Borbona ed il suo patrimonio artistico

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Borbona e il suo patrimonio artistico

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Borbona (Rieti), come tanti altri centri minori italiani, non dispone ancora di uno studio completo dei dati d’archivio che riguardano la sua storia e il suo interessante patrimonio artistico, un insieme di eventi e di opere d’arte che costituisce un complesso mosaico ancora in gran parte da ricomporre. In attesa però di una esaustiva ricerca storica, sono le sue interessanti opere d’arte i tasselli di questo sfuggente mosaico, frammenti preziosi che segnano nitidamente le tappe fondamentali di una vicenda storica e di una cultura. E questi tasselli, per ora, possono essere letti e decifrati solo ricorrendo ad una serrata e intuitiva critica stilistica e attributiva (1).
E’ inutile ripetere qui le poche date storiche sicure già disponibili altrove; meglio interpretare direttamente le opere e avanzare delle ipotesi anche azzardate.

  

 

2 Foto SBAS Lazio

 

La più antica chiesa medioevale di Borbona, la S.Croce in Burbone documentata dalla bolla pontificia del 1153 e abbandonata attorno al 1561 perché ormai in rovina, sopravvive probabilmente nei frammenti di trabeazione murati in San Giuseppe (fig.2), resti della cornice di un portale d’ingresso parzialmente affine al fregio attualmente ricomposto nella facciata di S. Maria extra moenia di Antrodoco con il quale condivide il tralcio di vite insidiato da una figura mostruosa che ne addenta inutilmente le radici. Ad Antrodoco figura nel fregio l’Agnus dei, a Borbona una suggestiva figura umana, Adamo.

L’animale demoniaco che cerca di abbattere la pianta della Vita in questi due fregi è visibile anche nel portale del Duomo di Rieti commissionato dal Vescovo Dodone tra il 1157 e il 1181, ed è la figura di Dodone che va studiata in rapporto alla chiesa medioevale borbontina e a questo tema romanico del virgulto insidiato dal male (2).

 

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Per la singolare lastra erratica murata nella parrocchiale, con Majestas domini e figure di evangelisti (fig.3, sn), azzardo l’ipotesi che si possa trattare del paliotto di un altare eretto in S. Croce in Burbone e consacrato in occasione del passaggio della zona compresa nel castaldato di Falacrine al territorio della Chiesa, negli anni 1185-90 (nel 1198 l’intero Ducato di Spoleto, ultimo retaggio della cultura longobarda nel centro Italia, passa alla Chiesa). Sarebbe giustificabile solo così, credo, con un consapevole, goffo richiamo al più remoto passato longobardo, l’insolito, esplicito riferimento all’Altare di Retchis di Cividale (fig.3, ds) che nel 737-744 mostrava l’adesione del linguaggio illirico all’iconografia cristiana.

E la figura di Giovanni evangelista della lastra, allora, sarebbe quasi coeva a quella analoga visibile nella coperta argentea del Laterano, dell’inizio del Duecento, e sarebbe il segno di uno scambio di segnali iconografici a distanza tra la chiesa medioevale borbontina e il centro religioso del Laterano al quale Borbona sembra spesso legata da profondi legami. Più tardi, nel Trecento, S. Croce ospiterà la grande croce angioina e l’immagine di questo Giovanni evangelista sarà trascritta anche nell’argento della croce.

 

3 (a) Foto Alessio Giorgetti

 

La Croce di Borbona, databile agli anni 1320-30 c. e attribuibile stilisticamente ad Andrea di Jacopo d’Ognabene, segna l’entrata del paese, nei primi decenni del trecento, nello schieramento angioino dei castelli aquilani. Cfr. GG. La Croce di Borbona, RM Borbona, nn, 7-12, 1996; GG. La Croce di Antrodoco e Nicola da Guardiagrele, Prospettive Sabine, 1987.

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Nel Quattrocento Il francescanesimo è ormai radicato nella storia del paese (3).

L’affresco con i Santi Antonio e Rocco (fig. 4, sn), nella chiesa francescana di S. Anna, è attribuibile stilisticamente al Maestro della Misericordia (fig. 4, ds) attivo ad Amatrice, ed è databile agli anni tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, quando con il giubileo del 1500 di Alessandro Borgia si tenta con Antoniazzo Romano e con il figlio Marcantonio, attivi a Rieti nell’ambito della Confraternita di S. Antonio, un demagogico recupero del rigore arcaicizzante delle icone medioevali che è giustificato teoricamente, a Roma, dal filosofo Bessarione.
Cfr. GG, Un inedito affresco del Quattrocento nella chiesa di S. Anna a Borbona. RM Borbona, n. 2, 1996.

Il pittore di Amatrice ha lasciato a Borbona un esempio della sua cauta scrittura figurativa formulata tra l’espressionismo crivellesco delle Marche e la severa staticità di Antoniazzo e di Marcantonio Aquili. E subito dopo la scadenza del giubileo si consolida nella zona tra Amatrice e Borbona il forte idioma vernacolare di Dionisio Cappelli, una declinazione popolare dello stile del Maestro della Madonna della misericordia (4).
Cfr. GG, All’origine dello stile popolare di Dionisio Cappelli. Il ruolo delle xilografie tedesche, Fidelis Amatrix n. 12, 2005.

