Arte contemporanea
Certe opere di Bonnard, come questo ritratto della moglie Marthe del 1934, hanno una qualità estrema e mostrano la possibilità che il pittore possa accedere a una condizione di pura concentrazione sulla forma.
La figura in questo dipinto eccezionale si innesta disarticolata, si sfalda con infinita delicatezza, nel mosaico opaco del piano che la ospita, nel terroso dislocarsi di zolle alla deriva in uno spazio reso anossico dall’eccesso di materia cancellata e compressa. La voluta e insistita sciatteria, in questa magnifica poetica dell’erroneità che fa di Bonnard un lirico puro, ci trascina nel fondo di un incavo nel quale lo sguardo può solamente arenarsi, come la parola si infossa all’interno di un verso di Rimbaud e il suono nel cuore deserto di una sinfonia di Brahms.
Questo dipinto sconvolgente è stato realizzato nel 1934, eppure non condivide assolutamente niente con quella che definiamo arbitrariamente arte contemporanea, con la presunta avanguardia novecentesca, questo quadro conserva integra la sua straordinaria freschezza mentre un’enorme quantità di opere prodotte del manierismo novecentesco sono invecchiate tristemente e mostrano oggi tutta la loro incredibile pochezza. E’ per questo motivo che il dipinto di Bonnard rappresenta la creatività del Novecento meglio delle opere di Duchamp, di Ruiz Picasso e dello stesso Beuys.
Turner, Ulisse deride Polifemo
Per riflettere senza pregiudizi sul significato dell’arte contemporanea si deve prima di tutto osservare questo fenomeno da una prospettiva diversa da quella imposta così perentoriamente dalla Storia dell’arte specialistica, si deve guardare all’eterno presente delle forme, e accorgersi di una cosa che è sempre stata sotto i nostri occhi: non ci sono opere della pittura materica novecentesca che non derivino dal fascino dei dipinti di Turner, non solamente per la scontata somiglianza esteriore dei risultati, ma anche e soprattutto per la possibilità di dipingere provando un incontrollabile piacere liberatorio.
Pieter Brueghel il Veccho, La tempesta, 1568, Vienna
Un irresistibile piacere liberatorio che la pittura gestuale ha scoperto anche in opere sconvolgenti come la Tempesta di Brueghel.
A questo insidioso piacere del dipingere, dello scolpire, del creare spazi architettonici, musicali e letterari, si aggiunge il fascino altrettanto insidioso del dettaglio, del lacerto di materia che la cultura popolare della reliquia ha coltivato da sempre arrivando fino alla radicale decontestualizzazione dei resti fisici degli eventi storici nella tristezza commovente dei piccoli musei scientifici e specialistici.
Un’opera delicata e irriproducibile come quella di Schwitters del 1939 ( ) attesta la terribile seduzione esercitata sull’immaginazione dai resti di un mondo che ha cominciato all’inizio del secolo a distruggere tutto ciò che aveva costruito lasciandosi dietro le tragiche reliquie della modernità.
Pensando alle parole di Lucrezio, e a Freud, è inevitabile scoprire nell’artista novecentesco il sollievo liberatorio dello scrutare il dolore degli altri creandone una suggestiva raffigurazione sacra.
E’ questo complesso contesto che la cultura egemone ha saputo sequestrare nello sconfinato territorio della presunta avanguardia, forzando gli artisti a sfidare sempre più apertamente il senso comune per approdare al risultato più importante, lo scetticismo e l’ostilità dei intellettuali stessi, irritati dalle apparenze di gioco effimero e di aperta irrazionalità che per centinaia di anni avevano accettato passivamente nel rituale religioso più esoterico e provocatorio.
Con questo risultato la cultura egemone ottiene ciò di cui ha bisogno per sopravvivere come centro di potere, una istituzionale accademia del negativo capace di sostituire e attualizzare adeguatamente quell’opprimente spazio esoterico della sacralità che un tempo era assicurato dalla religione.
Ebbene, lo stupore e lo sdegno esibito di una parte degli intellettuali é perfettamente simmetrico all’adorazione acritica della parte che invece è disposta a giustificare tutto con argomenti scolastici e accademici, due patetiche bande contrapposte che specchiano una nell’altra la loro reciproca cecità di fronte alla realtà dell’arte.
L’attuale ipertrofia delle forme del tardo post concettuale non è un segno di vitalità, ma di decadenza.
Queste opere sono state trascinate troppo lontano dalla fonte originaria della loro necessità, la reazione iniziale alla marea di informazioni del XX secolo attraverso il recupero delle forme periferiche della creatività, e troppo lontano dalle condizioni culturali che all’inizio del secolo passato le giustificavano, l’ideazione di opere uniche capaci di sottrarsi, come reliquie della modernità, alla sistematica duplicazione della riproducibilità tecnica.
Credo di aver dimostrato chiaramente in Armonici di memoria come l’equivoco della presunta avanguardia novecentesca possa essere interpretato diversamente, e spero di avere indicato chiaramente in Vitalità del pensiero poetante la fonte remota dei pensieri sull’arte contemporanea che oggi vengono creduti e accettati acriticamente.
E’ ora di distogliere lo sguardo da questa ipnotica Medusa che paralizza la capacità di rimettere in discussione un’intera cultura del progresso in arte che nasconde dietro la sua disarmante facciata di serena obiettività la violenza implicita di un’oppressiva accademia della modernità asservita alle esigenze del mercato come lo erano le opere d’arte del Rinascimento commissionate e sostenute dai centri di potere.
