizzata su rigide, austere linee ortogonali e ospitante un Cristo arcaico, evidentemente ha fatto credere in passato ad una datazione arretrata fino al 1100 mentre, al contrario, quella potente espansione dimensionale nello spazio coniugata ai dettagli modellati con freschezza gotica ha imposto a lungo una datazione alla fine del Trecento e spesso un’ equivoca attribuzione al Quattrocento di Nicola da Guardiagrele.
La carenza di dati documentali d’archivio circa la committenza, la destinazione e gli autori ha contribuito poi a mantenere la croce in un limbo dal quale solo delle ipotesi generosamente disponibili all’errore possono cercare di strapparla.
Così la fortuna critica della croce disegna nel tempo una linea nervosa, oscillante tra geniali intuizioni e caute sistemazioni specialistiche.
Nel 1890 Leopold Gmelin (7) cita la croce tra le opere che V. Bindi prima di lui (8) aveva attribuito erroneamente a Nicola da Guardiagrele (1390 c.-1462 c.), e in questo modo mette radici un equivoco che sopravvive ancora oggi nelle guide locali più superficiali (9).
Altre significative imprecisioni sono registrate da una scheda manoscritta del 1924 conservata presso l’Ufficio Catalogo della SBAS di Roma, firmata da R. Papini della Soprintendenza per il Lazio e Abruzzi e da Enrico Anzidei parroco di Borbona: la croce viene datata al 1100 e se ne ipotizza la provenienza ‘dalla rocca oggi distrutta di Borbona’; il suo Cristo in trono è letto come un Mosè.
L’errata attribuzione a Nicola è ancora autorevolmente confermata nel 1932 da Francesco Palmegiani (10) che scrive della ‘pregevolissima croce processionale di Nicola da Guardiagrele’ (11). Ma solo un anno dopo, nel 1933, si arriva ad una più giusta datazione alla fine del Trecento con Alberto Riccoboni, soprintendente per l’Abruzzo e Molise, che in una lettera inviata a M. Gabrielli descrive accuratamente la croce (12) e la mette in relazione con un folto gruppo di altre croci trecentesche, soprattutto con la Croce degli Orsini del Museo di Palazzo Venezia, anticipando di trent’anni le fondamentali indicazioni di Angelo Lipinsky del 1969 (13).
Quando nel 1957 la croce viene esposta con altre opere sabine nell’Episcopio di Rieti, Mortari riepiloga nel catalogo della mostra la vicenda dell’errata attribuzione a Nicola e data anche lei la croce a fine trecento, rilevando ‘influssi nordici’ sulla parte plastica e l’origine presumibilmente senese degli smalti (14).
Con Angelo Lipinsky, nel 1969, la croce è finalmente analizzata a fondo, e si tratta di una vera riscoperta critica (15).
Lipinsky, che aveva già dedicato nel 1967 un saggio alla Croce degli Orsini proveniente da Rosciolo (16) e nel 1968 (17) all’oreficeria angioina, a quanto pare non conosceva le idee di Riccoboni e propone il confronto tra le due croci, di Borbona e Rosciolo, sottolineandone la differente qualità: nell’esemplare di Borbona, che gli appare qualitativamente superiore, avverte ‘ la vicinanza di un grande maestro di scultura’.
Per Lipinsky le due opere, così apparentemente simili, possono essere uscite dalla stessa bottega ma non dallo stesso orefice e ipotizza che la nostra sia stata il modello per l’altra e che di conseguenza la si debba datare agli anni precedenti il 1334.
La prospettiva suggerita dai saggi di Lipinsky permette di scandagliare in profondità il contesto storico e stilistico alla ricerca di qualcosa che spieghi adeguatamente il fenomeno di queste grandi croci angioine affacciate quasi improvvisamente in una regione dominata fino a quel momento dalle severe croci teramano-sulmonesi.
La Croce degli Orsini, quella di Borbona e di Sant’Elpidio (18), segnano la presenza di punti strategici del regno di Napoli lungo tutto il confine con lo Stato della Chiesa: il Santuario di S. Maria della Vittoria presso Tagliacozzo e Rosciolo e il passaggio sulla Salaria con Borbona e Cittaducale (possibile bottega di S.Elpidio).
L’alta qualità di queste opere è giustificata dalla ricchezza culturale della corte napoletana di Roberto d’Angiò frequentata da orefici francesi e toscani.
Nel 1972 Valentino Pace, disegnando la mappa dell’oreficeria abruzzese (19), osserva come il gruppo individuato da Lipinsky diverga enormemente dalle croci arcaiche di fine duecento e lo pensa prodotto dalla bottega di Sulmona arricchita dall’esperienze napoletane degli anni ’30; aggiunge inoltre al gruppo l’interessantissima croce di Forcella (AQ) così vicina iconograficamente a quella di Borbona seppure segnata da una ‘flessione più stanca’.
Il 1974 è l’anno del temporaneo trasferimento della croce a Rieti (20). Mortari, fondatrice del Museo del Tesoro del Duomo, scrive nel catalogo (21) della ‘bellissima croce di Borbona’ indicandone l’interessante iconografia, la presenza di smalti sensi e i modi ‘nodici’ degli sbalzi comprensibili con l’ambiente napoletano come già suggerito da Lipinsky.
Nel 1975 la croce è a Roma per la mostra del giubileo (22), una grande opportunità per la conoscenza degli argenti laziali, ma continua a splendere come un capolavoro isolato, sfuggente ad una chiara collocazione stilistica e segregato nella cripta di un’ammirazione acritica che ne rinvia ulteriormente una conoscenza più profonda; un limite questo che condiziona gravemente anche il saggio di Mortari del 1979 (23) che poteva essere invece l’occasione per una risolutiva messa a fuoco dell’ambito stilistico della croce. Accanto alle consuete, calde espressioni di entusiasmo della Mortari emerge purtroppo una sostanziale svalutazione delle indicazioni critiche di Lipinsky, e l’analisi ne risulta sfocata.
La croce, per la Mortari, rivela una ‘ eccezionale ricchezza inventiva’ ma è una ‘fulgida gemma che sta a sé’. Non è pensata quindi come tassello di un grande mosaico che è necessario ricomporre ma come un evento eccezionale, appunto una gemma da ammirare.
L’opinione di Lipinsky viene equivocata, per Mortari Lipinsky avrebbe sostenuto l’identità dell’autore delle croci di Borbona e di Rosciolo.
