Televisione e arte popolare
E’ mancata forse nella critica d’arte una riflessione non accademica sulla realtà della Televisione come arte figurativa.
Una riflessione che ci può essere, se vengono ignorati gli ostacoli che hanno impedito finora una lettura non convenzionale di questa tecnica creativa: il contenutismo, che preferisce guardare ossessivamente alla diffusione sociale dell’immagine televisiva, e lo specialismo, che induce ad una sconcertante e fossilizzata familiarità con le straordinarie anomalìe di questo fenomeno linguistico.
L’alternativa all’interpretazione convenzionale e sociologica della Televisione resta ancora oggi la lettura che di questo fenomeno fece nel 1964 McLuhan con Gli strumenti del comunicare; in quel libro si guardava allo scenario complessivo della Televisione con un distacco antropologico che la sociologia ha sempre preferito orientare verso l’esterno, verso le culture non occidentali, ma neanche lì si pensava veramente all’immagine televisiva come a un momento dell’arte figurativa.
Qui si può azzardare l’ipotesi che la Televisione sia la definitiva mutazione novecentesca dell’arte popolare, di quell’arte popolare che fino all’Ottocento ha continuato incessantemente a rielaborare e coniugare le persistenze neolitiche più remote con tutto ciò che gradualmente la cultura egemone ha lasciato cadere in disuso, dagli strumenti musicali ad ancia doppia alla scultura lignea colorata medioevale.
Non cultura di massa, quindi, ma arte popolare, perché nella continua espansione della galassia creativa il posto che occupava l’arte popolare, oggi musealizzata nel folclore o sigillata nel mondo della credenza magica, viene occupato da questa nuova forma figurativa che ne ha ereditato tutte le caratteristiche strutturali.
E come è sempre accaduto nell’arte popolare di tutti i tempi, la Televisione sembra essere stata destinata fin dall’inizio ad accogliere in un uno sconfinato archivio collettivo la sedimentazione di tutto ciò che la cultura egemone ha deciso progressivamente di abbandonare o devitalizzare, come capita anche per la pittura e per la scultura degli artisti non professionisti, per l’Illustrazione e per la Pubblicità, che ereditano rispettivamente gli stili ormai musealizzati della tradizione delle stampe popolari e le abbandonate raffigurazioni allegoriche barocche.
Questa nuova, maestosa forma di arte popolare, archivia tutto ciò che il sistema dell’informazione massiva gli fornisce, e lo fa sigillando ogni cosa nella cripta di una forma incredibilmente fossilizzata dall’ossessiva, sistematica ripetizione.
G.Méliés, fotogramma da un film del 1904
La cellula iniziale di questa mutazione dell’arte popolare del passato, lo scalino formale che dà origine alla Televisione come arte figurativa autonoma, ha un luogo storico: il cinema di Georges Méliés, con le sue sequenze ingenue e bidimensionali, gli effetti ottici sostanzialmente statici, la puerile frontalità antiprospettica, il colore steso direttamente sul fotogramma, le scenografie desunte dal teatro popolare.
Il cinema di Méliès, dal 1896 al 1912, era già predestinato ad un penoso fallimento, perché occupava un posto sbagliato. Era inscritto nel retaggio più autentico dell’arte popolare, quella delle animazioni bidimensionali e degli epidermici effetti ottici, non era il Cinema, quella tecnica figurativa che da Edison a Lumière, in quegli ultimi anni dell’Ottocento, già si preparava a diversificare il suo percorso in due tracciati contraddittori e in due diverse gradazioni di intensità, in una pudica e coraggiosa ricerca poetica che si contrapponeva fin dall’inizio alla più infestante forma narrativa ereditata dal romanzo e dall’opera lirica.
Le sciatte figurazioni di Méliès vengono presto abbandonate dal Cinema delle origini perché come forme dell’arte popolare non potevano evolversi in nessun modo all’interno del mondo creativo del film, ma questa figurazione così tendenzialmente statica era destinata comunque ad un’incontrollabile germinazione altrove, in un contesto completamente diverso.