Se il grande mosaico della contemporaneità viene scomposto in tasselli autonomi, e se vengono isolate e separate le opere autentiche dalle loro innumerevoli contraffazioni manieristiche, allora è possibile vedere distintamente come le pochissime opere novecentesche capaci di sopravvivere al degrado dell’invecchiamento precoce siano legate a contesti del tutto estranei al mito sterile dell’avanguardia, ma non a quello della più civile cultura filosofica, da De Martino a Merleau-Ponty.
E una volta scomposto questo mosaico paralizzante è possibile capire il senso profondo della pittura di autori come Bonnard, che, invece di voler superare a tutti i costi una presunta tradizione del passato, hanno cercato con ostinata intensità, continuando a scavare.
Diversamente da quanto pensava Benjamin, l’opera d’arte è oggi nell’epoca della sua irriproducibilità tecnica e del potenziamento parossistico dell’aura che la circonda.
Oggi (2012) le forme più coraggiose e avanzate di creatività sono quelle della poesia, esente dall’oppressione del mercato che invece coinvolge e deforma profondamente l’arte figurativa e l’architettura, e in parte quelle della narrativa, anche se questa è limitata ai pochissimi autori che coraggiosamente non aderiscono alla superficialità infestante del racconto epidermico.
Nel cinema si può trovare un film di qualità come La bocca del lupo solamente ogni venti anni. La musica, dopo Berio, sembra davvero eclissata e sostituita dall’ipertrofia della musica commerciale.
Il testo Quattro cretti di Alberto Burri, che ho scritto nel 1974 in occasione di una mostra romana, ha segnato il mio definitivo distacco dall’ortodossia. Qualcuno si arrabbiò con me. Era una pagina sicuramente troppo densa, ma era l’incunabolo di Principi dell’esilio.
Mi stavo svegliando dal ‘sonno dogmatico’ che impone l’arte contemporanea di matrice concettuale come una valore indiscutibile che nessuno osa mettere in discussione, a parte naturalmente i demenziali studiosi reazionari che non vale neanche la pena di prendere in considerazione.
Il paradosso del XXI secolo: gli autori di un’arte istituzionale, ricca e protetta, che rappresenta ufficialmente le nazioni nelle grandi scadenze internazionali, si umiliano nel ruolo, patetico perché troppo scoperto, di chi finge vergognosamente di criticare lo stesso contesto culturale accademico che lo nutre e lo giustifica.
2010
Una cosa che gli storici dell’arte del corporativismo non possono accettare, e forse che non possono capire, è che una tavola sofisticata e poetica come questa di Gould ( ) può essere più autentica di tante stanche opere scolastiche realizzate da Warhol ( ).
L’idea che la cd Pop Art abbia incluso i linguaggi periferici come i fumetti e la pubblicità è un falso, perché lo spostamento di contesto attuato da W non ha mai avuto lo stesso significato di quello attuato a suo tempo da Duchamp.
Duchamp aderiva consapevolmente allo spirito ottocentesco degli umoristi francesi e alla poetica dello straniamento di Roussel, mentre W, al contrario, ha coltivato la presunzione di essere l’aedo carismatico della quotidianità urbana e ogni sua scelta è stata condizionata da questa arrogante e risibile volontà di padronanza del mondo.
Mentre D ripeteva, senza saperlo, lo spostamento di contesto che la cultura popolare ha sempre attuato con le reliquie e gli ex voto, W ha progettato, senza saperlo, la sistematica e consapevole sacralizzazione di ogni dettaglio quotidiano, come avviene con la guglia gotica dell’Empire, osservato per ore con un imbarazzante rapimento mistico, e come avviene ovunque nella sua opera, che è stata così affannosamente bulimica. Dopo la morte di W é stata sconcertante e rivelatrice la scoperta di un ridicolo, immenso deposito di oggetti d’antiquariato caoticamente accatastati nella sua casa, segno di una letale insoddisfazione per la pochezza del lavoro realizzato.
Autori
1986. Enrico Bay, Francis Picabia. Opere 1898-1951. Cat. della mostra, Milano, Studio Marconi. Una bella occasione per conoscere meglio un autore complesso che è stato impudicamente saccheggiato dal manierismo novecentesco.
1998. E. Crispolti, R. Siligato, Lucio Fontana, Catalogo della mostra, Roma, Pal. delle Esposizioni. La grande antologica di F del ’98 ha confermato quello che ho sempre pensato: l’opera di F è stata vanificata dall’insensata moltiplicazione all’infinito di segni che potevano vivere solamente se riservati in segmenti fragili e aforistici come la musica di Webern; questo è purtroppo un triste museo degli orrore e dimostra senza equivoci, con la sua monumentalità la volontà della cultura egemone di cristallizzare una austera, retorica, sacrale accademia del negativo. Inguardabili i tagli ripetuti a colori.
2005. William Feaver, Lucian Freud. Catalogo della mostra, Venezia. La mediocre pittura illustrativa di F è esaltata senza pudore:‘i critici tendono a sopravvalutare le influenze’, scrive l’autore, ignorando il vero e proprio plagio che il pittore ha fatto senza vergogna dell’opera geniale del tedesco Lovis Corinth (1858-1925), un pittore straordinario che anche altrove viene appena nominato in rete: ‘notevoli le analogie con Freud’, ha scritto timidamente qualcuno nel 2005, e con altrettanta superficialità un altro studioso ha scritto (2008) a proposito di un nudo di Corinth del 1899 che quel dipinto è ‘podromico ai nudi che saranno poi dipinti da L. Freud’, come se l’opera di altissimo livello di C fosse stata davvero un anticipo di quella, così modesta, di F. In occasione della morte di Freud (7.2011, cfr. Il sole24ore domenicale) una studiosa colta come Vettese ignorò del tutto l’argomento Corinth.
