Abito contemporaneo
L’abito novecentesco e di questo XXI secolo non è quello della Moda, naturalmente, è quello indossato dalla quasi totalità della popolazione mondiale, una divisa quasi sempre grigia e strutturata con una estrema necessità di omologazione (cfr. La moda ).
Qui raccolgo comunque delle riflessioni che riguardano solamente gli abiti che l’industria della Moda impone all’attenzione come forme della creatività.
Dopo tanti anni di osservazioni sulla cd moda contemporanea non posso avere più dubbi, la sua creatività è estremamente ridotta.
Lo stesso giudizio negativo vale anche per le forme fossili svuotate di senso del Design, che ha ceduto tutta la sua energia all’architettura capace ormai di frantumarsi nei dettagli minuti della struttura, e per il Fumetto seriale, che ha perso la sua matrice di necessità dall’800 di Busch. Uno svuotamento radicale che ha coinvolto anche la numismatica contemporanea.
2009
L’abito contemporaneo può essere interpretato adeguatamente indagando la simpatia strutturale che condivide con il design, le arti figurative e l’architettura, e questa sembra essere l’unica possibilità che abbiamo di individuare gli autentici elementi formali delle opere, ignorandone i riferimenti epidermici e illustrativi.
La Moda non ha critici, ha solo fanatici conoscitori e innumerevoli esperti corporativi, come avviene anche per il Fumetto. Quelle della Moda sono forme della creatività che aspettano una lettura critica che nella letteratura specialistica è quasi impossibile trovare.
Mi auguro di aver offerto un contributo utile con La Moda contemporanea nel tunnel dell’entropia (2010) e con La reverie dell’abito (2001-2016), frutto di una lunga riflessione iniziata alcuni decenni fa.
I libri e gli articoli
Un libro grigio e tristemente burocratico, Psicologia del vestire (1972), con testi di Eco, Dorfles e altri, non ha portato nessun beneficio a una lettura critica della moda. Nessuno degli autori sospettava che il fenomeno della moda rientra nell’ambito della creatività e che quindi può e deve essere interpretato non con gli obsoleti strumenti scolastici della sociologia, ma con gli strumenti della critica d’arte.
Negli anni ’80 c’è stato un grande interesse sulla stampa periodica per la Moda, e in quel momento sarebbe stato possibile individuare chiaramente i limiti posti ad una interpretazione critica del fenomeno da un fanatismo ideologico ossessionato da un’inverosimile emancipazione culturale della Moda e incapace di riflettere davvero sul problema dell’esteticità diffusa.
Nel 1983 un’inchiesta pubblicata su Panorama (Moda. Il creatore di abiti è un artista?) raccolse delle dichiarazioni che oggi appaiono sconcertanti. In quel servizio perfino uno storico dell’arte attento e colto come Argan equivocava il rapporto tra Moda e Arte: ‘Non credo che oggi la moda possa inscriversi di diritto nell’universo della cultura’ dichiarava Argan, ‘non c’è nessun rapporto diretto o ideale tra gli stilisti e l’artista’ ( ); la Moda è ‘un fatto economico ( ) con taluni risvolti solo accidentalmente estetici e culturali’. Argan evidentemente non pensava la Moda all’interno della stessa area creativa del Design, e non considerava la naturale continuità storica che la Moda non può non avere con le straordinarie opere d’arte realizzate nel mondo antico come arredo del corpo, quelle documentate magnificamente dai dipinti di Rosso Fiorentino, Pontormo, Goya. Il mediocre livello creativo mostrato dalla moda contemporanea aveva tratto in inganno anche Argan, facendogli dimenticare che è Arte, ovviamente, tutto ciò che rientra con la sua specificità nel campo dell’esteticità diffusa.
L’articolo registrava poi altri pareri di studiosi, con opinioni altrettanto mortificanti e a volte scopertamente ridicole, il curatore dell’articolo d’altra parte aveva aperto l’inchiesta citando l’espressione grottesca usata da Barthes a proposito della Moda:‘significante vestimentario’ (?).
Dorfles dichiarava, al contrario di Argan, e senza ironia, che la Moda e il Design, come unici settori produttivi ‘attivi’ nell’economia italiana, hanno ereditato il ‘genio italico’, quello che ‘in passato ha dato vita ai grandi capolavori’. ‘Dire, dunque, che Armani è un degno pronipote di Tiziano non mi pare un’affermazione blasfema’.