Per la croce di Cittaducale, un’altra delle importanti opere trecentesche della regione, è riservata un’intensa lettura critica: Mortari vi legge ‘inflessioni rudi ma nobili legate ad una cultura romanica’ nello sbalzo delle figure, con accenti di ‘rilevante scabro vigore’ e accosta la sua edicola aggettante ad analoghe soluzioni nordiche. Argomenti questi che avrebbero permesso un serrato confronto non epidermico con la croce di Borbona, ma l’occasione è sprecata. Agli elementi architettonici, così significativi, della nostra croce, viene attribuito un valore ‘ornamentale più che strutturale’.
D’altra parte, anche le spettacolari foto a colori della croce pubblicate su La Sabina medioevale del 1985 (24) portano solo ad una suggestiva monumentalizzazione, con un testo che non aggiunge niente alla stagnante indagine critica.
Un fondamenta rilancio di interesse per la croce è offerto invece dall’accurato lavoro specialistico di Serena Romano, che nel 1987 (25), con un ricco apparato fotografico e una bibliografia riassuntiva di tutti gli studi sull’argomento, concentra l’attenzione, per la prima volta sistematicamente, sui numerosi smalti traslucidi ignorati o quasi dalla letteratura critica.
Questi smanti, ‘straordinariamente originali’, sono frutto del brillante ambiente senese degli anni ’30 che dialoga con l’arte di Avignone, area di incontro tra la scultura senese e la cultura francese.
Gli autori che si muovono in questo territorio poco noto della storia dell’arte sono i senesi Ugolino di Vieri, maestro del Corporale di Orvieto (1337-1338) e l’ipersensibile, lirico Guccio di Mannaia (notizie dal 1292 al 1318), l’autore del calice donato dal pontefice francescano Niccolò IV (Ascoli Piceno 1288-1292) alla basilica di Assisi, la più antica opera decorata con smalti traslucidi che ci sia rimasta (26).
Romano ipotizza che la croce possa essere stata destinata (ab antiquo) a Borbona e per lo stemma con l’oca visibile sulla croce pensa alla famiglia Rustici aquilana. Per la parte scultorea l’autrice auspica la pubblicazione della tesi di laurea inedita di Marina Di Berardo.
Il nome dei Pica, diffuso a Vallemare, frazione di Borbona, è fatto invece dall’archeologo Massimo Firmani (27) e da Alba polacco (28) nel 1988. Polacco, con il suo interessante articolo, scava tenacemente nella storia locale per fissare un collegamento logico tra Borbona, il territorio de L’Aquila e la croce; l’articolo si chiude con la citazione di uno splendido passo della Cronaca Aquilana di Buccio da Ranallo (1360) che sembra visualizzare il raduno a L’Aquila delle grandi croci angioine provenienti (forse) dai santuari dei 99 castelli aquilani:
più de novanta cruci loco vidi adunate / lo sole vi ferìa e davavi claritate / parìa uno allustrare in tempo di meza state.
Ma restavano ancora senza risposta alcune questioni fondamentali: il significato globale dell’iconografia della croce, l’identità dell’autore dei rilievi e il legame tra la croce e Borbona.
Armonici di memoria
Il vasto racconto figurativo della croce capta e attira all’interno del suo perimetro un’eccezionale quantità di immagini del passato, con un intenso effetto d’eco. Su questo telaio di citazioni dal passato se ne imprime un altro, di immagini tutte colte invece nella più viva contemporaneità, e il risultato percettivo di questa sovrimpressione è uno straniante riverbero di armonici di memoria, una splendida invenzione retorica che permette ad ognuna di queste immagini di sdoppiarsi, insinuando una lettura a strati.
E nessuna epoca, più di questa del primo Trecento che assiste al cambio di paradigma tra la scolastica tomista e il nominalismo di Occam può giustificare meglio il ricorso ad un linguaggio che sostituisce al pesante simbolismo medioevale un’audace flessibilità segnica.
Si impianta così un registro di sorprendenti dissolvenze, dove ogni segno lascia trasparire in filigrana un segno corrispondente, di altra epoca e desunto da contesti formali vari, dal paliotto al sigillo, dall’architettura alla miniatura.
Il Cristo crocefisso, neoromanico, ha un precedente immediato e locale nella figura semplificata dell’anacronistico crocefisso di Toffia del 1305 (fig.5) (29) ma evoca anche intenzionalmente le forme del paliotto di Città di Castello del sec. XII.
Fig. 5 Foto Sbas Lazio
L’albero della vita, dalla rozza sagomatura informe, è giustificato dalla diffusa iconografia trecentesca della croce poveramente ricavata da tronchi appena sbozzati, esemplare nella pittura dell’ambiente francescano pauperistico di Napoli (30), ma è anche il ricordo vivido delle raffigurazioni più antiche dell’albero della vita, dalle ampolle di Monza del VI sec. all’ avorio carolingio delle Pericopi di Enrico II, (Monaco) e alla Croce dei Cloisters di New York (sec. XII).
Il Michele sul drago esiste in forme scalate a ritroso dai contemporanei sigilli ecclesiastici di Firenze e Pistoia (1200-1300) (31) ad opere monumentali come quelle di metà ‘200 a Pistoia e Lucca (32), fino al S. Michele mosano del sec. XII, legato al tema del battesimo (33).
Questa strategia della doppia lettura si accentua nel Cristo in trono che è un Cristo in maestà, regnante, come in altre forme contemporanee, ma anche un Cristo apocalittico, come indica cripticamente l’insolito tronetto lunettato: questo tronetto lo si intravede solamente in una moneta pisana, un grosso d’argento del 1300 (fig. 6) ma è la citazione anche, esplicitamente, di quello più remoto della stauroteca bizantina (fig.7) saccheggiata nella crociata del 1204 e conservata in Germania.
Fig. 6, fig.7
La curvatura del tronetto nasconde (e dichiara, con singolare ambiguità) un segno obbligato dell’iconografia apocalittica di tutto il medioevo e oltre, l’arcobaleno sul quale Cristo siede (34). L’atmosfera qui non è lontana dalla miniatura angioina con la Trinità (fig. 8), di poco più tarda ma rivelatrice di un atteggiamento estetico che prevede un’ostentata rievocazione neoromanica (la Trinità del Salterio di S. Elisabetta, Udine, sec. XIII) alleggerita da eleganti sfasature.
Fig. 8
L’architettura, che nel verso comprime le figure centrali come in altre miniature angioine create a Napoli (35), è la traccia di una tradizione figurativa importante e non esclusivamente nordica: una citazione quasi letterale degli sfondi visibili nelle opere di Giovanni Pisano che sono l’estremo retaggio delle miniaturizzazioni architettoniche dei sarcofagi di città romani (36). E nell’ uso di questi particolari architettonici è condivisa la scelta espressiva che caratterizza i sigilli del cardinale Napoleone Orsini, dove lo spazio è stiacciato e compresso in superficie.