 5 6 7 8 (6 e 8 Foto SBAS Lazio)

 

Il corpus delle sculture rinascimentali borbontine è quasi tutto legato all’ambito tradizionale della bottega di Silvestro dell’Aquila (+1501): il busto di Madonna in S. Giuseppe è sempre stato attribuito a Carlo dell’Aquila e datato al 1522 c. (Mortari, 1957), ma un’opera interessante di Carlo dell’Aquila può essere anche la testa di Madonna in terracotta conservata nella Parrocchiale (fig. 5). Questa bella testa, che ha la stessa intima compostezza desunta da Laurana che Carlo ostenta nella Madonna col bambino di S. Maria in Legarano a Casperia, è probabilmente la sola parte sopravvissuta di quella ‘immagine grande in terracotta’ che una visita pastorale del 1561 segnalava nel santuario medioevale di S. Maria del Monte poi devastato dal terremoto del 1703 (5).

La scultura lignea di S. Anna, sull’altare maggiore (fig. 6), è stata evidentemente deformata con l’aggiunta di stucco colorato per trasformare una Madonna con bambino in una S. Anna ispirata iconograficamente a modelli quattrocenteschi come quello masaccesco della tavola degli Uffizi (1425), ed è evidentemente di scuola di Silvestro dell’Aquila, pur semplificata da una arcaizzante energia popolare.

Il restauro recente (fig.7) ha confermato pienamente l’avvenuta trasformazione della Vergine in S. Anna.

La splendida immagine di S. Antonio abate in legno (fig.8), attualmente in S. Anna, è una derivazione popolare dello straordinario S. Antonio abate di Saturnino Gatti (+1521) nella chiesa omonima di Cornillo Nuovo (Amatrice), databile al 1511. Innesto sconcertante della vigorosa volumetria naturalistica di Saturnino nell’incerta struttura architettonica di un artista popolare (6).

Il Cinquecento di Margherita d’Austria, feudataria di Borbona dal 1570 al 1586, porta nel paese forme insolite di eccentricità. Alla Croce trecentesca restaurata viene aggiunto un tempietto (1580); il rilievo licenzioso con Baubo all’esterno della parrocchiale (identificato dall’archeologo Firmani), plasmato in forme tardocinquecentesche, era sicuramente parte di una fontana della Rocca del paese che ospitava il palazzo dell’eccentrica Margherita.

 

9 foto SBAS Lazio, 9 bis

Incisione di Bonasone, sec, XVI

 

La bella Crocefissione della parrocchiale (fig.9), opera di un pittore che forse lavorava attorno al 1585 per Madama, non è una banale copia dalla Crocefissione di Giovanni Stradano (9 bis) in SS.Annunziata a Firenze (1569), ma un’interessante variante di quel dipinto fiorentino al quale è stata sovrimpressa l’immagine, ampiamente divulgata dalle incisioni, del Cristo in croce che Michelangelo aveva disegnato nel 1540 per Vittoria Colonna. L’iconografia dell’alchimista, presente con Stradano nel dipinto di Firenze e nello Studiolo di Francesco I, insinua nel feudo di Borbona il segno eccentrico del tardomanierismo e un provocatorio sincretismo culturale e religioso.

Cfr. GG, Paola Berardi, L’alchimista e la Crocefissione. Esoterismo e devozione nella Borbona cinquecentesca di Margherita d’Austria, n. 16, gennaio/febbraio FA, 2006.

10, 10 bis 

Il Seicento borbontino si apre con l’arredo di S. Anna nelle forme degli altari lignei delle chiese di Amatrice, e a metà secolo viene realizzata la decorazione pittorica del Convento da Vincenzo Manenti e bottega (figg.10, 10 bis).

(v. Su Vincenzo Manenti: GG, Il complesso di S. Anna a Borbona, la chiesa e uno straordinario ciclo di affreschi secenteschi da recuperare e valorizzare. Mondo Sabino, n. 17,1995; Vincenzo Manenti a Borbona. RM Borbona, n.6, 1996; Il ciclo francescano del convento di S. Anna a Borbona e la bottega di Vincenzo Manenti, 2000, In: Il Cavalier Vincenzo Manenti e il suo tempo, Atti del Convegno, Orvinio (2003).

 

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 Due dipinti secenteschi di grande qualità sono arrivati a Borbona da fuori: L’Hecce Homo conservato in S. Giuseppe (foto 11, sn), un quadro arrivato a L’Aquila e poi trasferito a Borbona nella cappella della famiglia Lopez, non è affatto una semplice copia del dipinto di Ludovico o Agostino Carracci del 1586-87c. nella Galleria di Palazzo Durazzo Pallavicini, a Genova (fig.11, ds): è un dipinto splendido, autentico, una copia di studio eseguita con grande intensità e con una profonda comprensione dell’originale carraccesco, un dipinto che potrebbe anche essere il lavoro di uno dei pittori più interessanti della maniera di Ludovico come Camillo Gavassetti (Modena,1596-1630) che ha dipinto un S. Andrea portato al martirio (Piacenza) nel quale sembra rivivere in parte l’atmosfera dell’Ecce Homo (7). Questa edizione del dipinto di Genova conserva con grande freschezza il ricordo del Moretto (+ 1554) nell’intarsio centrale del Cristo desunto dal Cristo alla colonna di Capodimonte, la leggerezza e la luminosità neoveneta con cui è realizzata la figura di sinistra, il lirismo veronesiano con cui è realizzata la testa del Cristo contro il cielo rorido.