Il rilievo internazionale che la pittura di F ha ottenuto segna comunque il fondamentale passaggio di paradigma dall’installazione postconcettuale al recupero generalizzato della figurazione e del racconto discorsivo, negli anni che vedono il tramonto del gusto postmoderno e la decisa messa sotto accusa dell’arte contemporanea più spettacolare che gode però ancora della potente difesa d’ufficio del mercato e della critica della cultura dominante.
2006. Laura Leuzzi, Sophie Calle. Catalogo ragionato delle opere (1979-2006). Una bellissima tesi di laurea, la migliore che io abbia mai letto. Scrissi subito all’autrice per manifestargli il mio entusiasmo, ma l’opera di Calle conferma, nonostante il suo indubbio fascino, la tendenza dell’arte contemporanea alla ratificazione retorica della tautologia.
2006. AA.VV. Andy Warhol ‘giant size’, Phaidon. Un volume ideato per celebrare retoricamente la matrice formale del cambio di paradigma del XXI secolo con la demagogia della presunta impersonalità dell’opera, l’ipocrita e insignificante apertura verso la diversità sessuale e antropologica, l’insincera e scolastica dilatazione della creatività verso la coincidenza (?) con la vita stessa.
Duchamp
1958. Marcel Duchamp, Marchand du sel (it.1969). Scritti di D, con i fogli sparsi della Scatola verde che ho visto al Beaubourg, progettata nel 1914, ma concretizzata nel 1934.
1975. Jean Clair, Marcel Duchamp, il grande illusionista (it. 1979). La presunta derivazione dell’iconografia del Grande Vetro dal Vojage au Pays de la quatrième dimension (1912) di Adam de Pawlowski, un esempio della miopia della critica reazionaria.
1977. Marcel Duchamp, Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne (it.1979).
1993. Maurizio Calvesi, Duchamp, Art Dossier, monografia. Le imbarazzanti ossessioni alchimistiche di C e di A. Schwarz.
2001. Janis Mink, Marcel Duchamp, Taschen (it.2002). Una intelligente ricostruzione dell’opera di D esentata dal grottesco fanatismo che ha sempre condizionato i saggi su questo autore.
2007. B. Marcadé, Marcel Duchamp. La vita a credito (it. 2009), Un eccellente, accuratissimo studio che rimuove i troppi stereotipi sull’autore e rende finalmente possibile una riflessione più serena su Duchamp.
John Cage
1976. John Cage. Per gli Uccelli. Conversazioni con Daniel Charles (It.1977). Uno dei libri più intensi e più intelligenti da leggere per capire l’arte concettuale fuori dagli stereotipi e lontano dall’infestazione delle derivazioni scolastiche verso le quali Cage, oltretutto, si dichiara poco interessato. Emerge la matrice filosofica di C che risale a Thoreau e al Trascendentalismo, anche se poi C minimizza ingiustamente l’influsso di Ives sulla sua musica.
Cage ha fatto in una intervista il bellissimo racconto di una persona che, delusa e irritata in un primo momento da un suo concerto, gli confidò poi qualche anno che quell’evento gli aveva cambiato la vita.
Sono evidenti però i limiti del fanatismo educativo di Cage. Su YouTube è visibile la grottesca esecuzione di 4’33’’ per orchestra, con le risate del pubblico e l’ironia dello stesso direttore, e vedo che recentemente, 2010, questo incredibile concerto è stato programmato all’Università di Roma. Per il patetico e mortificante intervento in televisione di C v Pensiero poetante.
Joseph Beuys
1978. Germano Celant e AA.VV. Beuys. Tracce in Italia, Amelio editore.
1979. Caroline Tisdall, Joseph Beuys, Catalogo della mostra, Guggenheim Museum, NY. Un libro unico e affascinante, meravigliosamente cinereo.
1998. Lucrezia De Domizio Durini, Il cappello di feltro. Joseph Beuys, una vita raccontata. L’amore e il grande rispetto per Beuys ha portato purtroppo l’autrice ad una beatificazione fuorviante dove B assume le forme grottesche di un santo ispirato: ‘Fu allora che vidi una fiaccola, una fiamma, e udii una voce che mi diceva: proteggi la fiamma!’.
Vasi comunicanti: Armonici di memoria, Vitalità del pensiero poetante, Esteticità diffusa.
Le matrici dell’arte concettuale
Il film di Germaine Dulac e A. Artaud, La coquille et le clergyman, 1926, mostra tutte le configurazioni sceniche e tutte le posture del corpo che sono state poi adottate dal teatro e dalla performance concettuale. L’area concettuale ha creato le sue icone figurative materializzando le immagini del Cinema dopo aver materializzato le forme verbali della poesia ermetica e le fotografie di Atget.
D’altra parte l’installazione è strettamente debitrice della scenografia, da Appia a Grotowski, della quale deve essere considerata una naturale estensione.
Un elemento fondamentale nella morfologia dell’arte novecentesca e del primo XXI secolo è l’utilizzo incondizionato del tableau vivant.
Si adotta, con una incresciosa ossessione, una frase tratta dal pensiero filosofico o dal senso comune e la si trasforma in materia plastica e teatrale.
L’arte post concettuale superata dalla realtà occasionale
In questi ultimi anni (2009-2012) ho assistito di giorno in giorno al fenomeno straordinario della graduale sostituzione delle forme quotidiane occasionali alle forme dell’arte di area concettuale.