Il racconto iconografico della Croce, così robustamente articolato e direzionato, agisce anche a distanza di tempo. Quando nel 1580, in epoca di revival paleocristiano, viene aggiunto il nodo astile, si guarda alla più canonica impostazione iconografica, quella diffusa dalle ampolle di Monza dal VII secolo; questo tempietto cinquecentesco ha una forma analoga all’edicola dell’Anastasis, il mausoleo che contiene il sepolcro di Cristo nei pressi del Golgota, forse a base esagonale, come il nodo astile (37). La forma intermedia che può aver suggerito questa tarda integrazione iconografica è il reliquiario del cilicio della Maddalena (sec.XV) conservato in S. Giovanni in Laterano, che ha la stessa cupola embricata a scaglie e la base esagonale.
Ma le immagini che si offrono con più prepotente evidenza a questa doppia decifrazione sono quelle delle figure alate, di Giovanni in forma d’aquila, del Battista, e soprattutto la stessa configurazione della croce, che rivela la sua matrice strutturale nella maestosa croce mosaicata (fig.9) dell’abside di S.Giovanni in Laterano, investita dall’alto dallo Spirito Santo (38).
Fig.9
Gli angeli dell’Apocalisse
‘Vidi quattro angeli appostati ai quattro angoli della terra, che trattenevano i quattro venti della terra in modo che nessuno di essi soffiasse sulla terraferma, né sul mare’ (Apocalisse,7,l).
E’ dalla lettura dell’Apocalisse che prendono vita le figure alate della croce, dall’Apocalisse e dalle pagine del profeta biblico che anticipava quella febbricitante visione, Ezechiele, il profeta del regno messianico che vedeva ‘i quattro viventi’ (alati, con teste di bue, aquila, leone e uomo) volare presso il trono divino circondato da una luce simile allo ‘splendore dell’arcobaleno’ e ne sentiva vibrare le ali: ‘io udii il rumore delle ali (simile) al frastuono di un accampamento’ (Ezechiele, 1,1 – 2,10).
Nell’Apocalisse di Giovanni, a distanza di secoli, dal Vecchio al Nuovo Testamento, si ripete la visione dei quattro viventi di Ezechiele, e questa volta è modulata come immagine simbolica degli evangelisti che attorniano il Cristo apocalittico (Ap. 4,1).
Dentro la croce queste figure dilatano le ali in uno spasmo, impiantano uno spazio tutto interno, esclusivo, come i cherubini biblici scolpiti nel santuario del Tempio di Salomone, che riempivano lo spazio sacro con le loro ‘ali distese’ (Primo libro dei Re, I).
Si rivive la suggestione di chi ha visto l’angelo in volo, come Gioacchino da Fiore, l’ultimo dei profeti apocalittici, e come Francesco che nella Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio (1263) si specchia drammaticamente nell’immagine del crocefisso apparso in volo in forma di cherubino alato (39).
Queste figure alate sono la risonanza profonda delle icone profetiche e apocalittiche e nello stesso tempo sono i segni, nello scenario iconografico, dello Spirito Santo che in forma angelica estende la sua dimora all’interno di questo spazio.
Nella croce la terza figura della Trinità è incarnata nella forma antropomorfica dell’angelo, un’eccentrica scelta iconografia che nel Trecento, in un momento di grande popolarità delle suggestioni gioachimitiche (40), doveva essere di grande importanza.
C’è una conferma indiretta in un affresco tardo, quattrocentesco, che mostra la Trinità (fig. 10) con lo Spirito Santo in forma antropomorfica, una variante in ambito francescano della Trinità rappresentata da tre volti di Cristo o da tre angeli, l’iconografia sempre meno diffusa che sarà poi definitivamente vietata dal Concilio di Trento a favore della tradizionale immagine della colomba in volo (41).
Fig. 10, Foto Sbas Lazio
Giovanni Battista e Giovanni Evangelista
La presenza alata di Giovanni evangelista al vertice della croce conferma il dominio giovanneo sul racconto.
Questa eccezionale figura, da sempre connotativa della Croce di Borbona, fissa un legame sorprendente con un altra opera borbontina, il rilievo conservato nella parrocchiale di S. Croce (databile tra la fine del sec. XII e l’inizio del successivo) con Cristo in maestà ed evangelisti tetramorfici (fig.11), tra i quali si impone all’ attenzione proprio Giovanni, vicinissimo a quello della croce (fig.12).
Fig. 11, fig. 12 , Foto Sbas Lazio
In assenza di ipotesi alternative possiamo pensare, per ora, che il rilievo facesse parte della decorazione scultorea della pieve romanica di S. Croce in Burbone documentata dal 1153 (Bolla di Anastasio IV), una chiesa che a metà cinquecento era ancora attiva. Nel 1561 il vescovo Osio visita S. Croce e nella stessa giornata vede la croce processionale nell’omonima chiesa parrocchiale di S. Croce (nella terra alta) che allora era ancora unita alla chiesa madre extra castrum (42). Fino a quel momento quindi, probabilmente, era ancora possibile vedere insieme la croce e la lastra romanica per coglierne lo specchiamento iconografico (43). Ma ancora più straordinario è il rapporto che queste due immagini di Giovanni in forma di aquila stabiliscono con un dettaglio della coperta argentea (fig. 13) dell’icona del Salvatore della cappella del Sancta Sanctorum del Patriarchio laterano: un argento commissionata da Innocenzo III (1198-1216), il pontefice della teocrazia, che nel 1210 approva (oralmente) la Regola di Francesco ma nel 1215 condanna le tesi trinitarie di Gioacchino; il papa che nel racconto di Tommaso da Celano e negli affreschi di Assisi sogna Francesco che sorregge la chiesa di San Giovanni in Laterano (44).
Fig.13
E naturalmente anche la magnifica figura del Battista lega la croce a San Giovanni in Laterano. Il Battista ha, nella croce, il ruolo che i progenitori di Cristo (e i profeti) hanno nell’iconografia dell’Albero di Jesse, la forma simbolica tratta da lsaia che viene associata a quella della crocefissione e dell’Albero della vita da infinite connessioni, un albero genealogico che salda al crocefisso i profeti e gli antenati in una sinottica raffigurazione evolutiva della storia di Cristo. Un tema di immenso successo nel medioevo, questo dell’albero genealogico, che è saldamente legato al mondo francescano (45).