 

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12 bis (foto SBAS Roma)

 

Particolarmente interessante poi è la Crocefissione dell’altare maggiore della Parrocchiale (fig. 12), un’opera che è stata finora assolutamente trascurata perché di non facile collocazione stilistica. Il tema paleocristiano del Cristo dodicenne in croce impedisce di pensare ad una data che superi la prima metà del Seicento, epoca di revival dell’antichità cristiana; questa figura di adolescente proviene dalla scultura cristiana del giovane Cristo docente nel Tempio (8).

Il pittore che ha dipinto questa lirica Crocefissione può avere una sola matrice culturale, lo dicono esplicitamente gli elementi formali del dipinto: la figura femminile, delicatamente compressa in sé stessa e avvolta in un bozzolo di sottili, melanconici toni grigi e violacei, è in acuto contrasto con la volumetria animata e scomposta della figura maschile che è scossa invece dall’impasto acido del rosso e del verde.

Il Cristo adolescente al centro si decanta in una tessitura tenerissima di toni, di velature, all’interno di un disegno stremato e smaterializzato. La visione dal basso spinge impercettibilmente il gruppo contro lo schermo del tramonto distante.

C’è un precedente stilistico per questo gruppo, e si trova a Roma nella volta della cappella in S. Lorenzo in Lucina decorata nel 1623 dal francese Simon Vouet e bottega: nelle scene della  Visitazione e dello Sposalizio della Vergine (fig. 12 bis, ds), dipinte a olio su muro con la partecipazione di un collaboratore di Vouet, la materia è trattata con la stessa rude semplificazione del dipinto di Borbona.

Come nella Crocefissione borbontina, nella Visitazione la figura femminile a sinistra, avvolta in un bozzolo, stride contro la figura maschile di spalle, a destra, che è violentemente scossa da una disordinata volumetria espressionistica, e questa disinibita collisione di forme chiuse o divaricate si ripete specularmente nello Sposalizio.

Il dolce Cristo di Borbona non è altro che la parziale ma inequivocabile citazione del Crocefisso di Guido Reni che viene collocato in S. Lorenzo in Lucina nel 1637-38 c. impreziosito dall’evocazione struggente e colta di un Cristo dodicenne.

Questo prezioso pittore isolato, forse un giovane francese collaboratore di Vouet fino al momento del ritorno in Francia del maestro (1627), ha sintetizzato quasi con dolorosa nostalgia, nel suo dipinto borbontino, lo spirito di una cultura pittorica particolare che in S. Lorenzo in Lucina aveva il suo laboratorio; una cultura condivisa dai collaboratori francesi di Vouet e da quelli di Carlo Saraceni, una prassi che prevedeva una pudica contrazione e una insolita abbreviazione delle forme con un fondamentale distacco dai movimenti emergenti di quegli anni che porta a volte ad opere arcaicamente semplificate come il Cristo fra i dottori della Pinacoteca Capitolina attribuito al Pensionante del Saraceni o a Leclerc. E’ da quel momento particolare della Roma secentesca interessata agli argomenti paleocristiani che esce questo inquietante, isolato dipinto di Borbona.


13 Foto SBAS Lazio

 

Il Settecento borbontino, infine, ha il suo genius loci con lo stuccatore sensibilissimo che negli anni della ricostruzione dal terremoto del 1703, sotto i Borbone (1731- 37 c.), realizza l’altare spettacolare della Parrocchiale (fig. 13).

E’ uno scultore assolutamente disinteressato alla figura umana, al naturalismo; pensa l’insieme della decorazione come un velario esteso nello spazio a schermare la navata, in alto ne schiaccia morbidamente l’altana contro il soffitto ricordando le soluzioni borrominiane. Nella bella figura di S. Restituta, eretta in controluce a destra dell’altare, scheggia il volume pensando con intensità ad un modello scultoreo di grande fascino, la S. Cecilia di Stefano Maderno del 1599 (Roma, S. Cecilia), che gli offre l’opportunità di modellare una figura a tutto tondo con una materia cristallizzata e astratta (9).

 

Note

Questo saggio inedito del 1996 è stato messo in rete nel 2001 nel website dell’autore. Nel 2003 è stato pubblicato parzialmente in Borbona immagini e poesia. E’ stato ampiamente integrato negli anni successivi.

(1) GG, Borbona: cronologia storica e opere d’arte, RM Borbona, ottobre 1996.

(2) Vedi di Paola Berardi, La bolla del 1153 di Anastasio IV: una mappa della Sabina medioevale, in RMB, aprile 1997, e, della stessa studiosa, l’interessante scheda riassuntiva sulla chiesa di S. Rufina a Posta del sec. XII, una chiesa medioevale sicuramente imparentata morfologicamente con la scomparsa S. Croce di Borbona, in RMB, maggio 1997.

