Cinema

Print Friendly, PDF & Email
Home  Indice 

Cinema

Il Cinema non è nato nel 1895 con i Fratelli Lumiere, che sono stati solamente gli artefici del perfezionamento tecnico di questa forma espressiva; come è noto, l’immagine in movimento era stata già sperimentata e proiettata da Edison, che aveva aggiunto perfino il sonoro, e da tanti altri.
In realtà il Cinema, la Fotografia, l’aereo, l’automobile, la registrazione del suono, si affermano negli stessi decenni di fine Ottocento perché sono giustificati dall’inarrestabile volontà di una cultura profondamente materiata di aristotelismo che intendeva sostituire il tempo differito al tempo reale riducendo la percezione reale del movimento e trasferendo nei nuovi strumenti la dimensione del tempo che scorre: un tempo esterno al nostro con il Cinema, fossilizzato e immobile con la Fotografia, straniante e immisurabile, spersonalizzato, con l’aereo e con la macchina a vapore.

L’ipersensibile poeta Heine, nel primo Ottocento, disse, guardando i primi treni a vapore: ‘ci hanno tolto lo spazio, ci resta il tempo’. Ebbene, negli anni di fine Ottocento ci è stato tolto anche e soprattutto il tempo, e a questa potente e irresistibile trasformazione delle condizioni percettive rispondono con intensità, a cavallo dei due secoli, l’arte e la poesia, con un recupero sempre più sottile del tempo interiore e creando un fragile, ma fondamentale, prezioso antidoto alla devastante infestazione del tempo differito. Un cinema poetico è infatti contrapposto fin dall’inizio all’aristotelico cinema narrativo in prosa che ha dominato il Novecento.

Vasi comunicanti. 2014. Nel capitolo Il Cinema tra scrittura in versi e scrittura in prosa e in altri luoghi di Principi cerco di offrire un’interpretazione del Cinema diversa da quella imposta della cultura dominante, ignorando completamente l’esteriorità del divismo e dei contenuti effimeri e concentrando l’attenzione invece sulle forme emozionanti che il Cinema può offrire, anche se il corpus di opere autentiche è estremamente ridotto rispetto alla mole sconfinata delle opere commerciali.
Il cinema scritto in versi si contrae spesso in frammenti innestati in strutture narrative scritte in prosa e molto più ampie, come capita d’altra parte anche alla poesia e alla musica, che devono limitarsi a volte a pochissimi brani autentici isolati all’interno di opere vastissime.
In P ho cercato l’essenza di questa tecnica scegliendo Vampyr ( ) come opera che ne incarna radicalmente la specificità.
Il Cinema tra scrittura in versi e scrittura in prosa è pienamente Crociano fin dal titolo e i sottotitoli dei paragrafi sono volutamente mutuati da Marangoni.
La ricerca di uno sguardo puro, L’irripetibile emozione dell’istante iniziale, La declinazione impressionista di Louis Lumiere, La grammatica del verosimile, Il cinema scritto in versi, Il doppio binario della demagogia e della retorica, Lirismo poetico di Sjostrom, Nel tunnel dell’entropia, Le fragili suggestioni del cinema espressionista, La sperimentazione tentata dalla stilizzazione, La sperimentazione interdisciplinare sconfitta dalla retorica, L’equivoco del vuoto sperimentalismo epidermico, La faticosa ricerca della scrittura in versi,
Rari segmenti lirici imprigionati dalla retorica degli spazi architettonici, Purezza della scrittura in versi: sintesi irripetibile di lirismo e verità, Il malinconico invecchiamento precoce del cinema di Stan Brakhage, I limiti del cinema come pensiero filosofico, Un poetico principe dell’esilio, Sintesi poetica tra forma e contenuto, L’involontario splendore del cinema occasionale.