Il Battista è dentro una nicchia architettonica (l’edificio della Chiesa) come in tante raffigurazioni successive, poiché l’annuncio a Zaccaria, il padre sacerdote, avviene nel Tempio; e anche qui c’é un forte riverbero di memoria: una delle scene intagliate nella porta lignea di S. Sabina (430 c.) è stata identificata più volte ed anche recentemente con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria; sopra il tempio, tra le due torri, si vede la croce gemmata del Golgota.L’autore della croce ha ripensato anche alla canonica raffigurazione biblica di S. Sabina per scolpire il suo racconto.
Il modello strutturale
Nella croce il profilo delle ali spalancate coincide con quelle delle losanghe terminali, e la curvatura delle losanghe, con le sue profonde linee concave, è rivelatrice di una tensione di forze che si contrariano, di un conflitto tra la pressione interna e la gravità dello spazio esterno. Un conflitto efficacemente visualizzato dalle figure angeliche poste ‘ai quattro angoli della terra‘.
Esiste un solo modello per una invenzione formale così potente, la grande croce gemmata dell’abside di S. Giovanni in Laterano (fig. 9).
Ciò che vediamo oggi, in S. Giovanni, è la ricostruzione ottocentesca (1884) del mosaico di Jacopo Torriti commissionato nel 1291 da Niccolò IV per celebrare lo Spirito Santo nel tempio più importante della cristianità. Niccolò IV è il primo pontefice francescano, nella scena della croce investita dalla Grazia impone la presenza di Francesco e di Antonio da Padova, esaltati per la prima volta nelle arti figurative a questo livello. Questa croce di Torriti, ‘irrorata dallo spirito santo’ (46) è maestosa anche attraverso la fedele copia ottocentesca; affascinante ed ipnotica, trascina fino ai limiti estremi del medioevo romanico l’impronta delle monumentali croci gemmate più antiche, da quella di S. Pudenziana (V sec.) a quella di S. Apollinare in Classe (Ravenna, VI sec.).
La Croce di Borbona deriva da questa invenzione lateranense non per una epidermica somiglianza esteriore ma per la profonda, radicale, assonanza strutturale. Un’assonanza strutturale che in qualche modo l’avvicina anche ad un’altra opera straordinaria conservata nel museo di S. Giovanni in Laterano, la croce d’argento cosiddetta ‘costantiniana’ che gli studi recenti datano agli anni finali del Duecento o all’inizio del Trecento (47). La Croce di Borbona condivide infatti con la croce costantiniana del Laterano l’assoluta preferenza conferita al rilievo plastico e all’energico racconto scultoreo che è dedotto più dalle superfici vigorosamente plasmate dei grandi paliotti argentei medioevali che dall’oreficeria minuta delle croci.
Tutte queste tracce sembrano indicare un allineamento, un tracciato che guida dalla porzione del territorio angioino comprendente Borbona alla Basilica di San Giovanni in Laterano, la sede papale che nonostante la cattività avignonese restava il centro ideale della Chiesa alleata di Roberto d’Angiò.
Il significato storico di questo legame può essere verificato solamente da una seria indagine sul paese e della verifica dei pochi dati disponibili relativi alla posizione di Borbona all’interno del territorio de L’Aquila; ma in attesa che il mosaico storico sia ricomposto possiamo intanto dare un nome all’autore della croce.
La croce di Borbona nell’arte del trecento
I volumi della croce, incatenati massivamente in un ordito che ne frena l’articolazione nello spazio, premono contro un’invisibile soglia. La violenta doratura esaspera e unifica a forza questa superficie scolpita, costringe gli oculi smaltati a contrarsi in deboli spie di luce naturale.
Tale concretezza figurativa, così segnata da un aristocratico spazio sacrale, è ancorata all’esperienza nordica dell’arte mosana del 1200 che nell’Italia dei primi anni del Trecento è ancora capace di sedurre l’immaginazione nonostante le potenti trasformazioni linguistiche dell’arte federiciana, di Nicola e Giovanni Pisano, di Arnolfo di Cambio e di Giotto.
Nelle opere mosane, nel mondo figurativo di Nicolas de Verdun (not. 1181-1205), impera la dimensione del reliquiario a cassa (fig. 14), una forma che giustifica proprio con il suo aspetto di architettura miniaturizzata una suggestiva contrazione visiva: la fastosa decorazione esterna (impasto di doratura e freschezza dello smalto) è contraddetta dalla chiusura ermetica dell’involucro perentoriamente indicata dalle strettissime nicchie (48).
Fig. 14
Si coglie il senso della contrazione arcaizzante insistentemente avvertibile nella croce confrontando tra di loro due opere fondamentali del primo Trecento italiano, la tomba della regina Maria (fig. 15) madre di Roberto d’Angiò, capolavoro napoletano di Tino di Camaino (1325), e il Reliquiario del Corporale di Orvieto (fig. 16), di Ugolino di Vieri (1338), due testi che esemplificano magnificamente la differenza tra la scelta estetica arcaizzante (e implosiva), prevedibile in un certo ambiente culturale, e quella, diametralmente opposta, della sensibilità gotica ormai europea.
Nel monumento di Tino i volumi, come quelli della croce. sono compressi all’interno della forte cornice architettonica e poi ulteriormente segregati nelle nicchie, un modo di pensare i volumi nello spazio che non dipende dalla concreta dimensione degli oggetti poiché lo si ritrova anche in opere minute come il sigillo (fig. 17) dell’arcivescovo di Napoli Giovanni Orsini (1335) (49).
Fig. 15, fig. 16, fig. 17
Nel reliquiario di Orvieto, al contrario, viene visualizzata la più liberatoria ideazione gotica di uno spazio arioso e divaricante, con la più grande insofferenza per i limiti strutturali; è scardinato l’involucro plastico che costringe le forme nella tomba angioina e rovesciato letteralmente il rapporto, vigente nella croce, tra i volumi dorati e gli smalti: le grandi finestre luminose dello smalto subiscono un’estrema dilatazione, un’esplosione centrifuga di luce irradiante che spinge i volumi fuori dal piano, in avanti e in alto, nello spazio vivo.
Se l’invenzione gotica di Ugolino vive nello stesso spazio poetico del Canzoniere petrarchesco (sedimentato dal 1336) e dei cristalli trasparenti della musica nova di Guillaume de Machault (1300/5-1377. in quegli anni canonico di Reims) la croce vive accanto alla scabra poesia di Jacopone da Todi (+ 1306), come quella dell’impressionante ritmato ‘O segnor per cortesia / manname la malsania’, e alla musica austera del trecentesco Laudario Magliabechiano (50).