Nel 2011 ho visitato il Museo della memoria di Ustica, allestito da Boltanski del 2007, dove l’enorme carcassa dell’aereo sconvolge più di qualunque installazione concettuale; nei giorni precedenti avevo visto a Mantova il Famedio dei caduti per la Patria in San Sebastiano e lì, per la prima volta, sono stato ingannato dalle apparenze e ho interpretato un reliquiario, formato da traversine ferroviarie allineate una accanto all’altra, come installazione, pensando subito a un’opera della maniera di Kounellis.
Ho avvertito lo scalino di una trasformazione in atto, è stata la conferma, per me, di un grande cambio di paradigma in corso.
Nell’epoca della distruzione bellica e della sempre più diffusa povertà, delle devastanti guerre locali, delle catastrofi descritte da Virilio, le opere occasionali superano in drammaticità quelle della creatività intenzionale.
L’arte contemporanea ha inseguito gli eventi occasionali dalla seconda guerra (quando da ragazzo vidi per la prima volta le opere di Burri pensai subito alle macerie di Livorno che conoscevo bene), poi è arrivata negli anni ’60 la messa in scena del dolore con la Body Art, un dolore che fino ad allora, prima del terrorismo, era anestetizzato dalla diffusa ricerca di benessere, ma negli anni seguenti la genetica e la nanotecnica hanno superato in fretta le forme del Post Human, ed è anche per questo che la figurazione tradizionale, quella di Bacon e di Freud, è tornata a dominare l’arte confinando le ultime deteriori forme post concettuali nel recinto sterile del mercato più irresponsabile.
Legittimità di un drastico ridimensionamento e ottusità della critica reazionaria
Per la più ottusa critica reazionaria questo (2012) è il momento più adatto per lanciare un attacco contro l’arte c.
Per gli osservatori più intelligenti invece, come Virilio, è il momento di prendere chiaramente una posizione contro l’infestazione delle forme (v Virilio, 2005).
I miei capitoli per P, Armonici di memoria, concluso e ridefinito nel 2010 ma in gestazione da anni, e Vitalità del pensiero poetante, riflettono sull’ac da un punto di vista assai diverso di quello della grottesca critica reazionaria.
E’ necessario ridimensionare serenamente l’ac e ristabilire una percezione equilibrata di quei tristi tropici della creatività subalterna che il Novecento ha saccheggiato per creare la sua velenosa e insincera accademia del negativo.
2016. Proprio adesso, nel livello massimo raggiunto dal ritorno alla pittura tradizionale, MR pubblica su La Repubblica un articolo, sostenendo con argomenti sconcertanti che la pittura è scomparsa (?), ignorando del tutto la realtà dell’arte contemporanea: ‘Non crediamo più nel miracolo della pittura’.
A parte il fatto il ritorno della pittura sta dilagando con grande evidenza in tutto il mondo, mentre l’abnorme quantità di opere post concettuali ormai insopportabili è imposta dal mercato che su quelle ha investito per decenni, l’autore dell’articolo sostiene con un incredibile ingenuità che la pittura (che non è un miracolo) darebbe ‘voce al silenzio’ (?) e che sarebbe (chissà perché) ‘invocazione e preghiera dell’assoluto’.
7.8.2016. Su La lettura (del CdS) Vincenzo Trione prende apertamente posizione a favore del ritorno della pittura in occasione di una mostra a Monaco di Baviera: ‘La pittura è di nuovo fra noi. C’è vita tra i manufatti e i video dell’avanguardia debole’.
T biasima ‘i circhi Barnum della creatività postmoderna’ e attesta che ora ‘la pittura è ovunque ( ) si pensi ai tanti affioramenti nella graphic novel, nella street art’ per reagire ad un ‘fragile duchampinismo’ e alla ‘spietata bulimia visiva contemporanea’.
5.2017. Un altro confortante articolo di Trione (L’arte è diventata (di nuovo) politica, La lettura, 31.5.17) commenta la tendenza a documentare la società degli artisti attivi in questi anni T e ridimensiona ragionevolmente il contesto attuale criticando il ‘feticismo oggettuale’ e ‘l’inclinazione sublimare e spettacolarizzare’ apprezzando l’opposizione al ‘postmodernismo’ e al ‘concettualismo’attraverso una nuova ‘iconografia neorealistica’. T esagera solamente quando considera ‘ i writer come Bansky’ tra i pochi autentici eredi di Picasso e di Fautrier, dedicando la parte finale dell’articolo a una eccessiva e inopportuna esaltazione della Street Art.
Comunque T vede chiaramente il processo in corso che anche io sto studiando da anni: l’abbandono graduale del manierismo, il recupero della tradizione figurativa e l’indubbio peso popolare della Street Art come alternativa all’asfissiante e prepotente dominio del tardo concettualismo.
Manierismo e demagogia
L’opera del cinese Ai Weiwei ( ) è interamente mutuata da idee di altri che lui si è limitato a estendere quantitativamente. La poetica degli oggetti non utilizzabili che caratterizza questo autore è frutto di un dragaggio delle opere di Chen Zhen, Duchamp e Beuys; il suo troppo ostentato attivismo umanitario è venato da una sterile e facile, imbarazzante, demagogia, e le sofferenze reali che l’artista purtroppo ha dovuto subire in patria non possono nascondere questa realtà.
Da Chen Zhen ( ) Weiwei prende l’idea delle architetture disfatte e inutilizzabili ( ), oltre alla sedia-panchetto sulla quale non è possibile sedersi (v le sedie inclinate di CZ), e questo tema dell’oggetto inutilizzabile è mutuato esplicitamente anche da Beuys, come la Sedia e grasso del 1964.
