Il Teatro, autenticità e manierismo
Galatina, 1959. L’autenticità del teatro agisce quando la sua specificità creativa prevale sulla rappresentazione stessa dell’evento plasmando uno spazio scenico irripetibile. Il teatro è autentico quando è la necessità a spingere prepotentemente gli individui ad offrirsi alla collettività come occasione per un evento che vede un Io fragile alla ricerca del suo precario equilibrio, un Io che sospende la sua storia privata per accedere ad un tempo astorico e collettivo, come ha indicato con i suoi studi De Martino.
E come avviene in ogni altro campo della creatività, anche il teatro conosce due strade fondamentali per trovare la sua specificità e la sua autenticità: c’é un sentiero che porta dal dolore intimo, altrimenti indicibile, con l’esasperazione delle forme estetiche della rappresentazione come l’ha sperimentata Euripide, memore dei rituali più crudi murati nel passato del mondo, e poi c’è, in alternativa, la ricerca di un’estrema intensità creativa di indagine linguistica che può essere capace, seppure a fatica e in pochi, rarissimi casi, di slegarsi dai limiti costrittivi della consuetudine tecnica del recitare per approdare ad una condizione di esclusività poetica e di autenticità.
Due percorsi diversi, ma non contrastanti: nell’evento drammatico di Galatina il teatro si nutre dello scarto tra l’umiliante desolazione individuale di chi striscia per terra tra la folla e la coralità emozionata dei presenti che protegge quella vicenda individuale nello spazio estetico della messa in scena, mentre nell’eccezionale lavoro del Living, The Brig del 1963 (quattro anni dopo Galatina e prima dell’irruzione dell’infestante manierismo degli anni ‘60), l’ossessione ripetitiva del movimento trascende sia il racconto che la storia individuale dei singoli per trasmutarsi in uno sconvolgente spazio astorico dove il dolore non può avere altra consolazione che non sia la sua liberatoria, catartica rappresentazione estetica.
Ed è così che il teatro può disegnare, con la sua specificità, una mappa del confine sottile che esiste, altrimenti invisibile, tra il corpo vissuto, lo spazio e gli oggetti inanimati.
Il paradigma del dolore interiore
Nell’evento registrato da Ernesto De Martino nel Salento alla fine degli anni ’50, e descritto poi ne La terra del rimorso (1961), si rivive la persistenza del significato più autentico della tragedia: il dolore dell’individuo è riscattato dalla messa in scena pubblica e la crisi della presenza è risolta nell’orizzonte dell’esserci.
In questa dimensione, chi soffre in pubblico è sottratto alla pena del suo precario tempo storico per rivestirsi di una condivisa esteticità che sposta l’avvenimento dalla cripta della condizione privata alla spianata della drammaturgia collettiva, la sola capace di trasmutare la sofferenza individuale in esperienza condivisa. E De Martino ha osservato un fenomeno di fondamentale importanza: nel mondo della cultura rurale il dolore individuale può anche essere simulato e recitato, perché ciò che conta davvero è la condivisione corale, ed é questo che fa del cerimoniale di Galatina un evento specificatamente teatrale.
In questa prospettiva J. Beuys è stato forse l’unico artista novecentesco che abbia saputo ripercorrere con intensità questo sentiero, non sappiamo quanto consapevolmente. In lui può aver agito un involontario, profondo riverbero di memoria di un mondo, quello rurale, che la cultura egemone ha sempre preferito parzialmente dimenticare o svuotare della sua realtà contraddittoria confinandolo nella meschina riserva etnica del folklore.
Galatina, 1959; a destra, una grottesca versione erotica del rituale
La Zeza, Foto degli anni ‘70
Dal dragaggio del mondo popolare più materiato di arcaicità, come è quello oscuro dei Mamutones, e da quello che preserva nel tempo le forme inquietanti del teatro dionisiaco più antico, come è quello de La Zeza, derivano l’adozione delle maschere, dei travestimenti, delle grandi pupazze, e anche le forme retoriche mutuate dalla processione religiosa, come è il caso delle tediose sfilate salmodianti del Living.