Portoghesi sosteneva che ‘circola più cultura (nel mondo della Moda) che negli apparati asfittici dell’alta cultura tradizionale’(?).
Per il sociologo Alberoni ‘la cultura degli stilisti è forse oggi l’unica che regga i tempi, riallacciandosi al nostro passato più vivo ( ); attraverso l’abbigliamento, il design, la stessa scenografia, gli stilisti italiani hanno ritrovato insomma il linguaggio che fu di Leonardo Da Vinci’.
Enzo Siciliano riteneva invece impraticabile un confronto tra ‘un cappotto e la Cappella Sistina’, e il filosofo Aron dichiarava con ottusa arroganza che ‘la cultura è verità, essere, concetto. Il resto rischia di diventare pura derisione’.
Nel 1985 Achille Bonito Oliva a sua volta commentava così, sull’Europeo, l’ingresso della Moda nei musei: ‘si concede a certa gente l’aggettivo artistico con troppa facilità’ ( ); ‘persone che rubacchiano a destra e a sinistra dalle trasformazioni del gusto ( ) Per certi funzionari portare la Moda nei musei è trasgressivo’.
In quegli anni ’80 i generosi ma deludenti interventi di Quintavalle, l’unico storico dell’arte che in passato si sia posto seriamente il problema della Moda, dimostrano come la critica d’arte (italiana) non abbia mai voluto tentare davvero una rigorosa lettura interdisciplinare di questo spazio della creatività, e la causa di questa difficoltà è sicuramente da cercare nell’ottusa miopia sociologica che ha imposto fino ad oggi le sue mortificanti interpretazioni.
In un saggio su PM (sd, anni ’80), Non è solo questione di Moda, Quintavalle dava spazio agli stereotipi più logori: l’incapacità della critica d’arte di capire la Moda; la contraddizione dell’ingresso della Moda nei musei; l’incompresa moda innovativa dei futuristi; la riscoperta del valore del corpo e del ‘sistema’ dei segni da parte dell’antropologia.
Argomenti ragionevoli, ma sterili: la Moda, come qualunque altra sezione della creatività, è degna di essere indagata, naturalmente, ma nello spirito critico interdisciplinare di Ragghianti.
Quintavalle leggeva invece il fenomeno della Moda con il criterio della sociologia più superficiale, con riferimenti alla creatività del tutto assenti o banali, citando Zurbaran per il ‘piegar grosso dei panni’ di Balenciaga!
Q attribuiva agli stilisti (Armani, Ferrè) un’inverosimile consapevolezza culturale della necessità di recuperare il ‘gran progetto’ delle Avanguardie, come dimostrerebbero le (retoriche e insignificanti) foto di Mapplethorpe poste a corredo dell’articolo, legate ad una mostra del MIT in corso (Architettura intima).
Nel 1982, in un inserto de La Repubblica (‘Perchè li metto in archivio’), Q aveva scritto, credendo generosamente di sostenere il valore culturale della Moda: ‘ritengo che l’arte, in quanto area elitaria e oggi separata, sia un fatto marginale rispetto al sistema della comunicazione’; per poi contraddirsi: ‘Quando un grande stilista inventa citazioni della tradizione delle avanguardie (Mondrian) ( ) inserisce ( ) un elemento aulico’.
In un articolo su Art Dossier, Ma il critico non è di Moda (sd, anni ‘80), Q assumeva con aggressività il ruolo di difensore della Moda contro i critici d’arte ignoranti, la cui funzione ‘modesta e marginale’, sarebbe quella di ‘operare sul ‘mercato’ discutendo ‘sempre di qualità’, mentre la Moda richiederebbe un diverso atteggiamento culturale.
Q auspicava in quell’articolo l’apertura di Musei della Moda e di corsi universitari, senza parlare però di strumenti critici da affinare.
In occasione della deprimente mostra di Fendi alla GNAM del 1985, Q scrisse un fastidioso saggio dedicato alla pelliccia (Il pelo e la pelle. Per una mitologia) saturo di inutili stereotipi.
I numerosi articoli di periodici che accostano con superficialità epidermica la Moda e l’Arte costituiscono oggi un archivio di incredibili banalità:
Nel 1983 una mostra milanese, Warhol e la moda italiana, esalta la presenza di Warhol come testimone degli stilisti italiani; l’ambiente dell’arte viene utilizzato per giustificare una zona dalla creatività che si ritiene troppo fragile.