La bicicletta inutilizzabile di Duchamp ( ) viene moltiplicata e ripetuta ossessivamente da AW, e d’altronde anche il suo panchetto deriva dalla Ruota di D.
Infine, l’installazione di tonnellate di semi di girasole in porcellana esposta a Londra nel 2010 mostra una mediocre derivazione dall’opera dell’israeliano Menshe Kadishman, Foglie cadute, realizzata a suo tempo per il Museo ebraico di Berlino.
2000-2016
Gli stereotipi
Nel Novecento non c’è stata nessuna dematerializzazione dell’arte, è una stupida fantasia accademica che ha lo scopo implicito di creare una nuova classicità.
Secondo l’autrice di un saggio, Duchamp pensava che ‘non vi è opera d’arte se non vi è lo sguardo di un pubblico che la suggella come tale’: ebbene é vero esattamente il contrario, D credeva che l’opera dovesse restare anonima e poco visibile (cfr. Marcadè 2007).
Il cd Orinatoio (in realtà Fontana) non ha provocato nessuno scandalo, perché nessuno lo ha visto! in una mostra è rimasto nascosto dietro una tenda tutto il tempo, quella dello scandalo è una menzogna paragonabile all’altra, forse anche più stupida, dell’emozione che avrebbero provocato le Ragazze di Avignone di Picasso che invece non furono quasi mai viste perché restarono invisibili contro un muro fino al 1925 (cfr. Armonici di memoria).
Mochetti, secondo la studiosa, avrebbe presentato una scultura ‘fatta esclusivamente di luce’. M raccontò con incantevole ingenuità di aver visto un giorno, nella sua roulotte, un filo di luce filtrare da un buco e di aver avuto la rivelazione (!) della sua presunta arte di luce. Chissà quante volte M avrà visto le illustrazioni di di Newton che ‘scopre’ (lui si) la scomposizione prismatica della luce facendo filtrare la luce solare da un buco nella parete.
Gli artisti avrebbero fatto uso di ‘materiali non tradizionali per l’arte’ (carbone, ec), ma se nella creatività si includono, come è naturale, l’arte e le tradizioni popolari, l’uso dei materiali allo stato bruto negli ex voto è sempre esistito.
L’imbarazzo dell’autrice nello scrivere queste ovvietà ormai prive di senso è rivelato dal tono eufemistico con il quale descrive gesti semplicissimi: ‘la fiamma si sprigiona con l’ausilio di una bombola’; la fiamma si sprigiona, scrive con involontaria comicità: se agisce un operaio la fiamma volgarmente esce, ma se lo fa un artista arricchito dal mercato la fiamma, più elegantemente, ‘si sprigiona con l’ausilio’.
Beuys è in assoluto l’artista più importante del Novecento, perchè citare le sue ingenue prediche sulla rivoluzione democratica? gli artisti veri dicono sempre un mucchio di sciocchezze, quando mai le loro prediche sono state significative per la loro creatività?
Non c’è stata nessuna ‘vaporizzazione del concetto di autore’, come chiunque può constatare facilmente osservando l’Io ipertrofico dei protagonisti dell’arte mercantile (C, H). Se ne é parlato, e molto, ma nel chiuso dei circoli accademici, come puro esercizio retorico che oggi non interessa più nessuno, un equivoco nato dal fraintendimento delle teorie di Benjamin.
2013. In un brano in rete GA ripete tutti gli stereotipi più malamente invecchiati relativi a Duchamp.
Duchamp, proponeva quegli atti esistenziali che erano i Ready-Made, e non delle opere d’arte.
Non è vero, D pensava che fossero opere d’arte nello spirito ludico degli ‘umoristi’ francesi di fine Ottocento, non improbabili ‘atti esistenziali’.
.. sapeva perfettamente di non operare come un artista.
No, D pensava di operare come artista che desidera evitare uno stile riconoscibile.
..sapeva anche che la strada dell’arte era sbarrata dall’ostacolo insormontabile che era l’arte stessa, ormai costituita dall’estetica come una realtà autonoma.
Non è vero, D aveva dipinto cose orrende nello stile tradizionale e capiva bene che poteva cercare un modello nel teatro di inizio Novecento.
Duchamp aveva capito che ciò che bloccava l’arte era la macchina artistica,
Non è vero, D si è occupato invece attivamente e fino alla fine della ‘macchina artistica’, curando addirittura il mercato delle opere di Dali (!) (cfr. Marcadè 2007).
..che aveva raggiunto nelle liturgie delle avanguardie la massa critica.
Ma non c’è stata nessuna massa critica, non c’era solo l’avanguardia nell’arte del Novecento, il panorama della creatività era enorme e non era certo limitato all’arte concettuale.
Si chiede GA: Cosa fa Duchamp per far esplodere o almeno disattivare quella macchina opera-artista-operazione creativa?
Ma D non ha mai dichiarato di voler fare esplodere qualcosa, anzi, era molto infastidito dall’interesse per la sua opera.
Prende un qualsiasi oggetto d’uso, magari un orinatoio,
No, non poteva essere un ‘qualsiasi’ oggetto, perché la logica della scelta è quella antichissima del cambio di contesto degli ex voto.
..e introducendolo in un museo
E’ sbagliato, ‘Fontana’ non doveva entrare in nessun museo, doveva andare in una mostra ed è rimasta invece dietro una tenda tutto il tempo, assolutamente invisibile, non interessava a nessuno.
..lo forza a presentarsi come un’opera d’arte.
Ma non era quello il suo scopo, a D interessavano gli oggetti inusuali del teatro di Roussel nello spirito degli ‘umorisiti’.
