Gli strumenti della creatività

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Gli strumenti della creatività

Tutto ciò che vive nell’esteticità diffusa coesiste in un tessuto connettivo che ha la forma dell’orchestrazione, perché niente quanto la forma della musica mostra in filigrana la struttura d’insieme che costringe i singoli elementi a dialogare con gli altri in una incessante modulazione. Ed è all’interno di questa orchestrazione che ogni opera d’arte, ogni testo poetico, matura la propria specificità e la propria autenticità.
E’ per questo che le singole opere non possono essere interpretate separatamente l’una dall’altra: anche quando sono isolate e decontestualizzate possono essere decifrate come parte di una orchestrazione più ampia, perché la struttura stessa dell’opera, se interpretata correttamente, rivela il posto che questa occupa in uno scenario più vasto

Questa sezione è estesa a tutte le zone della creatività della quale ridisegna una mappa orientativa, una pesca a strascico che permette di ricomporre un insieme altrimenti disperso nella grigia periferia delle storie specialistiche. La sequenza progressiva degli argomenti, dove il fumetto sembra avere provocatoriamente la precedenza sulla scultura o sul cinema, non vuole essere inutilmente paradossale; questo tracciato, che si dirama dall’interiorità individuale alla periferia estrema del corpo vissuto, non è motivato solamente dalla qualità delle singole opere, ma da un scelta che ne privilegia la specificità. La qualità, l’autenticità, emergono comunque come guglie in un paesaggio, e disegnano il panorama di un privatissimo museo interdisciplinare.

Abitare l’interiorità
Poesia

Stéphane Mallarmè in una foto di Nadar; Manet, Ritratto di Mallarmé,1876

Il ruolo della poesia: educare ad un comportamento intuitivo, essere il consapevole anello debole dell’ininterrotta catena della comunicazione e un antidoto all’eccesso di informazione. Ed essere a volte anche il portatore di spore del pensiero filosofico alle arti figurative. La poesia permette di tollerare gli stereotipi che infestano, anche se contrastati, la quasi totalità del mondo creativo. I suoi limiti: il manierismo e l’adozione inconsapevole di forme già sperimentate da altri, che illudono anche gli autori più attenti sulla durata nel tempo del loro lavoro, perchè la poesia autentica è rara anche all’interno del corpus poetico dei poeti più intensi e respira in profondità se agisce in essa l’intuizione radicale e sofferta, urgente, necessaria, della precarietà della presenza.

Con il suo Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897) Stéphane Mallarmè (1898) ha trovato una rarissima osmosi tra la concretezza fisica della parola, come autonomo segno creativo, e la lievità indifesa della pagina che ospita la parola come turbata e assorta riflessione sperimentata nel momento precario del suo farsi.

Stéphane Mallarmé, Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897, pubblicata integralmente nel 1914);
Josephus Scottus, Carme, IX sec.; C. Dogson (Lewis Carroll), la ‘coda del topo’ nel manoscritto (1864) per Alice in wonderland (1865)

La forma grafica di Un colpo di dadi deriva evidentemente dalla sovrimpressione di ricordi diversi: dalla severa ieraticità epigrafica dei carmi altomedioevali, come quello di Josephus Scottus, alla sperimentazione ludica di Lewis Carroll per Alice (1864) e agli spartiti della musica buddista, che il poeta probabilmente ha visto, dove si concretizza un’affascinante visualizzazione delle variazioni melismatiche subìte dalla parola cantata.