Per la figura del vescovo Dodone vedi di Antonella Ferri, Gli elementi scultorei medievali di S. Vittoria a Monteleone Sabino, Rivista dell’Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte, 1987. Per l’iconografia dei portali romanici abruzzesi vedi il saggio di Bianca Kuhnel in Arte medioevale n.1-2, del 1987.

3) Berardi ha ricostruito anche le vicende di un prezioso capolavoro francescano ancora troppo poco conosciuto e fondamentale invece per lo studio del territorio, la Croce di Posta del Maestro di Fossa conservata nel Museo civico di Rieti, in RMB, dicembre 1996.

4) ‘A parte i cauti riferimenti di Verani del 1976, non mi sembra che sia mai stato studiato il rapporto, che appare evidente, tra il gruppo di opere tedesche presenti nella zona sabina negli ultimi anni del quattrocento e la morfo­genesi dello stile popolare di Cappelli, un feno­meno di grande suggestione che interessa anche Cittaducale e Borgovelino. L’opera più importante è la straordinaria pianeta di lana del Tesoro del Duomo di Rieti, vicina gli araz­zetti conventuali renani del Museo di Palazzo Venezia (1490 c.) e alle xilografie tedesche cir­colanti in quegli anni (L. Mortari, Il Tesoro del Duomo di Rieti, 1974; L. Scalabroni, Gli arredi sacri del XV secolo nel Tesoro del Duomo di Rieti, 1981). Nella zona (Rieti, Antrodoco) esiste un gruppo significativo di Pietà tedesche degli anni ‘90 (cfr. L. Mortari, ‘Opere d’arte in Sabina dall’IX al XVIII seco­lo’, 1957 e Ines Millesimi, Il museo civico di Rieti, 1993).’ Da GG, Un Inedito affresco del quattrocento nella chiesa di S. Anna a Borbona; RMB, agosto1996.

5) Visita pastorale di Osio del 1561, descritta da E. Pietrangeli e R. Mancini in RMB novembre 1996.

6) Marzia D’Orazio ha accettato questi suggerimenti nel suo saggio di Laurea, La scultura del ‘500 a Rieti e provincia, 1999, inedito, dove ha raccolto e schedato per intero questo piccolo corpus di scultura borbontina rinascimentale.

7) cfr. La scuola dei Carracci, a cura di Emilio Negro e Massimo Pirondini.

8) Calvesi ha notato nel volto androgino del Cristo caravaggesco della Cena in Emmaus di Londra (1600 c.) un riferimento paleocristiano al Buon Pastore (Cfr. M. Calvesi, Caravaggio; Art e Dossier, n. 1,1986).

9) E il nesso è anche contenutistico: le due sante hanno in comune il martirio per decapitazione. Altre opere di questo stuccatore di genio sono riconoscibili in giro per il reatino, sicuramente a Cittareale in S. Maria in platea e in S. Antonio, in S. Giuseppe a Borbona e in S.Rufina a Posta, forse a Cantalice in S. Maria del popolo e a Rieti, Cappella di S. Vincenzo nel Duomo.

1996-2005

 

 L’alchimista e la Crocefissione, Esoterismo e devozione nella Borbona cinquecentesca di Margherita d’Austria


Da: GG, Paola Berardi, Fidelis Amatrix n.16, gennaio/febbraio 2006

Frammenti della memoria storica
Una parte di questo patrimonio culturale è profondamente radicata nella tradizione locale e mostra infatti un saldo legame con la cultura regionale. Questo è il caso del ciclo di affreschi secenteschi della bottega di Vincenzo Manenti, che si caratterizza per quella chiarezza didascalica che ne ha permesso nel tempo una facile e costante diffusione popolare. In altri casi ci imbattiamo invece in sorprendenti documenti figurativi che a prima vista sembrerebbero del tutto estranei al contesto storico locale; opere dotate di una perturbante forza enigmatica che sono arrivate a Borbona in occasioni storiche particolari.
Ebbene, al gruppo delle opere d’arte che sembrano apparentemente isolate dal contesto locale appartiene anche la singolare tela con la Crocefissione attualmente conservata nella chiesa parrocchiale di S. Croce ma proveniente dalla Chiesa della Confraternita; un segno eccentrico del governo cinquecentesco di Margherita d’Austria, feudataria di Borbona dal 1570 al 1586.
Questa interessante e problematica tela potrebbe essere un lavoro sintomatico di un pittore formatosi probabilmente nell’ambiente dell’Oratorio romano del Crocefisso di San Marcello che ha copiato con intelligenza un’opera fiorentina di Stradano integrandola con delle varianti che la fanno pensare eseguita attorno al 1585, in occasione del giubileo di quell’anno e poco prima della morte di Madama. Un’opera dove sembrano convivere le varie componenti della cultura di Madama Margherita d’Austria.
La Crocefissione di Borbona sembra dettata dall’esplicita volontà di Madama di aggiornare in senso neofeudale la cultura locale, con un testo eccentrico che è stato compilato associando il linguaggio devozionale dell’Oratorio romano all’esoterismo fiorentino di Francesco I (l’alchimista) con l’inserto eccezionale del disegno michelangiolesco che porta nell’opera il pathos amaro dalla Controriforma romana.