Il mio museo ideale del cinema
Segno in nero solamente i film che ho amato di più:

La fresca creatività degli inizi:
1872. Eadweard Muybridge, fotografie con 24 fotocamere di un cavallo in corsa; 1882. Etienne-Jules Marey, L’onda; 1895. Birt Acres, Rough sea at Dover; 1895. Louis Lumiere, 25 film di un minuto: La sortie des usines, Arrivée d’un train, Lavandaie, Lungo il Nilo, La sortie du port.
Elaborazione del linguaggio convenzionale:
1902. Georges Méliès, Viaggio sulla luna; 1903. E.S. Porter, The great train robbery.
Lirismo e ricerca:

1913. Stellan Rye, Lo studente di Praga; 1913. Sjostrom, Ingeborg Holm.
Demagogia e spettacolarità:

C. Chaplin, 1914; 1914. Giovanni Pastrone, Cabiria (con testi di D’Annunìzio); 1915. David Wark Griffith, Nascita di una nazione; 1916. D. W. Griffith, Intolerance; 1915. Abel Gance, Folie du Docteur Tube.
Ricerca di intensità:
1916. Victor Sjostrom, Terje Vigen (da Ibsen); 1918. V. Sjostrom, I proscritti.
Tra suggestione retorica e creatività:
1920. Robert Wiene, Il gabinetto del dottor Caligari; 1920. Paul Wegener, Der Golem; 1920. Carl T. Dreyer, Pagine del libro di Satana.
Lirismo:
1921. Sjostrom, Il carretto fantasma.
Sperimentazione e oscurità:
1921. B. Cristensen, La stregoneria attraverso i secoli; 1922. Friedrich Wilhelm Murnau, Nosferatu il vampiro; 1922. Erich von Stroheim, Femmine folli.
La sperimentazione tentata dalla stilizzazione:
1923. Man Ray, Le retour à la raison; 1923. Jean Epstein Coeur fidèle ; 1924. F. W. Murnau, L’ultimo uomo (L’ultima risata); 1924. René Clair, Entracte (intermezzo del balletto di Picabia, Relache).
Sterilità del futuribile:
1924, L’Herbier, L’inhumaine, scenografie di Lèger; 1924. F. Lèger, Ballet mécanique.
L’insidia della retorica:
1924. Lang, I Nibelunghi; 1925. Sergej Ejzenstejn, La corazzata Potemkin; 1925. Sergej Ejzenstejn, Sciopero; 1926. Fritz Lang, Metropolis.
Ricerca della scrittura in versi:
1926. Germaine Dulac, La coquille et le clergyman, su testo di Antonin Artaud; 1926. Pabst, I misteri di un’anima (sconfessato da Freud); 1926. M. Duchamp, Anemic cinema.

Continuità e forza della sperimentazione epidermica:
1927. Jean Epstein, La chute de la maison Usher; 1927. Abel Gance, Napoléon; 1927. F.W. Murnau, Aurora (Sunrise); 1927. Man Ray, Emak-Bakia; 1927. Man Ray, L’étoile de mer.
L’estrema purezza della scrittura in versi:
1928. Carl Theodor Dreyer, La passione di Giovanna D’Arco.
Superficialità della scrittura perturbante:
1928. I. Bunuel, Un chien andalou.
Intimismo e pittoricismo:
1928. Georg Wilhelm Pabst, Lulu, il vaso di pandora ; 1929. G.W.Pabst, Il diario di una donna perduta.
Superficialità letteraria:
1930. Jean Cocteau, Sang d’un poète; 1930. I. Bunuel, L’age d’or.
Sintesi irripetibile di lirismo e verità:
1932. Carl Theodor Dreyer, Vampyr.
Letteratura trascritta in immagine:
1934. Jean Vigo, L’Atalante.
La presunzione dell’innovazione forzata:

1941. Orson Welles, Quarto potere.
Fragilità del lirismo letterario:
1943. M. Deren, Meshes of the afternoon: 1946. Hans Richter, Dreams that money can buy.
Elegia dolente del vedere:

1950. Jean Genet, Un chant d’amour.
L’equivoco dell’innovazione forzata:

1955. Peter Kubelka, Mosail im vertrauen; 1958. S.Brakhage, Anticipation of the Night; 1959. S.Brakhage, Sirius Remembered; 1961-1964. Stan Brakhage, Dog, Star, Man.
I limiti del cinema come pensiero filosofico:
1961. Alain Resnais, L’anno scorso a Marienbad.
L’inatteso lirismo dell’autenticità:

1962. Ed Emshwiller, Thanatopsis; 1963. A. Resnais, Muriel ou le temps de retour; 1964. Jonas Mekas, The Brig; 1964. Samuel Becket, Film.
L’inautentico Cinesarge contemporaneo:
1963, Andy Warhol, Sleep; 1964, Andy Warhol, Empire.
L’aggressiva ossessione della visione estrema:
1960. P. Kubelka, Arnulf Rainer; 1966. Tony Conrad, The flicker. 1966. Michael Snow, Wavelengh; 1970, M. Snow, La regione centrale.
Fragilità della scrittura discontinua:
1968. Nagisa Oshima, Diario di un ladro di Shinjuko.
Necessità e rigore poetico:
1974. Chantal Ackerman, Je, tu, elle (edito nel 1976).
L’emozionante prodotto dell’occasionalità nutrita di poesia involontaria:
1999. Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, The Blair Witch Project.
Rarità della scrittura poetica autentica:

2009. Pietro Marcello, La bocca del lupo.

Dal 1999 al 2010 ho tenuto quattro conferenze nella biblioteca di Borbona dedicate al Cinema delle origini con la lettura guidata dei testi. Fu molto piacevole parlare del cinema commentando le immagini durante la visione, una cosa che avevo sempre sognato di fare:
1999. Il cinema delle origini, giornate dedicate al cinema antico (1): da Edison a Lang; 2000. (2) Drejer, Giovanna d’Arco; 2001. (3) Ejzenstejn, Sciopero; 2010. Pagine rare del cinema delle origini, Muybridge, Marey, Acres, Sjostrom.

Centri di studio e musei
1958. Museo Nazionale del cinema (Torino). Il museo ha la sua sede definitiva nella magnifica Mole Antonelliana, un edificio storico di immensa suggestione, nella memoria di chi ha potuto vederlo prima della sua triste trasformazione museale, che non meritava di essere l’involucro di un museo così privo di intelligenza e così meschinamente aderente al più retrivo gusto dello spettacolo e del contenutismo divistico.

1967. Il cineclub Filmstudio ha svolto a Roma negli anni ’70 un lavoro di informazione insostituibile, rendendo possibile la conoscenza di rari film storici dell’Ottocento e del primo Novecento e poi della sperimentazione poetica più interessante e coraggiosa coltivata dei pochi cineasti che hanno saputo evitare l’equivoco del cinema commerciale che ha ereditato la struttura del romanzo e del teatro rinunciando alla sua specificità. Ho frequentato il Filmstudio per anni studiando tutto il cinema delle origini e tutto il cinema poetico del Novecento e ne ho un ricordo bellissimo, ancora emozionante. Nel ’70, per la prima proiezione di Napoleon di Gance, eravamo in tre.
Con lo straordinario Je, tu, elle, (1976) di Chantal Ackerman ho capito cosa significa guardare la vita filtrata da un’opera d’arte con la più grande emozionante sincerità: Le due amiche di Courbet è evidentemente la matrice della bellissima sequenza erotica.

Arte e Cinema
In P tento una lettura intensiva del rapporto che esiste tra cinema e arte figurativa (cfr. Il cinema tra scrittura in versi e scrittura in prosa).

Per la mia locandina del Cinema delle origini, ciclo di conferenze del 1999, ho messo a confronto una scena del Golem con il bozzetto preparatorio di Poelzig per il film (1920).

The Cell (2000) un film di Tarsem Singh con sceneggiatura di Mark Protosevich, raccoglie una fascinosa e seduttiva antologia di citazioni esplicite di opere d’arte contemporanee: dalle performance di Sterlac alla video art, dall’animale sezionato e vivente di Hirst al fasto barocco delle installazioni di gusto postmoderno.

La ragazza dall’orecchino di perla (2003) dell’inglese Peter Webber, realizza una splendida e rarissima osmosi tra la memoria visiva della pittura di Vermeer e il racconto filmico.

v in Musica, il poetico Tutte le mattine del mondo, il miglior film realizzato sulla musica.

Poco interessanti e deludenti i saggi sull’argomento arte e cinema:
Marco De santi, Cinema e pittura, ArtDossier (1987); Luca Antoccia, Arte e cinema: Murnau. Il cavaliere muto; Arte e cinema: Francis Bacon (2003); F. Petrucci, Arte e cinema: Visconti e la pittura, (2006).