Un colpo di dadi; Partitura dal Shomyo Yojinshu, Giappone,1233

Nessuna invenzione inedita, quindi, e nessuna anticipazione delle squallide derivazioni accademiche successive, da Apollinaire e dai futuristi alle tetraggini della poesia concreta, invecchiata così precocemente e così malamente rispetto a questa poesia di Mallarmé che conserva invece ancora intatta la sua straordinaria freschezza.
Mallarmé ha lasciato emergere un composito retaggio di memoria visiva per unificare in una osmosi irresistibile la lettura della parola e la percezione visiva della sua nuda materialità, ed è significativo che la prima edizione corretta di Un colpo di dadi (1914) coincida con l’inizio della pubblicazione del ciclo di romanzi Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (1909-1922, edizioni dal 1913 al 1927) materiato così profondamente dalla stessa intensa necessità di saldare la parola alla percezione visiva.
Lo scenario liquido di Un colpo di dadi è contrassegnato da innumerevoli segnali visivi che aprono, accanto all’impositiva rigidezza epigrafica del monito (mai abolirà), gli spazi improvvisi di una visualizzazione naturalistica che è fin troppo facile ricondurre gli sfuggenti lacerti descrittivi di Monet e alla freschezza immaginativa di Debussy:
(Sia che) l’abisso / imbiancato / calmo / furente ( ) molto all’interno riassuma / l’ombra fuggitiva nel profondo con quella vela / alternativa / fino ad adattare / all’alberatura / la sua spalancata profondità come lo scafo / d’un bastimento / chino sull’uno o l’altro fianco /
( ) resa morbida dall’onda e sottratta / alle dure ossa perdute fra gli assi ( )
Una insinuazione / semplice / al silenzio ( ) volteggia / intorno al baratro / senza coprirlo ( ) e ne culla il vergine indizio ( ) in questi paraggi / del vago / in cui ogni realtà si dissolve ( ) piuma solitaria sperduta / salvo che non la incontri e la sfiori ( ) quel biancore rigido / derisorio / in opposizione al cielo

E in aperta collisione con questi frammenti descrittivi emergono con struggente intensità anche i luoghi di una perturbante riflessione intima che Mallarmè attinge esplicitamente dall’amarezza trasognata di Baudelaire e dall’energia liberatoria di Rimbaud, ma forse soprattutto dalle forme visionarie di Gerard Labrunie (G. De Nerval, 1855):
Destino immoto, muta sentinella / fredda necessità / Caso che andando / fra i mondi morti sotto le nevi eterne / raggeli l’universo che a poco a poco si sbianca ( ) L’universo stordito oscillava sui cardini (Chimere, 1854).

Quand’anche tratto / ( ) dal fondo d’un naufragio /
( ) plani disperatamente / d’ala / la sua / prima / ricaduta da un male di spiccare il volo /
( ) fuor d’antichi calcoli / dove la manovra con l’età fu dimenticata ( ) come si minaccia un destino ( ) per gettarlo / nella tempesta / unificarne la divisione ( ) per mezzo del braccio / separato dal secreto che detiene ( ) naufragio questo / diretto dell’uomo / senza nave ( ) al di là dell’inutile testa / retaggio nella sparizione /
( ) velo d’illusione riapparso loro assillo / come il fantasma d’un gesto ( ) nel velluto spiegazzato da una risata cupa ( ) una elevazione ordinaria rivela l’assenza ( ) come per disperdere l’atto / vuoto ( ) ogni pensiero trae un colpo di dadi

Forse la realtà di Un colpo di dadi è in questa sovrimpressione di segnali contrastanti che attirano la macchina percettiva in uno scandaglio senza fine, dove il visibile e il concettuale, la memoria visiva e la memoria profonda, si sedimentano fino a plasmare un oggetto poetico di irripetibile fascinazione dove viene momentaneamente sospesa la distinzione tra le diverse forme della creatività.

Musica

Anton Webern

La musica, un modello strutturale in continua mutazione che permette di leggere in profondità, dall’interno della loro stessa struttura, tutte le altre forme dell’esteticità diffusa. Non c’è un prima e un dopo nella musica più autentica, ci sono torsi incompiuti che solo un tempo dilazionato della percezione può decifrare, luoghi che possono essere continuamente rivisitati per educare se stessi ad una esplorazione sempre più acuta delle forme.