L’Arciconfraternita del Crocefisso a Roma e a Borbona
Nonostante l’impianto iconografico sia ovviamente lo stesso, la Crocifissione di Borbona si distacca dall’originale dello Stradano per una sua forte cifra stilistica che rispecchia un contesto diverso ed un energico aggiornamento sulla cultura figurativa romana degli anni ’80. Qui si abbandona il ductus fluido e sfuggente del pittore fiammingo a favore di un linguaggio chiaro e didascalico di impronta devozionale, coerente con quel sermo humilis che allora imperava nella Roma di Sisto V dove si lavorava alacremente per il Giubileo del 1585 nello spirito di un’energica politica controriformistica.

L’autore della tela borbontina mostra un evidente legame con la cultura figurativa dell’oratorio romano di San Marcello, e infatti l’oratorio romano e Borbona sono legati tra di loro da un solido rapporto.
Le due Arciconfraternite del Crocefisso di Roma e di Borbona durante il governo di Madama a Borbona (1570 – 1586) risultano in contatto tra di loro: l’Ospedale della Misericordia (o del SS. Crocifisso) sito a Borbona in località La Terra. dipendeva dalla Confraternita della Misericordia (o del SS. Crocifisso), che era aggregata in quegli anni appunto alla Confraternita di S. Marcello a Roma
La Confraternita borbontina attorno al 1580 ha il suo massimo sviluppo, parallelamente all’impulso demografico e al benessere che il paese raggiunse in quegli anni sotto il governo di Madama.

La cultura figurativa dell’Oratorio romano del SS. Crocefisso
L’Oratorio del SS. Crocifisso della chiesa di S. Marcello al Corso è stato uno dei più attivi cantieri romani operosi per il giubileo del 1585: qui veniva illustrata una maestosa via crucis pittorica di grande immediatezza popolare che anticipava e preparava il futuro stile prosastico dei pittori sistini della grande epopea narrativa di Sisto V. La Confraternita di S. Marcello era tradizionalmente protetta dalla famiglia Farnese, ed è naturale quindi che ci fosse un solido raccordo tra Roma e il remoto feudo borbontino di Margherita d’Austria, che nel 1538 aveva sposato il nipote di papa Paolo III Farnese.

Uno dei maestri più interessanti attivi nell’oratorio, dopo il passaggio del severo De Vecchi, è Niccolò Circignani il Pomarancio, di cui il Baglione scriverà che hebbe due pennelli, l’uno del maestro ordinario, l’altro da buono, per sottolineare la sua disponibilità ad una scrittura figurativa corsiva e illustrativa.
Il dipinto di Borbona condivide con l’Oratorio una forte simpatia strutturale. Mostra la stessa distribuzione dei volumi, dal primissimo piano alle mura lontane all’orizzonte, che caratterizza L’Eraclio che sconfigge Cosroe di Circignani (1582); il cavaliere a cavallo è mutuato da quello visibile nell’Eraclio che riporta la croce a Gerusalemme di Nebbia (1583-1584), dove ricorre intensamente l’estensione volumetrica dal primo piano alla distanza più remota; il bellissimo gruppo delle donne addolorate del dipinto borbontino è un passo compositivo tipico dell’Oratorio (basti guardare al gruppo maschile nella Fondazione del convento delle Cappuccine di Roncalli (1583).
Altri particolari di qualità denunciano il ricordo vivissimo di un ciclo romano immediatamente precedente a quello del Crocefisso e normativo per tutta la pittura del tempo, quello del Gonfalone, affrescato negli anni ’70: basta guardare la massa convulsa della Salita al Calvario di Livio Agresti (1571) e le belle figure in alto nella Deposizione attribuita a Rocca (1569-71).

Un documento storico della cultura del postumanesimo
In definitiva, la Crocefissione di Borbona rispecchia, nei suoi limiti modesti, una congiuntura del tutto particolare: il declino dell’Umanesimo rinascimentale italiano che lasciava il posto alle inquietudini degli Asburgo (la componente più forte della cultura di Madama) che in quegli anni ’80 cercavano nell’esoterismo praghese di Arcimboldi delle consolatorie suggestioni magiche, e alle manie alchimistiche fiorentine di Francesco I de’ Medici, (imparentato con gli Asburgo e con Madama). Si va, a fine secolo, al definitivo superamento filosofico dell’Umanesimo rinascimentale, verso il francescanesimo agguerrito di Sisto V e verso il pauperismo severo di Borromeo e di Filippo Neri. Verso la cultura della penitenza quindi, non più del protagonismo.