Cinema e filosofia
Il cinema interessa sempre più spesso gli studiosi di filosofia: Mauro Carbone, Sullo schermo dell’estetica, La pittura, il cinema e la filosofia da fare, 2008.

Paul Virilio, nel suo L’arte dell’accecamento, 2005 (it. 2007), ha formulato, citando Merleau-Ponty, un severo atto di accusa contro l’esasperazione del visuale che acceca il vedere, un fenomeno che riguarda anche il cinema di Lynch.

2013. Un episodio sconcertante attesta la disattenzione e la stanchezza diffusa che c’è per le forme ibride del manierismo che in questi anni si logorano ormai in un’inutile sopravvivenza: il film di Terence Malick, The tree of life (2011), che sacrifica la dignitosa scrittura narrativa della sezione centrale alla banale retorica dell’introduzione e all’insensata e ridicola conclusione finale, è stato proiettato a Bologna (2013) con i rulli invertiti e nessuno tra il pubblico si è accorto di niente. Evidentemente i presenti hanno considerato l’assoluta mancanza di decorso narrativo e perfino la parola fine posta all’inizio del film come una scontata provocazione manieristica, e l’hanno accettata come tale.
Se si fosse trattato di un esperimento avrebbe dimostrato che i linguaggi inusuali di tradizione novecentesca vengono ormai neutralizzati con un atteggiamento che è già predisposto ad una conciliante familiarità verso quelle forme che un tempo erano invece considerate scioccanti, con un’aggravante: The tree of life è considerato un testo genericamente filosofico, ed è probabile che l’accettazione passiva, in questo grottesco episodio, sia dovuta anche all’eccesso di soggezione che é da sempre legato alla presunta e inesistente sacralità della Filosofia.

Stalker
2014. Stalker (1979) mostra i pregi del cinema di Andrej Tarkovsky, ma anche i suoi limiti, che poi sono quelli che é doveroso e necessario individuare in gran parte del Cinema stesso se si vuole riflettere seriamente sulla specificità di questo strumento creativo.
La struggente densità materica del film, il suo pittoricismo amaro fatto di corrusche cancellature e di opacità, è il frutto della raffinata e colta attenzione del regista russo per l’arte figurativa, lo dimostrano i suoi film più intensi, quello sul pittore del Quattrocento russo Andrej Rublev (1966) e Solaris (1972); la sua cultura di cineasta è fondata esplicitamente sulle ricerche di unità tra forma e contenuto condotte dal cinema sovietico degli anni ’20, e poi, evidentemente, si è ulteriormente rafforzata con l’avvento del Teatro povero di Grotowski degli anni ’60.
Il suo cinema si oppone allo sperimentalismo fine a se stesso imperante in quegli anni, e cerca l’innesto di un pensiero filosofico già materiato di scrittura letteraria, in Stalker si avverte con forza la presenza profonda di Dostoevskij,
I limiti del film sono quelli che frenano quasi tutto il Cinema fin dalle sue origini: il forte, ipnotico contenutismo didascalico e la convinzione che si possano trascrivere in immagini sia la parola scritta letteraria che i pensieri filosofici.
In Stalker è evidente la lezione di Bergman, che ha declinato le ricerche poetiche del cinema nordico più antico, quello di Sjostrom e di Drejer, a favore di una fascinosa prosa letteraria che ha però gradualmente sminuito la stessa specificità del Cinema.
E’ una storia segnata da un faticoso cammino, quella della specificità del Cinema, ed io spero di aver dato un contributo con il mio saggio interamente dedicato alla riflessione su questo argomento.
Nella lega di Stalker c’è l’oro della creatività pura, il flusso del tempo è concretizzato liricamente nel magma materico che l’occhio attraversa a fatica, soprattutto nella prima parte del film, e le forme riconoscibili sono diluite e cancellate in un impasto continuo di materia sgranata, e poi c’è il rame del contenutismo, perché il film intende sostenere e dimostrare un’idea della vita molto precisa, in tempi e modi che sono quelli specifici della scrittura letteraria; infatti l’argomento lo potremmo apprezzare anche se fosse solamente scritto.