Con la sua fragile scrittura aforistica la musica di Anton Webern (1945) denuncia una straordinaria consapevolezza dell’osmosi che da sempre salda in profondità lo spazio musicale alle altre forme creative, soprattutto all’architettura. E nessuno più di Webern, negli anni della Fenomenologia di Husserl, ha pensato con la stessa intensità al suono come segmento puro di un congegno creativo che si forma nell’istante stesso in cui viene usato per sondare il silenzio del mondo.

Adolf Loos: Casa Tzara,1926, Parigi; Villa Muller,1930, Praga

Le opere più disincarnate di Webern, come le Sei bagatelle op.9 (1913) e i Tre piccoli pezzi per violoncello e pianoforte (1914), mostrano un’affascinante simpatia strutturale con l’architettura di Adolf Loos (1933).
La purezza dello spazio musicale, così poeticamente rarefatto, di queste opere innestate come luoghi in un tempo fisico che ha la durata di pochi minuti, è quella dei volumi della Casa Steiner (Vienna, 1910), l’ariosa articolazione interna è quella del raumplan, sperimentato da Loos nelle case Tzara di Parigi (1926) e Muller di Praga (1930), dove il volume è ‘snodato nelle cavità’ (B. Zevi). Sappiamo che Webern, come il suo maestro Schonberg, cercava la dislocazione del suono in un telaio che impedisse la priorità di una tonalità sull’altra; Loos cercava uno spazio disarticolato in piani liberi dallo schema architettonico dei volumi sovrapposti gerarchicamente, il raumplan.
Chi ha pensato, per Webern, alla pittura di Klee o di Mondrian, ha privilegiato l’epidermica suggestione visiva della smaterializzazione, ma la qualità profonda di questa musica è invece nell’estrema concretezza materiale di un suono (di uno spazio) che può denotare solo se stesso, come avviene nelle opere di Loos, che aboliscono ogni decorazione superflua per esistere come pura progettazione. Se Loos ha guardato all’articolazione funzionale della casa medioevale, all’elenco delle funzioni, Webern ha studiato con grande rispetto e umiltà la musica del Trecento francese, soprattutto quella di Guillaume de Machaut (1377), autore dell’impressionante Hoquetus David per soli strumenti, e ha pensato sicuramente a quella stanza vuota che Malher ha scavato nella sua Settima sinfonia (1905) con il secondo Notturno, un intenso e inatteso brano strumentale per mandolino, chitarra e violino.
E oggi è davvero triste pensare a come tanti musicisti, anche colti e sensibili come Pierre Boulez, abbiano potuto saccheggiare senza pudore, dagli anni ’50 in poi, il lascito di Webern, abbandonandosi alla tentazione colpevole di estendere nel più banale tempo fisico una lirica contrazione del suono che esisteva invece (che esiste) come stupefacente e imploso luogo da abitare.

Narrativa

Rainer Maria Rilke

Il senso del racconto letterario: essere un modello che permette di calibrare la presenza nel mondo indossando l’abito concettuale di altri. La narrativa in prosa permette a chiunque di sperimentare le avventure e le sfide del comportamento individuale senza doverne soffrire le conseguenze; lo scrittore cede agli altri il frutto della propria esperienza, che è spesso dolorosa perché è il dolore intimo che costringe a scrivere per aggirare gli scogli dell’incomprensione, e ottiene in cambio che quella sofferenza, che la sua sofferenza, sia smaterializzata e diluita nell’esperienza che gli altri ne possono fare attraverso la scrittura.