Vestiti di versi. Un articolo su Panorama del 1983 indica con un eccesso di generosità i riferimenti culturali di Issey Miyake ‘stilista giapponese con l’animo del poeta’: Dadaismo, Pop Art, Arata Isozaki.
Su Panorama (1984) la mediocre Sonia Delaunay viene esaltata senza motivo, con il solo scopo di assicurare arbitrariamente alla Moda un importante passato creativo: l’artista ‘per quasi cent’anni ha influenzato l’arte, il costume, la moda. E continua ancora oggi’.
Nel 1984, in occasione di una mostra fiorentina, Arnaldo Pomodoro commenta il rapporto tra le due forme creative evitando saggiamente inutili banalità, ma la curatrice del servizio su Amica lo introduce con espressioni forzatamente retoriche:‘il diaframma che divide l’una dall’altra si è fatto ( ) impercettibile, a volte addirittura inesistente ( ), La moda si misura con l’arte e non ne esce vinta’.
Un inserto di Domus Moda del 1985, viene introdotto da una confusa riflessione di Restany su ‘Arte come Moda’: Grazie allo spazio ‘Postmoderno’ che si ‘presta alla flessibilità di tutte le scenografie (..) è arrivato il tempo in cui i sogni progettuali dell’artista e dello stilista viaggeranno sulla stessa lunghezza d’onda’ (?). Il linguaggio usato su Domus è quello sterile e vuoto della specializzazione, e non c’é nessun accenno concreto ai rapporto tra Moda e Design.
Il testo comprende un estratto da una tesi di laurea del 1981 (E. Bellotti, facoltà di architettura di Torino): ‘Architetture per il corpo – anche l’abito è un oggetto di progetto’.
Tra le news viene citata la mostra Moda e Arte a Milano, dove tre giovani stilisti presentavano ‘a simboleggiare il legame tra moda e arte’ degli abiti ridicoli mimando goffamente Sonia Delaunay, Hundertwasser e Rothko.
In occasione della mostra di Versace al Victoria & Albert Museum (1985) si legge sull’Europeo (Fra Tiziano e Tintoretto un Versace ci sta bene): ‘La Moda è l’arte di oggi?’. L’articolo riporta l’opinione di Gianni Vattimo, un filosofo sopravvalutato che ha mostrato in più occasioni una radicale incomprensione per l’Arte. Vattimo ripete ottusamente il luogo comune più logoro ereditato da Benjamin: ‘L’Arte non esiste più come fenomeno specifico, soppressa e superata in una generale estetizzazione dell’esistenza’.
La moda oltre la moda, titolava una recensione della mostra sulla Moda al M.I.T. ‘un abito ( ) dunque può essere analizzato e studiato nelle aule universitarie’.
In una intervista a Mandelli (Krizia) su Flash Art (1986) si legge: ‘A volte ti accorgi solo a collezione finita di avere avuto in mente il lavoro di certi artisti, e allora dici: Guarda, sembrano proprio i tagli di Fontana!’.
Su Panorama, nel 2002 (Vestiti fatti a regola d’arte), si parla di ‘cappotti alla maniera di Basquiat’ e di ‘gilet multitasche come Beuys’.
Nel 2008 un articolo su Il Venerdi (La Repubblica) è dedicato all’argomento: ‘la moda si ispira al genio degli artisti ( ) per avere un armadio che vale una visita guidata’.
Sono innumerevoli sulla stampa le puerili citazioni epidermiche dell’Arte: da Klimt a Fontana e Burri (di un abito fatto di frammenti di tessuto si legge che ‘sarebbe piaciuto a Burri’).
Un servizio fotografico (Donna) dedicato a Fontana era titolato Tagli netti.
Gli abiti di Galitzine mostravano in un servizio fotografico un effimero rapporto epidermico con la pittura gestuale più accademica di Hartung.
Pop-moda è il titolo che introduceva dei tessuti stampati riproducenti (le mediocri) opere di Lichtenstein.
I suoi sono tessuti d’arte, era il titolo di un servizio su Lancetti con riferimenti epidermici a Matisse, Dufy, Mirò: ‘Mi sembrava del tutto innaturale separare il mio lavoro dall’arte’.
Coretti illustrava in un articolo su IF&D i suoi tessuti decorati con le forme di Capogrossi: ‘mi sono identificato con lui’.
Quel vestito sembra un graffito (Corriere della Sera, Magazine): abiti decorati banalizzando i già ambigui graffiti spontanei di strada.
Arte? Scolpito sul corpo, ‘ecco l’abito che unisce moda e arte’ (inserto Moda de La Repubblica).