Nel 1907 Bélin aveva già sperimentato la trasmissione delle immagini, utilizzando una precedente scoperta del 1884, e dal 1927 in poi la Televisione è una nuova forma creativa che cerca il suo spazio. Ancora una volta l’arte popolare si stava alimentando con le spoglie di forme linguistiche messe da parte dalla cultura egemone, e la Televisione come arte figurativa popolare ha iniziato subito a riempire il letto scavato da quel fiume prosciugato del cinema di Méliès.
La Televisione ha trovato in Méliès il suo linguaggio figurativo, una sua scabra semplificazione grafica e spaziale, un ingranaggio ripetitivo che permette di proiettare senza tregua il profilo piatto dei corpi contro uno scenario abbreviato e compresso; un vero e proprio setaccio che ha il compito di diluire ogni evento, ogni descrizione, in un incredibile archivio fossile.
Ed è in questo tessuto figurativo di Méliès che si innestano le tante forme sedimentate dalla deriva dell’arte popolare, come la scenografia contratta della piazza abitata, la calibrazione ritmica e semplificata delle icone replicate in serie, la riconoscibilità immediata e la trasparente esposizione in filigrana dei contenuti, lo scambio verbale rigidamente ritualizzato, l’arcaica frontalità tautologica del corpo.
La Televisione, da allora, ha riutilizzato sistematicamente le forme dell’arte figurativa del passato altrimenti destinate all’estinzione, come le grandi nature morte secentesche e la pittura di genere olandese, trascrivendole meccanicamente in un diverso registro visivo. E può capitare che il busto funerario repubblicano romano sopravviva con il suo casto realismo nell’inquadratura fissa del commentatore di cronaca.
La grafica del Bauhaus ha offerto subito le sue forme più scopertamente didattiche per l’avvio di quella decorazione visiva specificatamente televisiva che sono le sigle d’apertura, intervallo miniato nell’impaginazione continua del fregio televisivo, e questa trasposizione è il segno di una inarrestabile stilizzazione riduttiva che ha caratterizzato tutta la zona di frontiera tra l’arte popolare e l’arte egemone.
C’è poi una formidabile icona antica e duratura che viene inevitabilmente intercettata e riutilizzata da questa rinnovata arte popolare: l’immagine della donna. Senza la costante presenza di questa immagine femminile la Televisione non potrebbe esercitare una seduzione così tenace sull’immaginazione, e non si tratta di una seduzione di carattere esclusivamente sessuale, perché l’utilizzo televisivo dell’immagine femminile è il retaggio di un’aggressiva invenzione figurativa del passato: l’artificio retorico della Sofistica.
Il remoto modello figurativo del continuo allinearsi di figure femminili nella scenografia televisiva è dato dal tempietto dell’Erettèo di Filocle (420-410 ac), dove l’artificio sofista sdoppia l’immagine delle fanciulle in due valori opposti e indiscindibili anche se contraddittori: la leggerezza aerea (organica) del corpo e la solidità architettonica (inorganica) del pilastro.
Ed è proprio con la forza persuasiva della Sofistica che l’arte figurativa occidentale ha dovuto integrare a forza nel suo bagaglio formale l’illusione retorica che impone arbitrariamente di cogliere due realtà contraddittorie e simultanee sovrimpresse in una stessa immagine.
Quella seduzione coercitiva della tecnica sofistica, che Platone aveva così decisamente e inutilmente avversato, porta all’illusionismo (sofistico) della Nike che si allaccia il sandalo (Atene, Museo dell’Acropoli, 410 ac), dove l’abito bagnato della Nike, il movimento del suo corpo, è lo scalino irreversibile che porta alla ripetizione illimitata di un congegno seduttivo che sarà impossibile eludere.