L’anacronismo neoromanico
C’è una stretta fascia linguistica, condizionata verosimilmente dalla strategia della mediazione di Roberto, nel colmo del dramma degli spirituali francescani, che legittima la severa matericità della croce; un contesto estetico nutrito di polemico anacronismo e profondamente assorto nella stimmung neoromanica, capace di attingere il suo materiale creativo da una tradizione di continuità limosina e renano-mosana che oggi si conosce sempre meglio (51).
Un percorso formale che schiva il classicismo di Nicola Pisano e il colto anacronismo eclettico di Arnolfo e non permette di condividere la rinnovata volumetria giottesca nè l’animazione espressionista di Giovanni Pisano.
Si perdono le tracce di questo percorso anacronistico a metà secolo, prima del tragico baluardo della peste, quando prevalgono l’ariosa modernità creata da Simone Martini, da Guccio di Mannaia e da Ugolino di Vieri e quando si afferma definitivamente la vocazione gotica al racconto estensivo di Lorenzo Maitani e Pietro Lorenzetti (il Decamerone è del 1349-51).
Come accade per tanti fenomeni estetici periferici, disseminati ovunque nella storia dell’arte, anche questo momento dell’anacronismo neoromanico sopravvive in poche opere destinate ad essere percepite come eccentriche singolarità slegate dal loro tempo e difficilmente catalogabili; ne è un esempio straordinario il trittico polimaterico (trecentesco) del museo di Celano proveniente da Alba Fucense e conservato fino al 1992 in Palazzo Venezia dopo il terremoto del 1915 (52).
E anche la croce di Borbona, come la croce costantiniana del Laterano, è una di queste opere straordinarie.
Andrea di Jacopo d’Ognabene
In questo cono d’ombra angioino c’è un’affascinante figura di orefice, un autore che sembra votato alla ricerca di occasioni emozionanti, il pistoiese Andrea di Jacopo d’Ognabene. Potrebbe essere lui quel grande maestro di scultura del quale Lipinsky nel 1969 avvertiva la presenza studiando la croce di Borbona.
Il capolavoro di Andrea di Jacopo d’Ognabene (notizie dal 1284 al 1320) è il paliotto argenteo (fig. 18) con smalti traslucidi dell’altare del Duomo di Pistoia, commissionato nel 1316 dal governo cittadino in ossequio a Roberto d’Angiò (Pistoia era guelfa, sotto gli angioini, dal 1306).
Questo altare d’argento di Pistoia ha un posto nella Divina Commedia: nell’inquietante XXIV° canto dell’Inferno Dante incontra Vanni Fucci, ladro sacrilego (dei guelfi neri) che aveva mutilato l’altare nel 1292: io fui ladro e la sacrestia dé belli arredi.
Un anno dopo quel gesto sacrilego Andrea restaura l’altare, la parte più antica dell’altare che probabilmente lui stesso aveva ideato anni prima.
Uno studioso come Ragghianti, che ha sempre privilegiato lo studio del contesto estetico più vasto, della sua continuità e fertilità, polemizzando con la spartizione della storia dell’arte in aride scansioni cronologiche, ha saputo rivalutare Andrea sottraendolo al giudizio negativo stilato precedentemente da Venturi e Toesca.
La lettura degli scritti di Lucia Gai, specialista di Andrea, confermerebbe la possibilità che sia lui l’autore della croce di Borbona (53). Gai, nel suo lungo studio del 1984 con il quale ricostruisce l’intera storia dell’altare (dalla fine del duecento al quattrocento) traccia lucidamente le coordinate della cultura di Andrea di Jacopo d’Ognabene: l’educazione senese a contatto con la tradizione renano-mosana (trasmessa a Siena anche attraverso Venezia, una tappa esemplare è la coperta argentea con il Cristo in maestà, 1240 c., del Tesoro di S. Marco); la suggestione dell’opera di Nicolas de Verdun; l’adesione solo epidermica a Nicola e Giovanni Pisano. Nel 1317 Andrea lavora per la confraternita di S. Giovanni Battista di Pistoia. Negli anni ‘20 crea un gruppo di croci processionali.
Le concordanze stilistiche tra la croce di Borbona e il paliotto di Pistoia sono evidenti, la lingua parlata sembra la stessa. Si direbbe confermata ‘l’eccezionale costanza degli elementi stilistici’ di Andrea (Gai).
La scena con l’incredulità di Tommaso (10° del paliotto) riassume quasi tutti gli elementi grammaticali di Andrea e facilita il confronto con i particolari della croce.
Fig.18
Part. della croce di Borbona
Particolare del paliotto da Lucia Gai, L’altare argenteo di San Jacopo nel duomo di Pistoia, 1984, Umberto Allemandi editore
Particolare della Croce di Borbona
Particolare del paliotto (da Gai, 1984, Allemandi)
Nelle due opere le figure sono calate in una crisalide di verticalità e isolate in uno spazio immateriale, imbevuto della stessa densissima doratura appena alleviata dai tondi di smalto traslucido.
Gli elementi organici (visi, mani, piedi) sono abbreviati, affinché non suggeriscano rapporti tra le figure, e facilmente riconoscibili da un’opera all’altra. L’intenso modellato delle vesti, che è estremamente caratteristico di Andrea, scava localmente il volume.
La cornice architettonica, svuotata e schiacciata, denota uno spazio impraticabile, coerente con la statica tensione percettiva indotta dal modellato plastico (responsabile di quello ‘stupore naif’ notato da Gai in Andrea); la gelida spalliera curva del trono ripete le curve degli archi che delimitano la scena del paliotto. La forma a bulbo che caratterizza il Golgota è utilizzata anche per la frequente rappresentazione degli alberi del paliotto e nel nodo del calice di Sant’Atto attribuito ad Andrea.
Sono in comune il fregio di foglie e le grandi ali aperte (9° scena). E’ in comune l’omaggio a Roberto: l’Erode della l4° scena è ‘un re francese’ (Gai) come lo è il Cristo in trono di Borbona.
Ma nella croce la scrittura plastica è squilibrata da un’ostentata, intenzionale crudezza anacronistica che non è riscontrabile nelle opere di Andrea prima del 1320, anno in cui si perdono le sue tracce. Se Andrea dopo il 1320 si è trasferito alla corte di Roberto, lasciando Pistoia ormai governata dai ghibellini, può aver realizzato la sua ultima opera, la Croce di Borbona, adottando l’amaro anacronismo pauperistico degli Spirituali che a Napoli, in quegli anni, giustificava forme di struggente negligenza antinaturalistica.