Non c’è l’opera,
Ma un oggetto spostato di contesto diventa un’opera d’arte, come accade appunto agli ex voto.
..perché l’orinatoio è un oggetto d’uso prodotto industrialmente
No, l’oggetto, rovesciato alla maniera Zen, era una Fontana, non un orinatoio, e gli oggetti prodotti industrialmente comunque, come Design, possono essere opere d’arte di alto livello.
..non c’è l’operazione artistica,
No, l’operazione artistica c’è e consiste nel cambio di contesto estetico, come avviene agli ex voto e alle reliquie.
..perché non c’è in alcun modo poiesis,
No, la poiesis c’è eccome, ed è quella dello scambio di contesto estetico testimoniato dalle reliquie.
..non c’è l’artista,
D era consapevole di essere un artista, non lo ha mai messo in dubbio, infatti ha poi raccolto la sua opera nel museo di Filadelfia.
..perché colui che sigla con un ironico nome falso l’oggetto,
Non c’è nessun ironico nome falso in Fontana, c’è l’indicazione poetica della trasformazione di contesto: coerentemente con la Fontana come ricettacolo fisiologico della vita, Mutt significa Madre.
..non agisce come artista, lo fa piuttosto come filosofo, come critico,
E’ vero il contrario: quella di D è un’operazione del tutto estetica e viene importata, attraverso la paradossale mediazione degli umoristi ottocenteschi, dalla cultura arcaica delle reliquie.
..come uno che respira, un semplice vivente, per citare Duchamp.
Ma la vita come arte è una sciocchezza aristocratica inventata da Wilde ed è ormai invecchiata e priva di interesse.
Quel che poi è avvenuto, è che una congrega, purtroppo ancora attiva, di abili speculatori e di gonzi, ha trasformato il Ready-Made in un’opera d’arte.
Il manierismo concettuale è iniziato con la vulgata di Man Ray, non è legato direttamente a D; i rarissimi, pochi autori autentici che hanno continuato a percorrere la strada di D dell’oggetto spostato di contesto, come Beuys, non fanno parte di nessuna congrega di gonzi.
Non che essi siano riusciti a rimettere realmente in moto la macchina artistica, questa gira oggi a vuoto,
La macchina artistica non ha mai smesso di produrre opere d’arte di ogni genere e tipologia, dal quadro allo spazio architettonico.
..ma la parvenza di un movimento riesce ad alimentare, spero per non molto tempo ancora, quei templi dell’assurdo che sono i musei di arte contemporanea.
I musei di ac non sono affatto musei dell’assurdo, sono musei d’arte come tutti gli altri e quello post concettuale non è la ‘parvenza’ di un movimento, è invece un processo molto solido che ha la sua storia e la sua (pur discutibile) finalità.
Abbandoniamo la macchina artistica al suo destino, A mio giudizio, artista o poeta non è colui che ha la potenza o la facoltà di creare, che un bel giorno decide, con un atto di volontà, come il dio dei teologi, di mettere in opera, non si sa bene come e perché. Come il poeta e il pittore, così anche il falegname, il calzolaio e infine ogni uomo non sono i titolari trascendenti di una capacità di agire o di produrre opere, sono piuttosto dei viventi, che nell’uso, soltanto nell’uso delle loro membra come del mondo che li circonda fanno esperienza di se e si costituiscono come forme di vita.
L’arte non è che il modo in cui l’anonimo che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del musicista, del falegname, in cui, come in ogni forma di vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità.
La ‘macchina artistica’ non cessa mai di creare cose nuove, non c’è nessun motivo di abbandonarla; semmai è necessario abbandonare seriamente l’enfasi con la quale la si celebra. L’artista non opera come il ‘dio dei teologi’ (?), è semplicemente parte di un diffuso contesto linguistico nel quale ha l’opportunità di rendere più visibile un dettaglio dell’esistenza, è questo che crea l’opera d’arte, e sappiamo benissimo come e perchè, basta studiare la storia dell’arte per saperlo; nessuno è titolare trascendente (?) di qualcosa, ed è ovvio che ogni vivente faccia esperienza di se, non potrebbe essere altrimenti, ma non si ragiona srenamente sulla realtà dell’arte se si utilizzano stereotipi seduttivi come questi. Il falegname, comunque, opera per rispondere ad una richesta quantitativa di funzionalità immediata e non ha nessuna intenzionalità estetica qualitativa: è un artista se dopo il lavoro di falegname scrive un romanzo o un brano musicale, come accadeva agli impiegati Kafka e Ives. In ‘ogni forma di vita’, come ha dimostrato Freud, non è in questione solamente la felicità, perchè in questo caso non avremmo nessuna opera d’arte, che nasce invece, come è naturale, dalla decifrazione di confuse e contradittorie inquietudini interiori.
Il ritorno della figurazione nel XXI secolo
Ho inserito in Pensiero poetante (v) la riflessione sul recupero della figurazione e della piena narratività.
Allais
27.11.2017. Il saggio di Rapahel Rosenberg, L’art de la caricature, 2011, offre un’interessante documentazione sulla vicenda degli Incohérents parigini: De la blague monochrome à la caricature de l’art abstrait (in rete), attestando l’ampia diffusione del gusto ludico per i monocromi ottocenteschi fino ai quattro anni di attività degli Incoerenti e alle opere più tarde di Alphonse Allais e altri. Il dipinto nero riprodotto nel 1897 da Allais, era di Paul Bilhaud (1882): guardando a quel modello Allais espone nella II mostra degli Incoerenti (1883) il cartoncino bianco con la Première communion de jeumes filles clorotiques par un temps de neige, che ho scoperto più di venti anni fa; nel 1884 (terza mostra) espone il pannello rosso; nel 1897 pubblica l’album Primo-Avrilesque con sette monocromi assieme allo spartito muto.