L’immagine femminile nella figurazione televisiva, dislocata e disegnata sempre in un ritmo scenografico da festa popolare e da fregio decorativo, colonizza l’immaginazione di chiunque perché porta nella discontinuità quotidiana dell’esperienza individuale il retaggio antico di un’arcaica seduzione collettiva. Lo sguardo è attirato verso il corpo della donna, ma è abbandonato subito dopo nel limbo della deludente zavorra inerte della ripetizione fossile.
E paradossalmente trovano un posto nelle maglie della Televisione anche delle forme creative che la cultura egemone ha lentamente spinto nell’ombra perché troppo poco addomesticabili, come sono quelle del cinema sperimentale, che vengono però deformate e drasticamente svilite con la mutazione degradante in video musicali, in una declinazione popolare materiata da un’insidiosa, epidermica frenesia percettiva talmente suggestiva, talmente gradevole, da riuscire ad oscurare ulteriormente le più intense pagine liriche di quel raro e dimenticato cinema poetico.
Ma il fenomeno percettivo veramente straordinario che regge l’immagine televisiva è quello della latente trasformazione di innumerevoli immagini in movimento in un unico oggetto visivo tendenzialmente statico, in una vera e propria decorazione ritmica parietale sedimentata giorno per giorno.
Il tempo reale della Televisione, a differenza del tempo cronologico del cinema narrativo mutuato dal romanzo, si accampa con forza nell’immaginazione perché è regolato da una strategia che prevede la ripetizione parossistica di configurazioni inalterabili, disegnate e ibernate una volta per tutte e poi replicate all’infinito.
La ripetizione quotidiana di inquadrature rigorosamente bidimensionali, la quotidiana riproposta pianificata e ossessiva del linguaggio fisico e verbale più ortodosso, la postura del corpo più stilizzata, la plateale messa in scena della gioia collettiva e del cantare in pubblico o della teatrale e rituale commozione nella cronaca nera, tutto porta alla stratificazione di un impressionante fregio ininterrotto, in una decorazione murale statica di immensa e ipnotica fascinazione.
Solo le pareti decorate del 1500 e del 1600 hanno conosciuto un’analoga insistenza tautologica dei temi e una così lucida ripetizione di moduli sempre uguali a sé stessi, e solo la musica da camera del 1700 ha creato un’analoga atmosfera di eterna ripetizione e di familiarità, con un analogo disincantato moto su luogo.
E d’altra parte, l’ostentata ripetizione ritmica delle sequenze pubblicitarie è perfettamente coerente, dal punto di vista figurativo, con la ripetizione ritmica delle immagini di attualità e con la ripetizione ipnotica delle immagini del rituale divertimento collettivo.
Il piacere irresistibile della Televisione nasce evidentemente da questa disponibilità quotidiana alla ripetizione, dalla verifica quotidiana della staticità degli eventi in un misto indissolubile di leggerezza ipnotica e di quella inflessibile rigidezza concettuale che domina la cultura popolare.
Poi ci sono altri remoti modelli strutturali all’origine del fenomeno televisivo.
C’è un dipinto, I coniugi Arnolfini di Jan van Eyck, del 1434 (in alto un dettaglio), che visualizza con la più grande e inequivocabile evidenza il paradigma concettuale che ha costretto fino ad oggi l’arte figurativa a raffigurare ossessivamente l’apparenza concreta delle cose inorganiche nella loro convivenza, nella loro inavvertita collisione, con l’apparenza convenzionale e irreale delle figure viventi organiche.
Questo dipinto di van Eyck è davvero il modello strutturale laico che la Televisione come arte figurativa sembra aver adottato dalla cultura egemone: le due figure, i due corpi viventi e organici, sono inanimati e raggelati, come le figure televisive che vengono riproposte sempre uguali di giorno in giorno e sempre staticamente calibrate come icone inorganiche che sfidano il tempo, mentre gli oggetti inanimati, al contrario, in questo dipinto e nello spazio televisivo, sono catalogati visivamente da una lente eccessivamente acuta che li impone come cieca tautologia, come inventario occasionale e apparentemente ingiustificato del visibile.