Nel film, comunque, il conflitto sempre latente tra forma plastica e contenuto è sbilanciato a favore della specificità del Cinema, perché se guardiamo il film senza sonoro, e quindi senza seguire il racconto, come a suo tempo ho fatto io, non c’è niente nella sua forma che alluda anche indirettamente al tema scelto dal regista e il racconto si rivela per quello che è nella sua realtà poetica, che non può mai prescindere dalla memoria estetica di altre opere, come avviene nell’opera di ogni autore autentico.
Ci sono delle figure umane stremate e stordite dalla fatica del vivere che si aggirano senza motivo in un paesaggio altrettanto stremato e svuotato e del tutto privo di riferimenti geografici e storici, in un doloroso e disarmante limbo di desolazione insensata, nello spazio del nichilismo angustiante di Dostoevskij che alla fine viene sciolto solamente dal delicato pensiero finale sulla idealità mancante, più che mai desunto dal tardo Dostoevskij, e questa delusione per la impoverita idealità la vediamo tutta nel viso carnale dell’uomo disteso sul letto, che potrebbe anche recitare un’altra qualsiasi cosa senza cambiare minimamente il senso di quello che abbiamo sotto gli occhi, una materia sfinita e appena viva che continua a respirare per sopravvivere nonostante l’anossia soffocante dello spazio materico che la circonda.
In definitiva, il contenuto che l’autore innesta nel film potrebbe essere trasmesso integro anche in forma letteraria o teatrale, gli attori qui risentono esplicitamente della tecnica della recitazione priva di enfasi che prevede l’utilizzo di tutto il corpo, nessuno di loro recita con aderenza al tema.

Quello che il film racconta davvero con la sua realtà formale, fatta anche di memoria di altre opere e di cose già viste, non è quello che suggerisce il suo contenuto esplicito, ma quello che percepiamo nella realtà in un contesto che trascende la cultura stessa del regista.
L’insieme dei suoni, nel film, coerentemente con il teatro del tempo, rispecchia il flusso della materia opaca che scorre lentamente. Nella scena finale della pioggia il fascino profondo che sentiamo per il rumore dell’acqua è talmente intenso che l’irrompere del Bolero delude spiacevolmente come artificioso espediente che viene scelto per saltare alla conclusione. E anche l’accenno finale all’Inno alla Gioia è deludente e didascalico (la gioia legata all’essere bambino).
Questi due inserti musicali sono brutti e fuori contesto, come lo è l’intervista alla donna e come lo è anche la suggestiva ma superflua sequenza finale della bambina, e torna anche qui la memoria di Dostoevskij: in Delitto e castigo, dopo un tempo infinitamente struggente di materia che soffoca e toglie il respiro si approda increduli ad un deludente e insensato finale didascalico. E’ il limite fatale degli autori che affrontano con forza emotiva il negativo per poi concludere la loro avventura con forme non più emotive e sensoriali, ma illustrative e rassicuranti.

Il vuoto cinema postmoderno
David Lynch, fedele all’estetica postmoderna della rivisitazione, materia il suo lavoro di espliciti specchiamenti del materiale creativo già esistente: Six Figures Getting Sick, 1966 (sperimentalismo del dopoguerra); Eraserhead. La mente che cancella, 1977 (La coquille e le clergyman, 1928, Meshes of the Afternoon, 1943); The Elephant Man, 1980, (Freaks, 1932, di Tod Browing); la serie Twin Peaks, 1990-1991, continua la tradizione interrotta di Alfred Hitchcock presenta del 1955-1962 e dell’affascinante The Twilight Zone di Rod Sterling, del 1959-1964.
Con Strade perdute, 1997, e con Mulholland Drive, 2001, L si impone come (presunto) cineasta filosofo. Nella pubblicità per Nissan Micra, 2002, cita la bocca di Ray e di Raysse. Inland Empire (L’impero della mente), 2006, è stato collocato da una rivista inglese tra i ‘trenta film chiave’ del primo decennio del XXI secolo. Le recenti dichiarazioni di L sull’opportunità di abbandonare il cinema a favore della musica e della pittura (novembre 2011) coincidono con il tramonto definitivo del gusto postmoderno e dell’eccessiva esaltazione spettacolare dell’immagine visionaria, due cose che sono state messe sotto accusa proprio in questi ultimi anni (v Virilio in Pensiero poetante).