La croce e il paliotto di Città di Castello
L’anacronismo neoromanico che segna la croce strappa l’immagine naturalistica imposta dalla cultura gotica europea e deprime con durezza la solida volumetria delle opere toscane di Andrea.
Con una decisione di straordinaria lucidità l’autore proietta nel telaio architettonico della croce un eccezionale modello medioevale, il paliotto (fig. 19) del duomo di Città di Castello, del sec. XII: la testa (Fig 20) del Cristo in trono si deforma adottando le semplificazioni barbariche di quella del Cristo in trono del paliotto (fig. 21); il crocefisso (fig.2) regredisce fino a coincidere con quello del paliotto; le due figure di Pietro e Paolo, a lato del trono (fig. 24), sono modellate direttamente su quelle dei due angeli visibili a ridosso della crocifissione nel paliotto (fig. 22).
Fig.19, Fig. 20, fig.21, Fig.22 Foto Sbas Lazio, Fig. 23, Fig. 24, Foto Sbas Lazio
Con questa scelta stilistica apparentemente autolesiva la croce viene spinta dentro la cultura figurativa del pauperismo spirituale, accanto alle immagini dolorosamente scabrose e logore del Maestro delle tempere francescane (fig. 25) (Pietro Orimina?) attivo, attorno al 1336, nell’ambito culturale di Filippo di Maiorca, e alle opere europee più violentemente antigotiche, come il crocefisso ligneo di Perpignano (prima metà del Trecento) e come il Crocefisso ‘dei principi’ di Gorizia.
Fig. 25
Gioacchino da Fiore e il libro delle figure
La chiave per decifrare compiutamente la croce resta sicuramente la figura di Giovanni Battista (coniugata a quella di Giovanni evangelista) e verso questo punto focale gravitano vari elementi che aspettano di essere ulteriormente chiariti.
Nel Libro delle figure (fig. 26) di Gioacchino da Fiore, dove l’utopia dell’Età dello Spirito Santo è affidata ad una intricata visione sinottica, il Battista figura come snodo tra vecchio e nuovo Testamento, e tutta l’intensa visualizzazione di questa grandiosa ideazione di Gioacchino viene sostenuta dall’immagine dell’albero genealogico e dalla prepotente figura dell’aquila (fig. 27).
Fig.26, Fig. 27
La Croce è evidentemente materiata da questa esaltante imagerie profetica dello spiritualismo francescano gioachimitico (54) e a Borbona sembra sedimentata nel tempo una vera e propria duratura tradizione gioachimitica: basti pensare all’importante presenza di Gioacchino, profeta di Francesco, con Giovanni evangelista, nei secenteschi affreschi dell’ex convento borbontino di S. Anna attribuiti a Vincenzo Manenti e bottega.
L’eventuale inserimento della croce di Borbona nel catalogo di Andrea di Jacopo d’Ognabene e atelier, compito di studiosi specialisti come Lucia Gai, potrebbe galvanizzare anche le scarne notizie che si hanno sull’origine del paese stesso e sul ruolo che questo può aver svolto nel processo di rifondazione angioina del territorio.
Sarà importante capire poi se Borbona. destinata a far parte del quartiere aquilano di S. Giovanni, possa essere stata coinvolta ai suoi inizi nella lotta tra i Colonna (legati a S. Giovanni in Laterano, al mosaico di Niccolò IV e agli spirituali) (55) e gli Orsini (56).
Così come andrebbe studiata, in questo contesto, la figura di Gerardo Bianchi (+ 1302), vescovo della Sabina e committente di opere d’arte, arciprete di S. Giovanni in Laterano.
Forse la chiesa romanica di S. Croce extra castrum in quegli anni sosteneva la formazione del paese come santuario angioino e la croce, ideata da un grande artefice legato al mondo di Roberto, fu destinata a questa antica chiesa di Borbona.
Questo saggio è stato pubblicato nel 1997 sul mensile RM Borbona, nn.7-12, e viene qui riproposto con vari aggiornamenti datati al 1 gennaio 2001. Ripubblicato parzialmente nel 2003 in Versi d’istanti – Borbona immagini e poesia, di Domenicantonio Teofili e Alberto Scarpitti, Edizioni Impatto, Roma, e in Le croci processionali della provincia di Rieti di Paola Berardi, Fidelis Amatrix n. 8 del 2004.
Ultimo aggiornamento: La Croce di Borbona nella cultura utopistica dei francescani spirituali, Fidelis Amatrix. n. 25, luglio/agosto 2007 (Paola Berardi e G.G.); P. Berardi, Tra Lazio e Abruzzo: culture che si sovrappongono in una frontiera mobile, in Nel Lazio. Guida al Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico, rivista semestrale della SBAS Lazio, 2010.
Note
1) La doratura a fuoco si otteneva stendendo un’amalgama di oro e mercurio sulla superficie e facendo poi evaporare il mercurio (che peraltro liberava pericolosi vapori tossici) affinchè l’oro aderisse perfettamente all’argento.
2) Questa figura, che sorregge un libro sacro con la mano coperta, come si addice a un sacerdote, è stata creduta in passato una Madonna annunziata a causa anche del restauro che l’ha deturpata, ma la copia visibile sulla Croce degli Orsini mostra chiaramente il volto del vecchio sacerdote come era in origine.
3) Roberto eredita il Regno dopo la rinuncia del fratello Ludovico (1296), francescano spirituale e vescovo di Tolosa canonizzato nel 1317 (sono insieme nel dipinto di Simone Martini di quell’anno; Napoli, Capodimonte). Il re angioino, che ad Avignone aveva scritto un trattato sulla povertà, protegge il movimento pauperista spirituale di Napoli, impedendo la diffusione della bolla di Giovanni XXII del 1323 che condannava le tesi spirituali (cfr F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, 1969).
4) Occam scrisse i suoi testi sulla povertà di Cristo e degli apostoli tra il 1333 e il 1338. L’atmosfera di quel momento storico è rievocata nel romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa (1980), ambientato nel 1327.
Andreina Palesati ha tracciato un’interessante linea di ricerca:
La Croce e la Filosofia
La Croce di Borbona sembra imporsi allo sguardo come un oggetto animato, dotato di una forza che, invece di espandersi, implode su se stessa; le parti di cui la croce si compone non appaiono giustapposte le une alle altre in maniera meccanica ma, cariche di tensione, sembrano formare un tutto organico.