Prima degli incoerenti ci sono, tra i tanti altri, le tavole nere del 1843 che ironizzano sul Salon, realizzate da Raimond Pelez e da C.A. d’Arnoux (Bertal); le caricature apparse su Punch di un dipinto di Turner ridotto a poche linee (1845); la pagina de La Vie Parisienne che ironizza sul Salon del 1863 con due vignette del tutto informali; una bella illustrazione tedesca del 1867 (su Fliegende Blatter) mostra il pubblico davanti a una tela coperta di soli graffiti mentre un’altra molto più tarda della stessa rivista (1890), di Adolf Oberlander, ironizza su due critici che descrivono un dipinto di soli scarabocchi.
Mancano nella rassegna di Rosenberg le sorprendenti tavole nere, bianche e scarabocchiate, che Gustave Dorè ha inserito ne la Storia della Santa Russia del 1854, e forse sarebbe stato importante ricordare in questo contesto il racconto di Balzac Il capolavoro sconosciuto del 1832 (cfr. Vitalità del pensiero poetante), che è la chiave risolutiva per capire il fenomeno del retorico manierismo novecentesco.
R riflette sulle origini di questa moda ironica risalendo a un episodio legato a Bernini (Diario di Chantelou, 1665), ma non parla del vero prototipo di tutta la serie ludica, il quadrato nero che nel trattato esoterico Sui due mondi (1617) di Robert Fludd, che raffigura il nero prima dell’universo.
Citando Sterne (Tristram Shandy,1759) R afferma che nel testo del romanzo non si dice niente sulla pagina nera, mentre invece S ne parla eccome, e in termini che fanno pensare ad un implicito (ironico?) rinvio al quadrato nero esoterico di Fludd:
‘Leggi, leggi, leggi, mio incolto lettore ( ), poiché senza leggere molto ( ) non sarai in grado di penetrare la morale della prossima pagina marmorizzata (simbolo maculato della mia opera) più di quanto la società con tutta la sua sagacia sia stata in grado di decifrare le molte opinioni, transazioni e verità, che giacciono ancora misticamente nascoste sotto il velo scuro di quella nera.’
Saltando questo legame così importante tra Fludd e l’illuminista Sterne l’autore confina la moda dei monocromi nella pura ludicità, ed è per questo che premette al capitolo una nota con la quale afferma, immotivatamente, che l’opera di Klein e di Cage, nonostante le apparenze, non deve niente (?) ai monocromi ottocenteschi, mentre io spero di aver dimostrato chiaramente, in Armonici di memoria e in Vitalità del pensiero poetante, che il rapporto strutturale e non epidermico esistente tra le icone della contemporaneità e i precedenti storici è invece di fondamentale importanza per ridimensionare la mitizzazione irragionevole che è stata fatta del Novecento artistico.
L’autore d’altronde, fedele a questa sua nota iniziale, non menziona il grande (e rivelatore) interesse che Duchamp ha sempre provato per Allais (cfr. B. Marcadè, Marcel Duchamp. La vita a credito, 2007).
Libri
Mi limito a una scelta ragionata dei testi più significativi:
1952-1966. C. L. Ragghianti, SeleArte, mensile, Fondazione Olivetti. Il tentativo più importante che sia stato fatto in Italia per la creazione di una cultura interdisciplinare.
1959. Oscar Signorini e P. Restany (dal 1984 al 2003), D’Ars Agency, periodico.
1961. Gillo Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’informale al concettuale (3 ediz. aggiornata 1976).
1962. Umberto Eco, Opera aperta. Dopo aver studiato attentamente il libro di Eco ho fatto la mia scelta polemica a favore di McLuhan.
1963. AA.VV. An Anthology, a cura di La Monte Young e Jackson Mac Low (seconda edizione 1970). E’ forse il libro più raro della mia biblioteca. Troppo sopravvalutato, come lo è ormai tutta l’arte contemporanea.
1963-1970. Eugenio Battisti e AA.VV. Marcatre. Negli anni ’60 M è stata la pubblicazione interdisciplinare più attiva, con la musica, il teatro, la poesia, la narrativa, il cinema sperimentale, il design, con lo stesso limite però delle altre pubblicazioni nate dal modello interdisciplinare di Opera aperta (1962): accettare acriticamente tutto quanto proveniva dall’area della ricerca senza ridimensionare mai niente e dando un potente contributo, come poi ha fatto per decenni Flash Art, al mito indiscutibile dell’avanguardia, che invece poteva essere sottoposta subito ad una severa e ragionevole critica esente da vincoli corporativi, come in quegli anni hanno saputo fare solamente Ragghianti e Zevi.
1966. Lucy Lippard e AA.VV. Pop Art (It.1967).
1967. Franco Russoli e AA.VV. L’arte moderna, Fabbri, Monumentale raccolta documentaria, magnificamente stampata.
1967. G. Politi, Flash Art. Ho sempre consultato FA, fin dall’inizio, solamente per il prezioso materiale documentario, sempre aggiornato, ma non ricordo un solo articolo che per me sia mai stato utile leggere, ho sempre trovato solamente sterili esercizi scolastici e le opinioni insindacabili degli artisti stessi.
1970. A. Bonito Oliva, Vitalità del negativo nell’arte italiana, 1960/70, Catalogo della mostra, Roma, Pal. delle Esposizioni. Nella mostra del ’70 accanto ad opere teatrali e insignificanti erano esposti dei testi delicatissimi che per me sopravvivono ancora oggi con la loro freschezza: le pagine a quadretti (1969) di Boetti, la pietra con l’ago magnetico di Giovanni Anselmo (1968), le opere di Manzoni (1960-1961).