Tutta la cultura teatrale popolare ancora materiata di necessità arcaica è stata brutalmente inurbata e snaturata dall’ambiguo colonialismo della cultura egemone che ne ha imposto l’innesto eclettico in una tradizione pauperistica del corpo di matrice secentesca che a sua volta é stata altrettanto svuotata e snaturata.
Unico antidoto a questa mistificante e insincera, prepotente accademia del negativo, é la parola recitata, strumento di una possibile autenticità ritrovata oggi dalla specificità teatrale.
La forza irresistibile dei modelli
Oltre a questo impudico sfruttamento nella tradizione popolare, il teatro si nutre avidamente anche di modelli che dall’inizio del Novecento ad oggi non hanno mai smesso di sedurre l’ìmmaginazione, come è il caso della scarnificata scenografia di Appia e di Craig.
Ed è il Cinema, inevitabilmente, che ha trasmesso fino ad oggi il comportamento teatrale delle origini novecentesche preservandone la memoria delle matrici strutturali.
La pura presenza nello spazio
Metropolis (1926)
Nella stupefacente sequenza dell’inseguimento nel buio di Metropolis (1926) di F. Lang vibra un assolo plastico del corpo di inaudita intensità drammatica: la luce è violentemente calamitata dal corpo vivente, che a sua volta è ferocemente calamitato dalla parete dalla quale non riesce a distaccarsi; una soluzione di scrittura poetica allo stato puro che trascende non solo il Cinema, ma anche la stessa messa in scena teatrale, rievocando con una energia impressionante la memoria arcaica di una rappresentazione antica che doveva essere duramente arginata dalle scenografie, dalle maschere per amplificare la voce e dai gesti visibili anche a grande distanza.
Il teatro manieristico che è venuto dopo, con la sua estenuante proliferazione, ha tradito questa intensità perché non ha voluto capire che questo momento di verità estrema in Metropolis era (è) una sintesi irripetibile di una lunga ricerca sul corpo che si è estesa nell’arco di migliaia di anni.
Lo straniamento onirico
Germaine Dulac, Le Coquille et le Clergyman, 1928, su testo di A. Artaud
E anche lo straniamento onirico che G. Dulac ha saputo ricreare in quegli stessi anni in Le Coquille et le Clergyman (1928) su testo di Artaud, con la sequenza della corsa allibita a bordo di un campo, costituisce un ipnotico modello strutturale che il teatro successivo ha voluto sfruttare senza capirne e rispettarne l’irripetibilità.
La fascinazione epidermica
Jean Cocteau, Le sang d’un poète 1932
Il tardo surrealismo di Jean Cocteau ha introdotto invece con Le sang d’un poète (1932) la possibilità di costruire il racconto visivo con una serie ininterrotta di suggestioni epidermiche ripetibili all’infinito, giustificando in questo modo il manierismo teatrale più incantatore e destinato tristemente al tunnel dell’entropia.
Il corpo come parola
Jean Genet, Un chant d’amour (1950)
Nel raro, delicatissimo film di Jean Genet, Un chant d’amour (1950), l’elaborazione plastica dell’immagine convince della possibilità che il corpo stesso possa essere parola.
Lo sterile Cinesarge accademico
A. Jarry, Ubu Roi, 1896; Figura da Ulisse Aldrovandi, Monstrorum historia,1642;
C. Philipon, Caricatura di Luigi Filippo di Francia, 1830
Nel teatro novecentesco, le forme ludiche esaltate dalle opere di Jarry hanno stravolto la loro remota origine radicata nel pensiero dei Socratici minori per approdare ad una inerte, scolastica familiarità con le forme più antiche dell’irrisione e della malinconica ironia, ma l’imbarazzante debito contratto da Jarry con la vuota iconografia dell’irrisione denuncia la fragilità strutturale del suo teatro.
Per motivi che oggi possono apparire incomprensibilmente stupidi, il teatro ludico e irrisorio che ha continuato l’opera di Jarry è approdato alla squallida tradizione storica delle buffonerie di corte, del gioco solo apparentemente demistificatorio che la cultura egemone ha sempre alimentato come utile disinnesco di una più autentica e più pericolosa polemica sociale.
