Computer art
Basta mettere a confronto una delle affascinanti opere scientifiche tardo ottocentesche di Marey, come Studi del movimento dei liquidi (senza data,1800/1900) (foto) con una delle innumerevoli sperimentazioni visive che negli anni ’50 hanno preparato il campo alla triste Computer Art per cogliere la sostanziale mancanza di necessità e la vuota stilizzazione degli sterili esercizi scolastici che tanto fastidiosamente e inutilmente hanno infestano il Novecento.
D’altronde la radice profonda della computer art è nel mosaico antico, dal quale questa tecnica mutua la rigida scomposizione in tasselli.
Laddove crediamo di essere in presenza dell’applicazione di una tecnologia nuova, che si presume svincolata (?) dal passato, assistiamo invece alla miope proliferazione di una dismessa forma arcaica.
Agli inizi del XXI secolo lo squallore del cinema materiato di effetti digitali (Matrix, 2003) alimenta senza pudore il museo degli orrori tecnologici già avviato negli anni ’60: dall’atmosfera tetra dell’arte cinetica si passa alla tristezza deprimente della computer art applicata al cinema. Erano davvero insopportabili e ridicoli il primitivo Tron (1982) di Disney e il successivo, grottesco Il tagliaerbe (1992), e quella stupida ripetizione degli effetti, eternamente piatti e bidimensionali, percettivamente monotoni e ingenuamente retorici, ha un passato nel Cinema con L’inhumaine (1924) di L’Herbier, realizzato con scenografie di Lèger che allora stava filmando anche il suo tedioso Ballet mécanique (1923-24).
Questi brutti film degli anni ’20 sono stati studiati acriticamente da S.Lawder in Il cinema cubista (1975-1983).
Il mediocre Odissea nello spazio (1968) di Kubrick, con il suo demenziale computer vivente e con la sua lunga sequenza finale di computer grafica, rientra nel deposito di illustrazione deteriore che ha condizionato la creatività del contesto informatico.
E poi c’è l’orribile pittura psichedelica degli anni ’60, retaggio dell’insipida sensualità Art Nouveau, che costituisce evidentemente una delle matrici che ha condizionato i programmatori degli inizi minando l’estetica della computer art (v R.Masters, J.Houston, Arte psichedelica,1968).
E sono stati complici di questa pochezza creativa anche i film più stupidamente decorativi del cinema espanso di quegli anni.
J. Whitney, Arabesque, 1975
Arabesque (1975) di John Whitney, realizzato al computer, conferma la mediocre matrice estetica della computer art nello spirito più deteriore dell’Art Nouveau: i mosaici di Klimt, i gioielli Liberty, gli effetti cinetici di Metropolis, qui tutto viene travisato con una disarmante mancanza di fantasia e di creatività.
La materia tecnica della ca attinge evidentemente anche dal deposito della cd arte visuale, della Op art, dell’arte programmata, dell’arte cinetica, della musica elettronica e della tetra poesia concreta, sezioni della creatività che sono invecchiate tristemente e precocemente.
Il volume n. 10 de L’Arte del Novecento. Dall’Espressionismo al Multimediale, di Lara-Vinca Masini (1989-2003) documenta questa fase dell’arte: basta sfogliarlo per capire quanto la rete e la computer art siano debitrici delle forme degli anni ’60.
Una scheda è dedicata a Pietro Grossi (2002): la sua precoce e insignificante computer music purtroppo fa parte del museo degli orrori tecnologici.
Un museo degli orrori
In prossimità dell’irruzione della rete nella vita quotidiana, alla fine degli anni ’90, con l’interfaccia amichevole, gli orrori dell’arte tecnologica si fanno sempre più invadenti:
Arslab. I sensi del virtuale, a cura di C. Faure, M.G.Mattei, F. Torrioni (1995), Torino, catalogo della mostra.
Nel 1999 Computer grafica ospita le figure di Steven Stahlberg che dimostrano come le generazioni di giovani artisti siano passate dall’ingegneria informatica alla creatività portandosi dietro un bagaglio di rigidi stereotipi formali del tutto vitalizzati, e un numero di Computer Arts, figura una Galleria, in appendice, che raccoglie un grottesco museo degli orrori tecnologici.
Due libri sull’architettura nella sezione La rivoluzione informatica di Universale architettura fondata a suo tempo da Zevi: Eisenman digitale. Uno studio dell’era elettronica (1999) di Luca Garofano: in contrasto con la raffinata delicatezza pittorica dei progetti di Eisenman del tempo di Five a NY, i modelli e i grafici documentati dal libro sono penose elaborazioni vuote e prive di necessità.
Nati con il computer. Giovani architetti americani (2000) di C.Pongratz e M.R.Perbellini: le forme squallide realizzate al computer derivano tutte in realtà dall’architettura Liberty ed espressionista.
New Media Art (2006) di Marl Tribe e Reena Jana, a cura di Uta Grosenick, Taschen, antologizza la mediocre cultura della ca.
Una tesi di laurea: Roberta Francone, L’arte dell’immateriale: l’influenza dell’arte visiva nell’architettura virtuale (2008).
Nova n.542, inserto de IlSole24Ore, pubblica un brano demenziale dal libro di Christiane Paul e Chiara Somaini, Dalla software art ai cellulari (2016): si parla di ‘software art’ (?) e di cellulari con un sottotitolo ridicolo, ‘produzione computazionale’, che rievoca l’idiozia dell’espressione infelice di Barthes sulla moda che sarebbe una ‘pratica vestimentiaria’ e quella altrettanto goffa di Eisner sul fumetto che sarebbe ‘arte sequenziale’.