2013. Il video pubblicitario più intenso e coerente stilisticamente di Lynch è sicuramente quello realizzato per Playstation (v Youtube) che rievoca evidentemente Lot in Sodom (1933) di James S. Watson, l’ultimo dei surrealisti prima di Maya Deren.

Stereotipi
Un critico del Cinema come T. K, dimenticando o ignorando le opere poetiche di altissimo livello di Sjostrom e di Drejer, si chiede (su Sette, CdS):’Chi è il Picasso del cinema? e il Bacon?’ e conclude con una incredibile affermazione: tutta la storia del cinema non vale un dipinto di Picasso (?).

The Blair Witch Project (1999). Mi sono accorto che valeva la pena di vederlo grazie all’idiozia di una recensione, perché ogni cosa, in quel commento scritto con astio e ironia, mi aveva messo in allarme:
’L’uso ossessivo della macchina a mano disturba, se non impedisce, l’identificazione tra spettatore e schermo ( ) il dialogo troppo gridato dei tre protagonisti ( ) introduce un ulteriore elemento di disturbo e nega ogni verosimiglianza psicologica ( ) per non parlare di chi continua a preoccuparsi più delle riprese che di quello che gli sta succedendo’.
Tutto faceva quindi pensare a un bel tentativo di cinema puro e non descrittivo. E non mi sbagliavo.

Rivedere un film di Stan Brakhage acquistato in rete (Dog, Star, Man) mi ha fatto capire quanto devastante invecchiamento ha subìto il cinema di questo autore generoso che a suo tempo, da giovanissimo, anche io ho sopravvalutato.

Sono orribili e stupidi i film di Godard. Ne La cinese i fumetti sono citati solo per irridere gli americani e la violenza, è falso sostenere che Godard li abbia usati come forma espressiva. Anzi, ne La cinese i F sono spinti ancora più a fondo nel ghetto delle presunte forme minori.
In Pierrot e ne Il disprezzo le facce inespressive degli attori, il culto servile per la gioventù ricca, la stupida sigaretta sempre accesa, il mediocre colore smaltato di Godard, non sono altro che la visualizzazione forzata e sterile di una banale e ingenua, forviante idea di progresso. I film di Godard fanno sorridere se paragonati alle opere più autentiche del cinema di ricerca sperimentale degli anni ’60, e credo che Deleuze abbia ignorato del tutto quel cinema di ricerca come ha ignorato anche l’arte contemporanea più complessa, come l’opera di Beuys.

L’idiozia del cinema muto riscoperto
Si è creato il mito deteriore del cinema muto da riscoprire perché gli storici del Cinema preferiscono ignorare che il cinema antico ha sempre continuato a evolversi, dopo la svolta del sonoro, con il cinema di ricerca sperimentale, e fingono di non capire che il mediocre cinema narrativo non è affatto Il Cinema, ma il frutto dell’inarrestabile mutazione morfologica del Teatro, del Romanzo popolare e dell’Opera lirica, che sono gradualmente implosi per sovrapporsi tra di loro, come la Televisione non è il presunto e inesistente media di massa, ma la mutazione morfologica dell’arte popolare fecondata dal cinema artigianale di Mèlies.
Qualche anno fa uno studioso esaltava in un suo articolo lo stereotipo più demenziale: il cinema muto, una volta restaurato, uscirebbe finalmente dal triste circuito dei cineclub per essere apprezzato dal grande pubblico e non più da pochi carbonari (?).

Ma io ho visto per tutta la vita film rovinati dalla cattiva conservazione, con lampeggiamenti, parti mancanti, graffi, con il ronzio del proiettore come unica colonna sonora, e non ho mai pensato che avessero bisogno di un restauro, come non lo penso di fronte ad un affresco appena visibile e lacunoso, di fronte ai frammenti di Eraclito e ascoltando i pochissimi lacerti rimasti di musica greco romana.
L’ossessione insensata del restauro della pellicola, che sarebbe capace di ridare splendore perduto (?) all’opera, non tiene conto dei risultati della teoria del restauro di Brandi.