Il mito deteriore del presunto Teatro dell’assurdo
E. Ionesco, Le sedie, 1952
Le opere di Ionesco si limitano a ripetere stancamente le più fragili forme Dada: Le sedie vuote del 1952 riemergono nell’opera ben più intensa di Pina Baush e infine nel tardo lavoro (ormai svuotato e retorico) di Ai Weiwei, Bang, (2013).
S. Beckett, Finale di partita, 1957; illustrazione da un mosaico con Diogene nella botte
W.Busch, Diogene e i monelli di Corinto, lastre per lanterna magica,1887
E l’iconografia del teatro di Beckett per Finale di partita (1957) mostra chiaramente il debito contratto dal presunto Teatro dell’assurdo con l’energia autenticamente polemica della cultura cinica del tempo di Diogene che già l’Ottocento aveva sminuito in forme satiriche.
Fragilità del teatro politico
John Gay, The beggars’s opera, 1727
D’altra parte, anche il teatro politico di B. Brecht del 1928, con il suo modello settecentesco, The beggars’s opera (1727) di J. Gay, suggerita all’autore da J. Swift, è ancorato ad una inoffensiva idea scolastica di ironia sociale che il mediocre manierismo attuale rende fastidiosamente pedante.
La memoria fossilizzata. L’equivoco del Teatro povero
J. Grotowski, Le prince Constant, 1965; Disegno di Rubens (1608) del Vecchio pescatore ellenistico del Louvre (a destra).
Lontano da quelle incomprese ed equivocate soluzioni poetiche del cinema dei primi decenni del novecento, la troppo spettacolare messa in scena del corpo ripropone con imbarazzante fissità le icone della figurazione pittorica secentesca che a suo tempo era giustificata anche dal ritrovato pensiero drammaturgico di Seneca.
Il teatro povero di Jerzy Grotowski rievoca impudicamente la figurazione secentesca del dolore, e lo si vede fin troppo chiaramente in opere come Il principe Constant del 1965, con quella tecnica del tableau vivant che condiziona pesantemente anche tutta l’arte di matrice concettuale del tempo.
Scene da Il principe Constant. A destra (in alto), un dipinto secentesco del Ribera, in basso a destra un fotogramma da La stregoneria attraverso i secoli (1922) del danese B. Christensen.
Il corpo tra autenticità e simulazione accademica
F. Murnau, Nosferatu, eine Symhonie des Grauens, 1922
Nel suo affascinante film del 1922, Nosferatu, Murnau ha mostrato con una struggente intensità poetica come si può rappresentare visivamente il rapporto tra un corpo malato e fragile e l’involucro del mondo che lo respinge come estraneo.
In una scena sconvolgente, Nosferatu attraversa la città deserta nella quale ha portato la peste (segno della sua radicale diversità di corpo malato). Il suo corpo febbricitante barcolla incerto sotto il peso della bara piena di topi infetti, poi va goffamente alla deriva in uno spazio inospitale camminando parossisticamente in punta di piedi. Ebbene, una sera, in una proiezione al Filmstudio, negli anni ’70, il pubblico rideva di gusto di fronte a questa spaventosa teatralità del dolore così facilmente equivocabile. Ridevano del dolore degli altri, quello che si sopporta meglio.
Ciò che la modesta e troppo celebrata drammaturgia del corpo in azione del teatro novecentesco ha respinto è questa verità, alla quale è stata preferita la retorica dell’esibizione atletica e sessuale.
E. Barba, Odin Teatret
Il teatro fisico, l’ingenuo e fascinoso spettacolo del corpo eternamente sano, di Grotowski, del Living e di Barba, è la risposta definitiva della catarsi di matrice aristotelica del dolore, non diversamente dalla danza accademica che ha saputo esibire solamente il controllo atletico sul baricentro.
Chi ha avuto occasione, per sua sfortuna, di osservare le intollerabili, spasmodiche e incessanti acrobazie sulle corde sospese sul letto di una malata in un istituto neurologico, può trovare davvero inaccettabile e tediosa la messa in scena del corpo atletico imposta dal teatro novecentesco.