Ma quanta storia per un vestito (Europeo, 1985): abiti decorati con le forme dei rilievi Camuni.
Un articolo più recente (Abiti scultura, La repubblica, 2008) allinea degli abiti attorno ad un disegno di Schlemmer.
In un lungo servizio di Donna, realizzato peraltro con intelligente attenzione alle immagini (Un artista molto speciale), una modella era travestita da Beuys (‘se c’è un artista che avete sempre amato, imitatene lo stile, per essere insieme musa e autore ( ); per dare corpo anche ai desideri inconfessati’).
E anche i tentativi più colti di leggere in sovrimpressione la Moda e l’Arte si arenano nello sforzo viziato di chi vuole associare artificiosamente i due territori invece di cercare la specificità della Moda.
Al colore di vari dipinti sono stati accostati (su Donna) abiti del tutto privi di creatività e di riferimenti concreti alle opere (Licini, Rothko, Dubuffet, Fontana, Twombly, Matisse, Klein, Mirò, Klee). In un servizio si suggerisce degli inverosimili ‘scambi contemporanei’ tra la Moda e le opere di Kiefer, Koons, Bourgeois, Friedman, Muratami.
Su L’altra linea. Mode in essere o in divenire, la ‘destrutturazione’ è esemplificata da abiti (‘forme-design senza costrizioni’) di Rei Kawakubo, in un contesto culturalmente depresso che associava genericamente alla Moda la musica (Jazz e Rock), il cinema (Allen e Bertolucci) e il design (Mendini e Pesce).
Gli stilisti d’avanguardia consacrati come artisti, é il titolo di un inserto de La Repubblica dove si commenta così la Mostra al Victoria & Albert Museum (2001) di Miyake, Kawakubo, Gaultier, Yamamoto: ‘ Il corpo delle donne usato come tela per creare autentiche opere d’arte’.
L’attività creativa di Alexander McQueen, che sarebbe addirittura un Nomade tra le epoche, viene a sua volta eccessivamente enfatizzata sullo stesso inserto Moda de La Repubblica nel 2004: ‘una estetica del contrasto innegabilmente Brit’, con riferimento implicito all’avanguardia delle ultime generazioni di artisti inglesi.
Inevitabilmente, anche nei testi di storia della Moda è assente quasi del tutto la lettura critica:
Nella Storia della Moda di J.A.Black e M. Garland, 1974, il capitolo conclusivo (anni ’70-80) dell’edizione italiana, di C. Ruffinelli, è del tutto privo di osservazioni critiche.
Il bel volume Moda. Il secolo degli stilisti, 1900-1999, di Charlotte Seeling (1999, ed.ital. 2000), raccoglie una splendida documentazione, ma la scelta delle opere da illustrare sembra dettata più dalla notorietà dei personaggi che dalla qualità creativa degli abiti. Le pagine introduttive alle varie sezioni evitano purtroppo una possibile e auspicabile contestualizzazione con gli snodi fondamentali dell’arte.
In Storia della moda del XX secolo, G.Lehnert, Colonia, 2000, è possibile trovare solamente qualche occasionale annotazione critica, come quella relativa all’austerità introversa di Prada.
Ne La Storia dell’Arte, edita da Electa nel 2006 con La Repubblica, il volume conclusivo della serie (il n.19) è stato dedicato ai Nuovi orizzonti creativi: la fotografia, il design, il cinema, la grafica, la Net-Art e la Moda. Poteva essere l’occasione ideale per delineare almeno una prima mappa di confronti corretti tra Moda e Storia dell’Arte, ma non è stato così; redatto con l’insipido linguaggio dei giornali cd femminili, il lungo capitolo sulla Moda, redatto da Beba Marsano, autrice di un altrettanto acritico volume sui manifesti del XX secolo, non sfiora neanche la possibilità di una embrionale lettura critica della Moda. I rari riferimenti all’arte sono ingenuamente fuori luogo: per Antonio Marras sono nominati genericamente Beuys, Kiefer e Boltanski; McQueen è accostato approssimativamente all’arte concettuale; ma per Miuccia Prada, che invece coltiva da sempre un rapporto interessante e significativo, autentico e meno appariscente, con la creatività contemporanea, non c’è nessuna seria riflessione.
2010
Insignificante la mostra romana di Armani nel 2004. Un’importante occasione sprecata, sarebbe stato necessario creare un forte contrappunto con il design e con l’architettura, non con le gigantografie degli attori vestiti Armani.