Viene quasi spontaneo chiedersi se tra le altre cose la croce si nutrisse della suggestiva filosofia di Raimondo Lullo e dei suoi seguaci, la cui influenza sulla cultura napoletana della 1° metà del 1300 è enorme e non ancora del tutto studiata. Nel 1293 Lullo è a Napoli, nel ‘95 è a Roma dove compone l’Arbre de Scientia in cui mette a frutto quella che egli chiama l’ars inventienti, una nuova logica sintetica ed inventiva distinta da quella tradizionale analitica e dimostrativa. Lullo fu diffidente nei confronti dell’aristotelismo tomista, il suo misticismo lo fece approdare nella famiglia francescana come terziario.
Si può pensare anche ad Arnaldo da Villanova (1238 -1311) archiatra di Bonifacio VIII, esponente di quella cultura magico- alchimistica legata a Lullo. Arnaldo fu propugnatore di idee ‘spirituali’ e gioachimite, nel suo Adventu antichristi annunciò l’avvento di una radicale reformatio che tutto avrebbe cambiato per instaurare il vero Regno.
Andreina Palesati (da RM Borbona, n.7, 1997)
5) Vedi H. de Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, 1979, per la diffusione delle idee gioachimite attraverso Ubertino da Casale (Arbor vitae, 1305) e altri francescani.
6) Per ora la presenza della croce a Borbona sembra documentata, per il passato, solo da una visita pastorale del 1561 (cfr. Ernesto Pietrangeli, Visite pastorali, RM Borbona n.5, 1996).
7) Leopold Gmelin, L’oreficeria medioevale negli Abruzzi, 1890
8) V. Bindi, Monumenti storici e artistici degli Abruzzi, 1889.
9) L’attribuzione al caposcuola abruzzese del Quattrocento era alimentata anche dall’errata convinzione che nel Trecento esistesse già una bottega a Guardiagrele antecedente a Nicola.
Nel 1986 chi scrive tenne una prima conferenza nella Biblioteca comunale di Borbona per chiarire la confusa situazione storica della croce. Successivamente sono state illustrate in un breve articolo (GG. La Croce di Antrodoco e Nicola da Guardiagrele, Prospettive Sabine, 1987) le diverse caratteristiche formali delle opere di Nicola.
10) Franceso Palmegiani, Rieti e la regione sabina, 1932.
11) Eppure la foto della croce, pubblicata a pag. 415, poteva essere confrontata facilmente con quella della croce di Antodoco visibile poco più avanti, a pag. 444, assegnata correttamente a Scuola di Nicola (fig.6).
12) Curatrice dell’Inventario degli oggetti d’arte della provincia dell’Aquila, 1934.
13) Questa lettera, che si suppone inedita, è conservata presso l’Archivio della SBAS di Roma che ne ha cortesemente permesso la divulgazione.
14) Luisa Mortari, Opere d’arte in Sabina dall’XI al XVIII secolo, 1957.
15) Angelo Lipinsky, Croci processionali trecentesche a Borbona e S. Elpidio, Napoli Nobilissima, 1969.
16) Angelo Lipinsky, La Croce degli Orsini del 1334 e l’arte orafa napoletana, Napoli Nobilissima, 1967.
17) In Das Munster, Monaco, 1968, con foto della croce di Borbona. Con questo saggio tedesco l’autore anticipava ampiamente le puntualizzazioni del 1969 sulla croce.
18) Rieti, Tesoro del Dumo. Databile verso la metà del secolo; Lipinsky ipotizza che possa essere stata prodotta da una bottega di Cittaducale.
19) Valentino Pace, Per la storia dell’oreficeria abruzzese, Bollettino d’arte, 1972, con un ampio corredo fotografico e bibliografico. In appendice, per un errore tipografico, la croce è datata 1334 al posto di quella di Rosciolo.
20) Presso l’ufficio parrocchiale di Borbona è conservato il documento del 16 settembre 1974 che attesta la provvisorietà del deposito motivato dalla grande mostra romana preparata per il giubileo oltre che da esigenze di tutela. Il documento è firmato dal parroco don Ettore Di Mico, dal sindaco protempore cav. Bernardino Melaragni, dall’avv. Angelo Augusto Mancini, consultente legale del comune di Borbona, e da Filippo Palesati dell’amministrazione comunale di Borbona. Testimoni della consegna erano Marianna Todeschini ed Elvira Anzidei.
21) Luisa Mortari, Il Tesoro del Duomo di Rieti, 1974.
22) AA.VV. Tesori d’arte sacra a Roma e nel Lazio dal medioevo all’ottocento, Palazzo delle Esposizioni, 1975. Testo di Mortari e scheda di A. Costamagna.
Nel 1975 la croce è schedata da A. Pampalone per la SBAS. Nel 1976 appare su Rieti e il suo territorio (AA.VV.).
23) Luisa Mortari, La croce nell’oreficeria del Lazio dal medioevo al rinascimento; Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, 1979.
24) Testo di L. Mortari.Nel 1984-85 la foto del Giovanni in forma di aquila è sulla copertina dell’elenco telefonico di Rieti.
25) Serena Romano, Fatti e personaggi nel regno di Napoli, in Oreficeria e smalti traslucidi nei secoli XIV e XV, supplemento al n. 43 del Bollettino d’Arte, 1987.
26) Lo smalto traslucido, dall’intenso effetto pittorico, veniva steso traspatente sul metallo cesellato; nella croce di Borbona numerose placchette, denudate dallo smalto, hanno l’aspetto di minuti bassorilievi. Le due forme di precedenti di lavorazione dello smalto, a cloisonnè e a champlevè, sono legati ad altri, diversi condizionamenti estetici: il primo (dove il colore è diviso nettamente in alveoli) dà la luce fissa dell’icasticità bizantina mentre il secondo (inserito opaco in cavità scavate nel metallo) permette la raffinata modulazione atmosferica delle opere di oreficeria di Limoges, renane e mosane dei secc. XII e XIII.
27) Massimo Firmani, Ricerca e turismo, Prospettive sabine, 1988.
28) Alba polacco, L’origine della croce processionale di Borbona, Prospettive sabine, 1988.
29) In S.Maria Nuova (cfr. Mortari 1979).
30) Bologna 1969, op.cit.
31) AA.VV. Sigilli nel Museo nazionale del Bargello, 1, 1988.
32) Chiesa di S.Michele, sec. XII XIll.
33) Esposto a Roma nel 1974 nella mostra Tesori dell’arte mosana, Palazzo Venezia.
34) Tra gli innumerevoli esempi, il Cristo dell’Apocalisse nella cripta del Duomo di Anagni,sec. XIII.
35) Vedi, per esempio, lo Speculum historiale di Vincent de Beauvais, miniato per il cancelliere di Roberto d’Angiò, Abbazia di Cava dei Tirreni.