L’alternativa della creatività
Kenneth Brown, The Brig, regia di J.Malina, scene di J.Beck, Living Theatre, 1963, filmato da J. Mekas
In The Brig (1963, filmato da J. Mekas) il Living Theatre ha saldato con un evento irripetibile le due possibilità creative del teatro: la rappresentazione collettiva del dolore e l’estrema intensità dell’indagine strutturale sulla sua specificità.
Lo spazio frenetico che vibra all’interno della gabbia metallica che imprigiona i corpi in un tragico, inarrestabile movimento animale, fissa indelebile nella percezione individuale l’esistenza di una materia vivente che non può destarsi neanche per un attimo dall’incubo della sua presenza nel mondo. Un nodo inestricabile, materiato di pura specificità teatrale, che è stato poi sciolto e disperso dal prevalere contenutistico e rituale della successiva attività del Living.
Memé Perlini, Otello: chi?,1974
Più tardi, l’emozionante teatro di Memè Perlini degli anni ’70 ha portato la simbiosi tra parola, gesto e oggetti ad un livello inedito, con una scrittura in versi depurata dal manierismo del primo Novecento sperimentale. Opere irripetibili e affascinanti, oggi forse troppo dimenticate.
Dilatare lo spazio
Ronconi, Utopia (da Aristofane), 1976, Ex cantieri della Giudecca, Venezia
E poi un percorso liberatorio, svincolato dalla densità del perturbante, è quello che ha portato Luca Ronconi a realizzare con grande sensibilità le sue opere più interessanti, dove lo spazio si dilata nella dimensione mutuata dalla tragedia antica con una efficacia che gli Happening dal 1959 in poi non hanno mai trovato.
Se il perturbante teatrale è giustificato, con Euripide, dal pensiero ossessivo del dolore inguaribile, lo spazio liberatorio rievoca invece il respiro conciliatore di Sofocle, ed é un sentiero analogo a quello segnato dalla letteratura, dove il perturbante di Dostoevkij arriva ai Quaderni di Malte di Rilke prima che la scrittura, con Proust e Joyce, approdi alla liberatoria estensione di uno scenario sconfinato.
D’altra parte, è significativo che Utopia (1976) di Ronconi sia così prossima, non in superficie, ma strutturalmente, alle installazioni di Beuys di quegli stessi anni e appunto alle realizzazioni più acute di Memé Perlini e Antonello Aglioti che prevedevano a volte un analogo sconfinamento spaziale.
Nel 1978 Ronconi realizza Le Baccanti di Euripide con una sola attrice che attraversa gli spazi vuoti dell’Istituto Magnolfi di Prato seguita da ventiquattro spettatori, e le foto che restano di quell’evento mostrano una magnifica, struggente poeticità che dispiace non aver vissuto di persona.
Poi nel 2002 Ronconi è tornato per un’ultima volta allo spazio dilatato con Infinities, una dimensione però ormai troppo vincolata dalle stanche installazioni site-specific tardo concettuali.
Rarità del teatro scritto in versi
Il film Via Castellana Bandiera (2013) di Emma Dante, realizzato con la collaborazione di Giorgio Vasta per la sceneggiatura, è soprattutto splendido teatro scritto in versi dove lo spazio scenico si consolida e implode nell’intercapedine di tempo occlusa dalle due macchine ferme, che sono le parti simmetriche di un solo oscuro, amaro esoscheletro all’interno del quale si può solamente chiudere gli occhi e smettere di vivere consumando ciò che resta del respiro. E la lunga, interminabile corsa finale verso un baratro invisibile (alle spalle di chi osserva) è specificatamente teatrale.
I limiti e le contraddizioni della sperimentazione teatrale nel XXI secolo
La rivalsa della retorica
R. Castelluci, Inferno, 2009, Avignone; Fomontaggio di John Heartfield
Il teatro di Romeo Castellucci e della sua compagnia, nominata arrogantemente Societas Raffaello Sanzio per alludere evidentemente ad un rinnovato, presunto nuovo Rinascimento, corrisponde al lavoro di forzato monumentalismo accademico già svolto nella danza da Bejart.
I riferimenti iconici nell’Inferno (2009) sono statici e retorici, didascalici, pensati come immagini fossilizzate e non come evento teatrale.