L’attitudine di colorare di celeste e di giallo i film in bn del passato è un segno particolarmente stupido della sostanziale insofferenza che si ha per il cinema antico e per la sua realtà.
Il film di Abel Gance, Napoleon, restaurato e riedito dopo il 1980, fu annunciato come una scoperta clamorosa seguita da un vasto pubblico, ma io lo avevo già visto al Filmstudio quasi dieci anni prima; non era certo la versione completa di quattro ore, ma era più che sufficiente per conoscere il film. Napoleon è un film straordinariamente vivo e sperimentale, ma solo la cecità degli storici del Cinema ostili alla lettura critica interdisciplinare e alla radicale specificità del linguaggio filmico può far credere che si tratti di un capolavoro autentico piuttosto che di un laboratorio di frenetiche soluzioni figurative, vivissimo e invasivo, ma strutturalmente paradossalmente inerte.

La mancata educazione alla critica formale del cinema
2014. Ho accettato di far parte della giuria del Concorso di corti indetto dal liceo Righi di Roma, per il quale ho redatto una scheda critica per un film bellissimo, Sayonara, del giovane Robin Finetto, del quale poi ho trovato in rete dei video colti e sensibili:
Bellissimo e davvero entusiasmante questo corto di Finetto, che mostra una profonda comprensione della specificità filmica, una matura cultura cinematografica e una straordinaria sensibilità creativa.
Il racconto è limpido: un corpo anonimo si desta dal sonno in un luogo imprecisato e disabitato, percorre con uno skateboard il tragitto che lo porta dalla campagna alla città, si addormenta e si risveglia nuovamente nel luogo d’origine, all’interno di un sogno inquietante dal quale non può mai destarsi.
Il linguaggio visivo è perfettamente coerente con questo racconto di solitudine e di perturbante smarrimento dell’Io. Vige un’ammirevole e rara unità di forma e contenuto che induce ad una struggente forma di osmosi tra lo straniamento dell’abitare un limbo sospeso e la quieta quotidianità delle apparenze.
E’ evitato con naturalezza il ricorso alla sterile recitazione teatrale, il corpo si muove nello spazio in una performance concreta che non è recitazione, si sposta sulla strada scorrendo immobile, la sua stessa inespressiva opacità permette a chiunque l’identificazione e l’adozione del suo stesso punto di vista, le frequenti sfocature hanno il compito di consolidare questa identificazione tra l’Io di chi guarda e l’Io raccontato.
Lo sdoppiamento di chi abita simultaneamente lo spazio onirico di un limbo privo di storia e la quotidianità priva di accadimenti porta all’esito conclusivo: in un chiasmo affascinante i due corpi cercano inutilmente un contatto tra di loro usando il cellulare, poi il racconto torna nuovamente all’inizio.

La freschezza dell’invenzione formale è desunta dalla più recente letteratura del perturbante (v i romanzi di Giorgio Vasta) che riabilita l’individualità come valore intimo da coltivare; non per suggerire un egoistico isolamento, ma per arricchire la fertile sensibilità dei singoli.
Il film non deraglia quindi nella sterile demagogia contenutistica che opprime così pesantemente il cinema, soprattutto italiano, e si offre invece come esemplare soluzione linguistica di un cinema che sa parlare coerentemente la sua lingua specifica coltivando con delicatezza e intelligenza il terreno della sensibilità.

Sarebbe inutile allineare pedantemente i precedenti del cinema surrealista e del cinema postmoderno più recente, ma anche della video art, che si scorgono in trasparenza nella scrittura di Finetto: questo giovane autore è dotato di una capacità insolitamente intensa di trascendere i modelli storici che mostra altrove di conoscere molto bene e di assimilarne con freschezza il meglio della forma.
Siamo già sicuramente in presenza di un grande filmaker. Per l’occasione del Festival Finetto ha scelto evidentemente di comporre un testo adeguato al mondo giovanile, ma in rete si possono vedere altri suoi lavori di altissimo livello poetico, come lo stupefacente So good to me.