E la scelta neofeudale, farnesiana, di Madama, in questa stagione del declino, appare come il segno di un melanconico, struggente ritrarsi lontano dai grandi centri del potere.
2006

Note
Margherita  d’Austria (1522-1586) aveva inserito Borbona nel suo vasto feudo nel 1570, promuovendo un fondamentale impulso economico e demografico: già nel 1577 nel paese si contavano 2000 anime.
La vita di Madama è attraversata da tutte le varie componenti della cultura del postumanesimo cinquecentesco: risente del mondo in decadenza degli Asburgo (come è noto Margherita era figlia illegittima di Carlo V) e di quello altrettanto in decadenza dei Medici (aveva sposato in prime nozze Alessandro de’Medici, pronipote di papa Clemente VII, l’evento è ricordato a Firenze in Palazzo Vecchio da un dipinto del Vasari). Il suo gusto per l’ermetico e per l’eccentrico è spiegabile in questo contesto culturale.
Nel 1583 Margherita si era stabilita definitivamente nel suo feudo tra Lazio e Abruzzo assecondando la vocazione neofeudale dei Farnese (nel 1538 aveva sposato in seconde nozze a Roma Ottavio Farnese, nipote di papa Paolo III). A Borbona fa restaurare la Croce processionale, spostata dalla vecchia chiesa medioevale ormai fatiscente alla chiesa madre di S. Croce sulla terra alta, l’odierna La Terra (nella Croce il nodo astile a forma di tempietto è datato 1580).

Oggi nella parte alta del paese sono ancora visibili e recuperabili i pochi importanti frammenti di trabeazione che verosimilmente facevano parte di quel notevole palazzo signorile visibile nella Veduta prospettica di Borbona disegnata da Sebastiano Marchesi nel 1593, un disegno che documenta l’aspetto compatto della rocca del paese nel tempo di Madama (oggi resta in piedi solamente un malridotto portale d’accesso alla rocca).
E anche il rilievo licenzioso con Baubo (murato all’esterno di un edificio locale) può essere un’eccentrica decorazione di fontana del disperso Palazzo feudale locale.

Per l’opera grafica di Bonasone vedi Giulio Bonasone, catalogo in due volumi a cura di Stefania Massari, 1983, mostra antologica presso la Calcografia Nazionale (Roma). Proprio nel 1585 viene aggiunta all’ennesima ristampa del Bonasone un testo devozionale controriformistico (Cfr. Romeo De Maio, Michelangelo e la controriforma, Laterza 1981, pag.178).

La schedatura degli anni ’70 datava genericamente il dipinto al 1700, ma G. Guarnieri ha proposto già nel 1984 una datazione agli anni ’80 del Cinquecento, un suggerimento che è stato recepito successivamente dalla scheda oa dell’Ufficio Catalogo di Palazzo Venezia che oggi mostra una datazione dell’opera alla fine del sec. XVI citando contestualmente l’altra puntuale copia da Stradano conservata nella Casa Vasari di Arezzo e significativamente databile al 1581. Il dipinto è stato restaurato nel 2008 dalla SBASE Lazio.

Il tema dell’Alchimista che assiste alla Crocefissione ritorna in un impressionante dipinto di Aert Mytens conservato nella chiesa di San Bernardino de L’Aquila, la Crocefissione databile attorno al 1599 (Cfr. Roberto Cannatà, Pittura meridionale del tardo Cinquecento in Abruzzo: dipinti di Teodoro D’Errico, Silvestro Buono, Giovan Bernardo Lama, Aert Mytens e Giuseppe Cesari, in Bollettino d’Arte n. 77, gennaio-febbraio 1993, e Bert W.Meijer, Fiamminghi a Roma: on the years after 1550, in Bollettino d’Arte, supplemento al n.100 (1997).

Nel 1585 la compagnia è aggregata alla Confraternita di S. Marcello a Roma, come recita la visita pastorale del 1585: il Vescovo si recò presso l’Oratorio della Confraternita della Misericordia dove recitano i divini uffici i confratelli. La Confraternita è aggregata all’Arciconfraternita di S. Marcello dell’Urbe. Esiste la chiesa di S. Maria della Misericordia dove si seppelliscono i morti. C’è anche l’Ospedale della Misericordia (cfr. Don Ernesto Pietrangeli e Roberto Mancini, Visite pastorali – 1585, in RMB, nn. 7-8, 1997. AVR. Marini, Sacra visita in regno, 1783-1785).

Il ciclo francescano del convento di S. Anna a Borbona e la bottega di Vincenzo Manenti

Intervento al Convegno ‘Vincenzo Manenti e il suo tempo’, Orvinio, ottobre 2000.
Atti pubblicati nell’agosto del 2003

Il ciclo di affreschi con Storie francescane dell’ex convento di S.Anna a Borbona (Rieti) è stato studiato, e attribuito per la prima volta a Vincenzo Manenti (Orvinio, 1600~1674) e bottega, solo nel 1995; si è trattato di un impegnativo recupero culturale dovuto in gran parte anche alla generosa mobilitazione del paese stesso e di un esempio di intelligente utilizzo delle risorse, visto il lavoro di squadra che coinvolse volontari, studiosi e abitanti del paese (1).
Oggi questi dipinti, che sono quasi del tutto scomparsi con il degrado inarrestabile dell’edificio, sopravvivono comunque grazie alla ricognizione fotografica che fu realizzata a suo tempo, e hanno trovato un posto nel corpus delle opere manentiane recentemente curato dall’Archivio fotografico e dall’Ufficio Catalogo della Soprintendenza ai beni artistici e storici di Roma e del Lazio (2).