36) Come lo sono le singolari ‘corone di luci’ del sec. XII ( Cfr. Suppellettile ecclesiastica, I. ICCD, 1987)
37) Cfr. lo studio sul Santo sepolcro di M.T.Valeri in Storia e arte francescana a Ferentino, 1993.
38) Cfr. il saggio di A. Iacobini, in Roma nel Duecento, AA.VV 1991.
39) La visione di Francesco ha luogo in prossimità della festa dell’arcangelo Michele e dopo una invocazione della Trinità.
40) Per gli anni 1326-30 vedi De Lubac. op.cit.
41) Cfr. A.M. D’Achille. Sull’iconografia trinitaria medioevale: la Trinità del santuario sul Monte Autore presso Vallepietra; Arte Medioevale, 1, 1991. L’autrice pubblica un’interessante miniatura della Bibbia di Valislav (Praga, sec. X111-XIV), dove lo Spirito Santo è un giovane imberbe (il tema dei tre angeli ospiti di Abramo come prefigurazione della Trinità è ancora vivo nel 1411 con il dipinto di Andrej Rublev della Tretjakov di Mosca). In una nota si ricorda che Abelardo (1079-1142) aveva fatto scolpire (sembra) una Trinità in forma antropomorfica per la Casa del Paracleto di Troyes da lui fondata: nella sua straordinaria autobiografia, Storia delle mie disgrazie (1132-34 c.), Abelardo difende l’eccentrica decisione di dedicare un oratorio al Paracleto.
42) E. Pietrangeli e R. Mancini, Visite pastorali, RM Borbona. nn. 5-8.
43) Anche sulla Croce di Forcella è visibile il S.Giovanni tetramorfico, in controparte rispetto a quello di Borbona.
44) Cfr. Iacobini, 1991.
45) Esemplare l’Albero della croce francescano dipinto da Taddeo Gaddi, a metà Trecento, in S.Croce (Firenze), anticipato dalle opere di Pacino di Bonaguida.
Per l’Albero di Jesse nella pittura angioina del tempo di Roberto d’Angiò vedi Bologna 1969, op. cit. (per esempio l’altarolo portatile di Lello da Orvieto).
L’albero genealogico e il tema dell’Annuncio a Zaccaria dominano le Storie bibliche dei pilastri del Duomo di Orvieto di Lorenzo Maitani (1330 c.).
Un’affascinante croce trecentesca floreale è quella di Posta studiata da Paola Berardi.
Nell’Enciclopedia dell’Arte medioevale Treccani si possono consultare le voci Albero (1991) e Croce (1994) aggiornate con la vastissima bibliografia relativa. La voce Croce è illustrata dalla splendida fotografia a colori della Croce di Borbona di Alessio Giorgetti (pag.549).
46) Cfr. il saggio di A. Tomei, in Roma nel Duecento, AA.VV. 1991.
47) M. Andaloro, in S. Giovanni in Laterano, AA.VV. 1990.
48) Recentemente è stato possibile rivedere a Roma, con la mostra Le Crociate (1997), opere mosane già esposte nel 1974, come il Trittico di Florennes (1200 c.).
49) AA.VV. Il sigillo nella storia della civiltà attraverso i documenti dell’Archivio segreto vaticano, cat. della mostra, 1985.
50) Manoscritto BR 18 della Biblioteca Nazionale di Firenze, proveniente dalla chiesa agostiniana della Compagnia di Santo Spirito (Firenze).
51) Cfr. A. lacobini, op.cit., per l’interessante ipotesi relativa alla lunetta della Mentorella del Museo di Palazzo Venezia.
52) La storia critica di quest’opera è riassunta nella scheda di catalogo redatta da Maria Giulia Barherini in occasione della mostra Imago Mariae (1988). Un altro dipinto da inserire in questo gruppo è il Dittico Sterbini (Museo del Palazzo di Venezia) databile grazie alla presenza di Ludovico d’Angiò canonizzato nel 1317.
53) L. Gai, L’altare argenteo di San Jacopo nel duomo di Pistoia, 1984; Mario Petrassi, Gli argenti italiani, 1984.Di L. Gai vedi anche: Andrea di Jacopo d’Ognabene, Enciclopedia dell’arte medioevale, 1991, Treccani, e il più recente Un’aggiunta al catalogo dell’orafo Andrea di Jacopo d’Ognabene, in Studi di Storia dell’Arte, 1996.
Nel 1996 ha riflettuto sull’argomento A. R. Calderoni Masetti: Ancora su Andrea di Jacopo d’Ognabene, orafo di Pistoia, in Studi di oreficeria, supplemento al Bollettino d’Arte n. 95.
Chi scrive aveva già annotato gli elementi toscani della croce con la conferenza borbontina del 1986, e si era chiesto come questi elementi potessero essere interpretati (senza avere però sotto gli occhi il fondamentale libro illustrato di Gai del 1984), ma è merito di Alba Polacco aver richiamato l’attenzione, nel gennaio ‘96 su un dettaglio rivelatore di una singolare opera poco nota già attribuita ad Andrea, la Cintola del Duomo di Pisa. Il lavoro parallelo (della Polacco e di chi scrive) che si è snodato, autonomamente e separatamente, a partire da quella felice intuizione, ha portato a conclusioni assai diversificate tra di loro che sono state poi messe a confronto durante le giornate di studio borbontine dedicate alla croce nell’agosto del 1996 (per le ipotesi divergenti della Polacco vedi gli articoli su RM Borbona dal 1996 in poi).
54) Cfr. Leone Tondelli, Il libro delle figure dell’abate Gioacchino da Fiore, 1953.
55) Ludovico il Bavaro, protettore di Occam e degli spirituali, avversario di Giovanni XXII, si fa incoronare a Roma nel 1328 dai Colonna.
56) Per la croce degli Orsini Vitaliano Tiberia, in un articolo del 1985 (Suggestioni dell’iconografia votiva, il Tempo, 21.8) avanzava l’ipotesi che la data 1334 si potesse riferire alla morte di Giovanni XXII, segnando la chiusura di un periodo di lotte interne alla Chiesa, e che la figura del Battista fosse collegata all’omonima cappella della Basilica di Assisi patrocinata da Napoleone Orsini.
La croce degli Orsini, in realtà così lontana stilisticamente da quella di Borbona, fa pensare alla declinazione del linguaggio di Andrea in un idioma locale, magari prossimo a quello di Barbato da Sulmona, autore del Reliquiario di S. Nicandro a Venafro del 1340.
2001