2014

Per l’edizione del 2015 ho inviato le mie riflessioni sul delicatissimo film di una ragazza, Il senso dell’odio, Liceo Malpighi di Roma:
C’è una lenta scrittura scenica di civilissima matrice letteraria e dignitosamente teatrale coltivata forse sui testi più scarni dei Fratelli Taviani. Una ragazza apre i Dublinesi a metà per prendere la taglierina con la quale vuole ferirsi, e la scelta del libro è rivelatrice del suo stato di angosciante depressione; nel racconto ‘Un caso pietoso’, proprio a metà del volume, si legge infatti: ‘Rimase in ascolto per qualche minuto. Non sentiva niente, adesso, la notte era immersa nel silenzio. Ascoltò ancora:silenzio assoluto. Sentì di essere solo’.
Il dramma intimo dell’autolesionismo è sottolineato da poche note di pianoforte e dal silenzio. Il dialogo ha la lentezza suggestiva dello spazio teatrale dal vivo, la stessa figura della cattiva coscienza, pesantemente truccata, è consapevolmente teatrale.

C’è un’ammirevole e colta unità tra il consapevole linguaggio teatrale e il tema angosciante per il quale saggiamente non viene suggerita nessuna retorica soluzione.
Quando la ragazza si affaccia alla finestra per cercare la possibile continuità della vita stiamo ancora leggendo i Dublinesi: ‘I ragazzi del viale erano soliti giocare insieme su quel terreno’ (Eveline); e la ripresa dall’alto è splendidamente calibrata sullo sguardo che attira a sé le forme.

I libri
Le origini:
1965. C. W. Ceram, Archeologia del cinema (it.1966).

La divulgazione epidermica:
1965-1978. Georges Sadoul, Il cinema (Dictionnaire des Cinéastes, ed. it. 1967-1981). 1969. Roman Gubern, Storia del cinema (it. 1972); 1977. Roman Gubern, Il cinema oggi.

Lo sterile mito della dissidenza:
1968, Pietro Alemanno, Il viaggio di Kubelka ai confini del cinema, Marcatre n.43/45; 1971. Alfredo Leonardi, Occhio mio dio, il New cinema americano; 1971. Jean Mitry, Storia del cinema sperimentale

Correttezza dell’indagine:
1970. Paolo Bertetto, Il cinema dell’utopia.

L’equivoco della dissidenza forzata:
1963. Stan Brakhage, Metafore della visione (It.1970); 1971. Gregory J. Markopoulos, Caos Phaos (It. 1976).

L’indagine sulla struttura:
1974. A.Cappabianca, M. Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto; 1976. E. Martelli, con testi da Leonardi e dal Filmstudio, Ricerche figurative e sperimentali nel cinema Underground, Catalogo, Firenze, Forte Belvedere; 1977. Daniela Palazzoli, Fotografia, Cinema, Videotape, l’uso artistico dei nuovi media. 1975-1983. S. Lawder, Il cinema cubista; 1983. Paolo Bertetto, Il cinema d’avanguardia 1910-1930. 1984. Americo Sbardella, Il tempo della visione, il cinema underground americano dalle origini agli anni ’70, edito da Filmstudio 80. 1983; 1981. Paolo Bertetto, Alain Resnais; 1999. P. Bertetto, Robert Wiene, Il gabinetto del dottor Caligari; 1986. AA.VV. Michael Snow. Catalogo della retrospettiva di M. Snow, Torino (testo introduttivo di P. Bertetto).

La divulgazione:
1993. E. Toulet, Il cinematografo, invenzione del secolo (Gallimard, it. 1994. 2006. G. Crepaldi, Il cinema. L’arte in movimento, In AA.VV. La storia dell’arte, vol. 19.
Cinema e filosofia:
2002. A. Sani, Il Cinema tra storia e filosofia.
La novità corroborante dell’intelligente lettura critica:
1998. David Bordwell e Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film (riedizioni fino al 2010). E’ stato veramente confortante l’arrivo del libro in due volumi di Bordwell e Thompson, uno splendido lavoro critico che finalmente guarda davvero al linguaggio del Cinema nella sua complessità creativa e non solo contenutistica; un lavoro di grande e inedita freschezza, materiato di continue, intelligenti annotazioni stilistiche, la migliore opera di storia del cinema che io conosca, dopo tante sterili e insopportabili esaltazioni del Cinema inteso soprattutto come racconto (romanzesco) e come spettacolo (teatrale).

Non ho letto il testo di Ragghianti sul Cinema, né quelli di Deleuze, non volevo essere influenzato nello studio di un materiale che ho amato tantissimo e sul quale desideravo scrivere qualcosa di nuovo, come mi auguro di aver fatto (2016).