Ecco, è qui la specificità dell’immagine televisiva: uno scorrimento in tempo reale di corpi organici e inorganici che la ripetizione trasforma paradossalmente in segni decorativi e statici, in un cumolo massivo depositato nel cratere di un immenso deposito alluvionale.
Oggi è veramente inutile e ipocrita chiedersi ancora se dobbiamo accettare o meno le forme della cultura popolare per inserirle nella Storia dell’arte. L’arte popolare e la Televisione sono modulazioni all’interno dello spazio della creatività come lo sono l’arte infantile e il fumetto, come lo sono l’arte dei pittori non professionisti e la pubblicità, forme che mostrano semplicemente una qualità diversa da quelle di altre zone della creatività (2).
Nell’espansione della galassia creativa, dell’esteticità diffusa, ci sono fenomeni linguistici come la cultura popolare, la stessa cultura egemone e la frangia dissidente dello sperimentalismo poetico, che occupano degli spazi sempre più distanziati tra di loro perché rispondono ad esigenze diverse, perché sono risposte diverse a domande diverse.
L’arte popolare distende orizzontalmente l’archivio inventariale delle forme che sono arbitrariamente ritenute condivisibili da un’intera collettività, mentre la cultura egemone modella accademicamente e scolasticamente sé stessa come istituzione legittimata e dominante, ma è l’isola decentrata e quasi invisibile della ricerca poetica più autentica che ci fornisce incessantemente un antidoto generoso capace di ridimensionare e frenare il violento e infestante proliferare delle altre due forme dominanti della creatività.
Non ha senso chiedersi se l’apparente oscurità della ricerca sperimentale, dell’antidoto all’eccesso dell’informazione, sia decifrabile solo da pochi, perché è vero proprio il contrario: se le grandi forme popolari come la Televisione sono saldamente impiantate sull’impalcatura rigida della tradizione, e se le forme accademiche dell’ufficialità vengono imposte retoricamente da un altrettanto rigido cerimoniale laico, le forme più autentiche e rare della sperimentazione poetica si espongono invece in tutta la loro indifesa vulnerabilità all’affronto dello scetticismo, e la loro autenticità è già tutta in questa disarmata e denudata vulnerabilità.
Per la ricerca poetica più generosa c’è il rischio di essere resa invisibile o peggio ancora svilita dall’imitazione e dalla sostituzione scolastica e la ricerca più autentica si affina nella forgia di questo rischio, la si riconosce perché non sa svolgere altra funzione che non sia una liberatoria e ariosa sospensione dell’obbligo opprimente del racconto. Lontano dalla durezza inflessibile e dallo scetticismo conservatore del mondo popolare e dalla regola accademica della cultura egemone, la si riconosce dal suo porsi generosamente all’esperienza come pura disponibilità.
Nota
La Televisione in passato ha avuto l’opportunità di sviluppare una sua dignitosa letteratura popolare per immagini. Ci sono stati negli anni dei rari esempi di un linguaggio visivo che poteva essere graduato con freschezza e leggerezza in forme specificatamente televisive e lievi, in un ipersensibile bianco e nero, in forme che potevano permettere alla parola di abitare uno spazio non esclusivamente retorico: La trascrizione de L’Idiota di F. Dostoevskij (1959), San Michele aveva un gallo (1971) dei fratelli Taviani, le splendide letture di Ungaretti negli anni ‘60, e perfino alcuni racconti stranieri che nella loro consapevole calibratura televisiva lasciavano spazio a una scrittura più civile e riflessiva di tanto greve cinema narrativo: Ai confini della realtà, Star trek, Colombo.
Ma la Televisione ha scelto senza esitazione la strada già intrapresa dal Cinema narrativo, che ha rinunciato alla straordinaria continuità materica del bianco e nero e alla suggestione della parola poetica.
1997-2002