Nel brano si legge una dichiarazione incredibile e patetica: ‘Per secoli si è cercato di creare ambienti immersivi, dalla pittura rupestre alle proiezioni ambientali di grande scala. Oggi con PokémonGo abbiamo la realtà aumentata’.
E’ il limite estremo dell’idiozia corporativistica e della cecità critica. La grande pittura Magdaleniana avrebbe ‘cercato’ un ambiente ‘immersivo’ che poi è stato finalmente raggiunto con Pokémon e con la sua ‘realta aumentata’ (aumentata?), esattamente come da quei rozzi graffiti cavernicoli si sono poi (finalmente) evoluti la Street art e il Fumetto.
I libri
Le pubblicazioni degli anni ’60 mostrano lo squallore formale di una zona della creatività che per arroganza non ha voluto imparare niente neanche dalla creatività involontaria della ricerca scientifica, che è invece sempre arricchita da forme visive moderatamente attraenti (foto satellitari, termografie, radiografie).
In Come si agisce (1963) di N. Balestrini si leggono Tape Mark I, del 1961 e Tape Mark II, per calcolatore IBM, già pubblicate nel 1962 (Tape Mark II in Manuale di Poesia sperimentale, 1966). L’equivoco dell’inesistente linguaggio interamente programmato.
Marcatre, rivista di cultura contemporanea, edita dal 1963 al 1969, si è occupata subito di arte e cibernetica. Nel n. 43-45: Computer music, F. Zurlian, operatore Grossi, elaboratore Olivetti, 1967. Nello stesso numero c’era la partitura completa di Kubelka per Arnulf Rainer, che io ho individuato come matrice formale per le opere di Jodi.org.
Negli anni ’60 la rivista D’ARS Agency, un periodico d’arte contemporanea confusamente interdisciplinare fondato nel 1969 da O. Signorini, aveva una rubrica fissa, Cibernetica, generosa ma insipida e fredda. Nel 1965 un sottotitolo era: Estetica sperimentale? Estetica cibernetica?
La rubrica ospitava articoli di Silvio Ceccato, l’ingegnere e docente di filosofia, laureato in lettere e diplomato in violoncello e in composizione musicale, al quale si attribuisce la divulgazione della cibernetica in Italia (C era direttore del Centro di Cibernetica dell’Università di Milano; nel 1968-1974 scrisse Cibernetica per tutti).
Il volume Computer e arte. Grafica, scultura, musica, film (1969-70), raro catalogo di una mostra internazionale, ospita un testo di H. Franke, teorico tedesco della computer art.
Nella mediocre collana diretta da Calvesi nel 1977, L’arte nella società, un testo di D. Palazzoli, Fotografia, Cinema, Videotape esalta l’utilizzo dei nuovi media pubblicando opere penose di Agnetti e Colombo (del 1970) e una sequenza de tedioso Permutations di John Whitney del 1968 dichiarando senza incertezze che i mezzi elettronici, strumenti ‘estremamente perfezionati’ rispetto a quelli precedenti (?) sono di ‘natura completamente diversa’.
Quindi, secondo Palazzoli, un sintetizzatore e un computer sarebbero più perfezionati di un violino di Amati del 1500, e la loro natura sarebbe completamente diversa da quella dei decoratori di ogni epoca, che invece hanno seguito esattamente gli stessi criteri creativi. Ecco, queste sono le deprimenti idiozie che hanno giustificato le forme di creatività più vuote che ancora oggi infestano l’area dell’arte legata al mondo digitale, un territorio che evidentemente aspetta ancora il suo Cezanne.
Architetto e computer. Un sistema uomo macchina è un tetro catalogo di una mostra del Goethe Institut (Roma-Monaco) del 1978.
Il futuro della fotografia, in Scuola di Fotografia n.36, (1981 c) offre una scolastica presentazione tecnica delle tecniche condizionata dal mito del futuro che deve necessariamente cambiare.
Melvin L. Prueitt, Arte e computer (1984, it.1985) è una galleria dell’incredibile sterilità epidermica della computer art.
Il mensile Grafica col computer (1984) è uno degli strumenti tecnici creati per facilitare la mediocre creatività priva di necessità della computer grafica.
Un numero monografico di Progresso fotografico (che in passato è stata la migliore rivista di critica della fotografia) era dedicato nel 1987 a Scienza e fotografia, con una sezione di immagini demenziali realizzate al computer (la ridicola e spiritistica olografia veniva definita con poca lungimiranza immagine ventura).
Artronica. Videosculture e istallazioni multimedia (1987), a cura di Anna D’Elia; catalogo di una mostra a Bari con Plessi, Studio Azzurro, e altri. Le forme più spiacevoli e goffe delle installazioni che confondono la scenografia più ingenua con le opere morbose di Costa e Vostell.
Ologrammi. Immagini per il futuro (1987), Museo della fotografia Alinari, Firenze, catalogo della mostra. Una triste rassegna delle ridicole banalità dell’olografia.
Linea grafica. Rivista internazionale di grafica e comunicazione visiva. Questa splendida rivista italiana di grafica ha pubblicato nel 1997 (n.311) un intelligente articolo di Daniele Baroni su L’immagine della complessità: Baroni conclude la sua lettura, sorretta da una eccellente scelta di immagini, ipotizzando con ragionevole severità che sia in arrivo una ‘fase crepuscolare’ della comunicazione visiva, con il rischio di un ‘manierismo compiacente che soddisfa solamente chi lo ha realizzato’. E’ una rara riflessione critica che purtroppo si adatta perfettamente alla grafica in rete.