1976. G. Celant, Precronistoria, 1966-69.
1976. G. Celant, Senza titolo/1974.
1989. Lara-Vinca Masini, L’Arte del Novecento, Giunti, edizione del 2003 in 12 volumi. Opera utilissima, con le sue dense schede, ma immersa totalmente nel mito indiscutibile dell’avanguardia, con uno spiacevole museo degli orrori di cui nessuno sembra accorgersi.
1996. E.Lucie-Smith, Arti visive del XX secolo (it.2000).
1996. Teresa Macrì, Il corpo postorganico. Sconfinamenti della performance. La sensibilità e l’intelligenza di M è dirottata purtroppo dal fanatismo ideologico che gli fa vedere nelle opere più scolastiche e più asservite alla cultura egemone un inverosimile e inesistente affronto alla tradizione.
1999. Uta Grosenick, Burkhard Riemscheneider, Arte fra secondo e terzo millennio (Taschen). Primo volume di una collana periodica (Art Now) che permette ogni due o tre anni di avere un panorama aggiornato dei nuovi autori internazionali. Art Now, 2002; Art Now vol.2, 2005; Art Now vol.3, 2008; l’edizione più recente è del 2011.
2000. AA.VV. Espresso. Arte oggi in Italia. Un libro molto piacevole che raccoglie però tutti gli stereotipi dell’accademismo italiano.
2002. AA.VV. Eva Marisaldi. Legenda, Cat. della mostra, Roma DARC. Una delle installazioni più intense e rivelatrici di inizio secolo. La mia lettura dell’opera però (2003) non coincide minimamente con quella proposta dai curatori del catalogo.
2002. Teresa Macrì, Postculture.
2003. AA.VV. Afriche, diaspore, ibridi. Il concettualismo come strategia dell’arte africana contemporanea, a cura di Eriberto Eulisse, Forum For African Arts, It. Bologna.
2005. Catherine Grenier e AA.VV. Big Bang, Destruction et création dans l’art du 20° siècle. Catalogo della mostra, Parigi, Centre Pompidou. Ho visto la mostra a Parigi, inorridito dalla retorica impudica della presunta modernità, dove figuravano, spaesate, opere troppo delicate per essere esibite in uno scenario così banale: i due sconvolgenti disegni di Artaud collocati nella ridicola sezione Primitivismes, l’affascinante Boite verte di Duchamp (1934), e il perturbante pianoforte coperto di feltro di Beuys (1966).
2005. A.Vettese e AA.VV. La grande storia dell’arte, vol. 10. Il Sole24Ore. Esaltazione acritica di tutto ciò che è stato accolto e valorizzato dal mercato, ignorando completamente tutte le opere che sono state create in contesti radicalmente diversi dall’area concettuale e post concettuale.
2005. AA.VV. Madre, Museo d’Arte Contemporanea Donna Regina, Napoli. Catalogo.
2005. Paul Virilio, L’arte dell’accecamento (It. 2007). La risposta più energica all’asservimento dell’arte al mercato.
2005. Daniel Marzona e Uta Grosenick, Arte concettuale, Taschen.
2006. Ilaria Bonacossa e F. Manacorda, Subcontingent. Il subcontinente indiano nell’arte contemporanea. Cat. della mostra, Torino.
2007. Hou Hanru, Sgabi Scardi, Ovunque andiamo, WhereverWeGo. Arte, identità, culture in transito. Cat. della mostra, Milano.
2007. Deepak Ananth, Prospects. Contemporary Art from India, Cat. della mostra, Roma, Auditorium.
2007. Arturo Schwarz, Israele. Arte contemporanea, Cat. della mostra, Torino. Lo struggente video di Sigalit Landau, Barbed Hula (2001), mi ha fatto piangere.
2007. L.Pratesi e Dobrila Denegri, Inbetweeness. Balcani: metafore di cambiamento, Cat. della mostra, Roma, con un delicatissimo e raro video (1988) di Vesna Vesic in mostra.
2008. A. Forconi, M.A. Schroth, Pechino 2008: il tempo, gli animali, la storia. Catalogo della mostra, Museo delle Mura, Roma. Magnifica mostra di Huang Ruei.
Magico a forza d’ingenuità
R. Magritte, Le maitre du plasir, 1926
M. Ernst, Deux enfants sont menacés par un rossignol, 1924
Nel 1969, durante il servizio militare a Tarcento, avevo sempre con me una foto de Le maitre du plasir (1926) di Magritte, e riflettendo su quella figurazione volutamente sciatta e consapevolmente aderente alle forme popolari dei pittori non professionisti mi resi conto dell’esistenza di un sentiero poco visibile della contemporaneità che contraddiceva apertamente la ricerca imperante di astrazione e di concettualità, un percorso che andava dai disegni di Max Jacob e dalle opere più sottili di Picabia ai più recenti (e modesti) riferimenti di Salvo alla pittura occasionale. Utilizzando le parole di Baudelaire denominai questa tendenza ‘magico a forza d’ingenuità’.
Quando poi negli anni ’70 vidi a Roma una prima gradevole mostra di Chia e di Cucchi, le loro opere mi sembrarono subito il naturale sviluppo di quella tendenza, ma anche un’estensione manieristica di cose più autentiche, come certe rare opere di Ernest (Due bambini minacciati da un usignolo, 1924) e di Picabia (Pantalon noir, 1924), che loro coniugavano all’estetica dell’ex voto popolare.