R. Castellucci, Inferno, 2009, Avignone
Una vuota e risibile suggestione di realtà è ricreata con soluzioni sceniche incredibilmente banali, come è il caso dell’innocuo assalto dei cani, sulla scena, ad un istruttore opportunamente protetto dalle sue bardature, e come il pianoforte in fiamme mutuato ingenuamente dalle invenzioni tardo concettuali meno interessanti.
Un acuto critico della contemporaneità, Paul Virilio, ha biasimato proprio il teatro spettacolare di Castellucci come esempio di irrazionale e infestante, ormai insopportabile predominio dell’immagine nell’estetica contemporanea (L’arte dell’accecamento, 2005, It. 2007).
La stilizzazione scolastica
Accademia degli artefatti, Io Calibano, 2014
L’inarrestabile deriva manieristica dell’arte post concettuale dell’inizio del XXI secolo ha investito anche il teatro: la scenografia di Io Calibano (2014) dell’Accademia degli artefatti rispecchia puntualmente l’artificiosa e inoffensiva percezione del caos cara ad una parte degli artisti tardo concettuali.
Fragilità del gusto postmoderno
Teatro Valdoca di Cesena, Lo spazio della quiete, 2010
Cesare Ronconi, Ora non hai più paura,2013
Il gruppo Teatro Valdoca di Cesena rispecchia acriticamente le atmosfere del gusto postmoderno con la sua ripresa,nel 2010, de Lo spazio della quiete.
C. Ronconi, con il Teatro Valdoca, capta il polimaterismo espanso tardo concettuale.
Tecnologia e teatro
Claudia Sorace, Muta imago, Pictures from Gihan,2014
La Muta imago diretta da C. Sorace introduce la tecnologia nel suo Pictures from Gihan del 2014 dando continuità ad una ormai troppo lunga e stanca tradizione di multimedialità e di video art.
Una nuova Accademia del corpo
Motus, The plot is the devolution, 2013
La compagnia Motus contribuisce alla formazione di una rinnovata accademia del corpo con esplicite citazioni da The Brig (The plot is the devolution, 2013).
Ricci Forte, Grimmless, 2013; a destra: The Brig,1963
Ed anche il gruppo di Ricci Forte cita esplicitamente The Brig come testo normativo.
Ricci Forte, Imitation of death, 2013
Ricci Forte, Matricule (Hommage à Jean Genet), 2014
Con Imitation of death (2013) e Matricule (2014) la compagnia Ricci Forte continua il processo di estensione manieristica del corpo come fascinosa ma svuotata scolastica teatrale.
I limiti del Neorealismo
Paolo e Vittorio Taviani, Cesare deve morire, 2012
Il bel film di Paolo e Vittorio Taviani, Cesare deve morire (2012), realizzato con i detenuti di Rebibbia diretti da Fabio Cavalli, rinnova la scabra bellezza del neorealismo di Rossellini e la recitazione non professionale, ma questo saggio dosaggio linguistico non basta per indicare uno sviluppo futuro del teatro.
La continuità del teatro di parola nel tempo storico della neofigurazione
Antonio Latella Francamente me ne infischio, 2014; a destra, l’edizione televisiva (1968) di Casa di bambola di Henrik Ibsen, con Giulia Lazzarini.
Antonio Latella segna con il suo lavoro la modesta ripresa di un teatro di parola che guarda ironicamente alla cultura televisiva.
La specificità teatrale nel XXI secolo. Jon Fosse
Jon Fosse, Sogno d’autunno (1998) regia di A. Machìa, 2010
Con il norvegese Jon Fosse e pochi altri, nell’epoca dell’esaurirsi delle avanguardie teatrali (per Fosse i personaggi sono ‘voci e non corpi’) torna forse un (modesto) teatro di parola che è coerente, d’altra parte, con la (modesta) ripresa della pittura figurativa e con il rinnovarsi, invece assai più vigoroso, di una grande narrativa intensiva.
E anche qui lo spazio dell’esteticità diffusa sostituisce, almeno per ora, il protagonismo novecentesco della troppo sfruttata e ormai logora ricerca sperimentale.
12. 2015