Quello di Borbona è anche un caso interessante di indagine critica condotta nella più assoluta mancanza di documenti d’archivio; la stessa attribuzione stilistica scaturì quasi naturalmente dal quotidiano lavoro dell’Archivio fotografico: una volta notata la coincidenza della figura della tentatrice di Francesco, in S.Anna, con quella della Samaritana del duomo di Tivoli, si snodò una lunga reazione a catena di confronti e di riconoscimenti che rese possibile la messa a fuoco di un opaco, sfuggente tessuto narrativo sempre caratterizzato da cartoni sistematicamente riproposti e sostenuti da un limpido lessico figurativo.
Così il mosaico di tasselli del ciclo borbontino prese subito forma, rivelandosi una vera e propria antologia di frasi manentiane già formulate altrove in quella mazzaluna conventuale che va dal basso Lazio ai confini marchigiani passando per l’epicentro manentiano, Rieti, e sconfinando nel viterbese con Capranica.
Ora questo studio degli affreschi di S. Anna ci offre anche l’occasione per guardare all’interessante fenomeno della diffusione della bottega manentiana nel Lazio periferico, e non si tratta semplicemente, qui, di ricostruire e valorizzare la singola figura di un pittore poco noto quanto piuttosto di constatare la persistenza anacronistica nella Sabina di uno stile figurativo che altrove, a Roma, era stato spinto ai margini e abbandonato; è il contesto linguistico nel suo complesso che appare interessante, la trasformazione in dettato popolare di uno stile figurativo altrimenti quasi estinto.
Il progetto complessivo della bottega manentiana sembra prevedere fin dall’inizio la possibilità di recuperare e dare continuità a quella scrittura figurativa, corsiva e negligente, debole, che ha nell’opera del Cavalier D’Arpino la sua formulazione più intensiva. Quel ductus franto, evasivo, e quella ingenua icasticità manentiana, chiaramente desunti dal Cavalier d’Arpino, non costituiscono affatto, come si crede comunemente, un banale riferimento stilistico da collocare agli inizi della carriera di Manenti, perché aldilà dei riferimenti epidermici al Domenichino e al monumentalismo del Pomarancio lo stile di Vincenzo Manenti resta sempre ancorato con una profonda simpatia stutturale a quella pittura tonale arpinesca, terrosa e abbreviata, che a Roma sopravvive nonostante tutto fino al 1640 con l’incredibile decorazione della sala capitolina degli Orazi e Curazi e ancora oltre, fino al ’60, con la pittura di Francesco Allegrini.
E l’insistente anacronismo neocinquecentesco della bottega di Manenti, soprattutto dopo il 1646, dopo il programmatico revival degli affreschi di Capranica, è giustificato poi anche dal sorprendente neoquattrocentismo con il quale Gentileschi aveva dipinto polemicamente nel 1613-1619 le Storie della passione in S.Venanzo a Fabriano.
Quella di Manenti è evidentemente la declinazione quasi vernacolare (la più tarda e la più fragile) di una scrittura che all’origine è consapevolmente, amaramente anacronistica e che ha le sue guglie estreme nello straordinario, lirico dipinto arpinesco della sacrestia di S. Giovanni in Laterano (Cristo tra Giovanni battista e Giovanni evengelista), così magnificamente segnato dalla riscoperta pittura catacombale, e nell’opera di pittori sotterranei e sensibili come Viviani, Lagi, Flaminio e Francesco Allegrini, tutti frammenti incompiuti di una grande, intima pittura tonale che dal Barocci della Vallicella in poi avrebbe potuto perfino contrapporsi alla violenza visiva del Barocco se a Roma avesse avuto un seguito la tenera spiritualità pauperistica di Filippo Neri.
Perfino le ingenue riproduzioni con le quali gli illustratori di Francesco Barberini salvarono la memoria dei resti medioevali romani, con la loro studiata negligenza, rientrano in questa corrente pittorica, in questo percorso in ombra che aspetta ancora di essere definitivamente riconosciuto (3).
Con la declinazione manentiana ci troviamo all’interno della morfogenesi di un linguaggio locale che non è calibrato sulle grandi accentuazioni virtuosistiche del Barocco né sulla perturbante teatralità del naturalismo caravaggesco e tanto meno sulla rigorosa spazialità classicista. C’è un linguaggio che eredita dal mondo figurativo del francescano Sisto V di fine cinquecento la vocazione al sermo humilis, alla stesura di una Bibbia popolare capillarmente diffusa nel tessuto connettivo del territorio. C’è un lungo fregio narrativo privo di enfasi retorica e di spettacolarità che ha la funzione di dare la parola, e la stessa capacità di racconto, ad un territorio in cui le singole opere eccezionali d’importazione (come l’Angelo custode di Sacchi e dello Spadarino) restano sempre comunque cristallizzate e isolate.
A quanto pare in questo Seicento sabino si assiste ancora una volta a quello smottamento stilistico che è possibile osservare a ridosso del giubileo del 1500, quando lo stile anacronistico di Antoniazzo viene abbandonato a Roma per essere riutilizzato nel reatino come corroborante per un linguaggio figurativo locale, quello del Maestro della Madonna della Misericordia, che argina l’espressionismo crivellesco e facilita una solida e duratura tradizione popolare locale (4).
Adesso, se collochiamo le storie borbontine negli anni tra il 1650 e il 1660, nel momento cioè della più intensa diffusione capillare della bottega manentiana, e se ipotizziamo orientativamente che il figlio di Vincenzo, Scipione, potesse avere il compito di coordinare il lavoro di gruppo dei collaboratori, appare giustificabile e interessante la stessa discontinuità qualitativa del ciclo.
A Borbona agiscono i due poli estremi del lessico manentiano, dall’estrema facilità quasi popolaresca (Francesco vende il cavallo) alla più assorta intensità materica (Francesco che mostra le rose agli angeli), e questo conferma l’ipotesi che nella bottega del pittore operassero dei collaboratori specializzati, differenziati qualitativamente tra di loro anche se rigorosamente fedeli ai cartoni del maestro, una parcellizzazione del lavoro che può spiegare l’accavallarsi a volte apparentemente caotico delle opere attribuibili a questa scuola.
In quasi tutte le scene affrescate in S. Anna si fa ricorso esplicitamente alla citazione dal Vescovado di Rieti e dal chiostro di S.Domenico, quindi dagli anni ’30, i primi tempi di Vincenzo, ma in tre lunette è registrata invece e con grande passionalità una più importante, rivelatrice esperienza figurativa: nel Francesco consolato dall’angelo, dove lo spazio scabro e la materia terrosa ospitano, subiscono, la fiammata rossa dell’angelo in arrivo, si rievoca la suggestiva plasticità terragna degli affreschi di Allegrini in S. Marco e in Palazzo Doria Pamphilj (dipinti entro il 1660) e l’angelo ripete ancora una volta, semplificata, la figura del giovane in corsa della Scuola di Atene (già visibile negli affreschi di Capranica) ma nella versione tonale e delicatissima con cui Allegrini lo cita a sua volta in S. Marco (5).
Nella scena del Francesco che riceve in braccio il bambino il bellissimo particolare del saio, pastoso e compendiario, ripete limpidamente quello del Francesco di Carpineto dipinto da Caravaggio nel 1609 e anche qui l’immagine è tradotta nello splendido ductus sabbioso di Allegrini.
L’angelo che irrompe nell’incavo desolato per indicare i troni in cielo conferma la matrice tardocinquecentesca di questa frequentissima, seducente icona manentiana, come documenta anche un disegno di Lombardelli (6).

Un altro lavoro manentiano giaceva invisibile a Borbona, la Madonna Assunta ( ) della chiesa omonima. Un semplice confronto visivo con l’Annunciazione di Trisulti ( ) (7) è più che sufficiente per assegnare il dipinto a Manenti e bottega, eppure l’Assunta era catalogata come opera dell’800. A Posta, nei pressi di Borbona, è della bottega di Manenti il dipinto con la singolare iconografia della Madonna d’Itria (in S. Agostino), come dichiarano esplicitamente i riconoscibili dettagli desunti da altre opere manentiane più note.
Come le tante altre opere della bottega di Ascanio,Vincenzo (e Scipione) Manenti che la recente ricognizione ha portato lentamente alla luce, anche questi dipinti forse erano stati resi invisibili dal sostanziale disinteresse che ancora vige per i percorsi classificati come minori.
2000
Note
1) Chi scrive ha curato l’attribuzione a Vincenzo Manenti e bottega prima con una breve comunicazione (Mondo sabino, 1995, con foto di Carlo Nicolai) e poi con un articolo su RMB, 1996.
(2) G.Guarnieri, Vincenzo Manenti a Borbona, RMB, 1996.
Una ricostruzione integrale del ciclo è stata riproposta con aggiornamenti da Paola Berardi nella sua tesi di laurea dedicata a Vincenzo Manenti: Vincenzo Manenti e la sua attività nel reatino, 1999-2000, Tesi di laurea in storia dell’arte di Roma e del Lazio in età moderna, Università La Sapienza. Di Berardi vedi anche Inediti e ipotesi attributive: aggiunte al catalogo di Vincenzo Manenti, in Atti del Convegno, Orvinio 2003.
Con il gruppo di volontari ‘Amici della Biblioteca comunale di Borbona’ ho realizzato la mostra fotografica del 1995 con la quale sono state presentate pubblicamente l’integrale ricostruzione storica dell’opera e l’attribuzione manentiana.
(3) Cfr. C. Strinati, Roma nell’anno 1600. Studio di pittura. Ricerche di Storia dell’Arte, 1980.
AA.VV. La regola e la fama, San Filippo Neri e l’arte, 1995.
(4) G.Guarnieri, Un Inedito affresco del quattrocento nella chiesa di S.Anna a Borbona, RMB, 1996.
(5) Ho trovato una gratificante conferma dell’interesse di Manenti per Allegrini in Pittori del Seicento a Rieti, 1991, di Liliana Barroero e Lidia Saraca Colonnelli.
(6) Cfr. G. Belardinelli, Bollettino d’arte n.68-69, 1991.
(7) Con I. Del Frate ho suggerito per la datazione dell’Annunciazione di Trisulti gli anni 40-50 al posto del 1664 che appare improbabile alla luce del recente riordino del corpus manentiano (cfr. Il Cavalier Vincenzo Manenti e il suo tempo, a cura di Giorgio Guarnieri e Isabella Del Frate, catalogo della mostra fotografica – Orvinio, Chiesa dei Raccomandati, 8 luglio/15 ottobre 2000)