R.M. Rilke (1926) ha scritto I Quaderni di Malte Lauridis Brigge tra il 1904 e il 1910, negli anni più intensi del Novecento, in quello stretto corridoio che porta dall’esperienza della più acre sofferenza individuale, di Rimbaud, di Nietzsche, di Van Gogh, a quella conciliante condivisione collettiva del dolore che viene resa possibile dalla formalizzazione scolastica dei cenacoli intellettuali che la cultura egemone, nonostante le apparenze contrarie, ha sempre favorito e alimentato come asettico tavolo anatomico con il quale isolare e neutralizzare l’acido corrosivo del tormento individuale.
Rilke è uno scrittore in versi, ma qui, nei Quaderni, scrive in prosa. La sua nervosa, ipersensibile attenzione per il mondo interiore è consapevolmente arginata e confinata nella forma del racconto perchè l’autore sembra aver intuito che per materializzare pienamente la sua divorante necessità di potenziamento parossistico della percezione del mondo invisibile deve rinunciare alla libertà visionaria della poesia e costringere i suoi nervi a stridere dolorosamente nella pagina anossica della narrazione in prosa, in uno sdoppiarsi dell’Io che è stato individuato dagli studiosi di Rilke nelle pagine di un filosofo che lo scrittore conosceva molto bene, Soren Kierkegaard:

Al di là del mondo nel quale viviamo, in uno sfondo remoto, esiste ancora un altro mondo, che rispetto al primo sta nell’identico rapporto in cui la scena che talvolta vediamo a teatro si trova rispetto alla scena reale
(Diario di un seduttore, in Aut Aut, 1843).

Questo scrittore ha trovato evidentemente in Kierkegaard la giustificazione concettuale per la creazione di uno spazio letterario nel quale domina incontrastato il perturbante, negli anni in cui Proust e Joyce stavano cominciando invece a lavorare ad una vasta bonifica che ha sostituito gradualmente la morbosità visionaria con lo spazio aperto della trasparenza della memoria e con la piena visibilità della struttura stessa della scrittura.

Nei Quaderni Rilke esaspera la suggestione del perturbante guardando il mondo delle cose usuali come se lo vedesse per la prima volta, diversamente dall’altro attento lettore di Kierkegaard, Franz Kafka (1924), che nel suo La metamorfosi (1915) guarda gli eventi più sconvolgenti con la più lucida e disarmante normalità.
Queste due diverse declinazioni del perturbante (il saggio di Freud è del 1919) segnano il luogo di quella che poteva essere la specificità della narrativa novecentesca: una mappatura dell’emozione che mostra la sinopia del dolore individuale sotto l’affresco strappato del racconto destinato alla lettura collettiva (e qui è forse superfluo annotare che le opere di Proust e di Joyce non possono essere relegate nella specificità pura della narrativa dato che il loro respiro si estende prepotentemente oltre, nel territorio straordinario e vitale del pensiero poetante).

A. Rodin, disegno acquarellato; A. Rodin,Gesso per il monumento a Balzac,1898,Parigi

‘Io imparo a vedere. Si, comincio ( ) Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano’.
( ) la sua voce non si rivolgeva a nessuno ( ) intorno ad essa il silenzio sembrava avere una propria risonanza vuota, uguale ad ogni sillaba.
Non mi sono ancora abituato affatto a stare in questo mondo ( ) Cosa sarebbe di me in un altro?
( ) dopo un di tempo riuscii a capire cosa c’era a destra. Era una massa enorme, immobile, che aveva un volto e una grande mano, pesante, inerte. Il lato del volto che io vedevo era vuoto, senza lineamentì e senza ricordi ( ) La mano era stata posata da altri su quei pantaloni, là dove giaceva ( )
( ) e allora, quando là dentro si udì il balbettìo caldo e spugnoso: allora per la prima volta dopo molti, molti anni, ci fu di nuovo ( ) la Grande Cosa ( ) adesso cresceva da me come ( ) una seconda testa ( ) C’era, come un grosso animale morto che una volta, quando ancora viveva, era stato la mia mano o il mio braccio
L’esistenza del terribile in ogni particella dell’aria. Lo respiri con la trasparenza; in te si deposita, diviene duro, acquista tra le viscere forme puntute ( )
Guàrdati dalla luce che fa più cavo lo spazio, non volgere gli occhi intorno ( )

La scelta anacronistica di Rilke ha un legame profondo con la sua fondamentale educazione estetica presso Auguste Rodin, che lo scrittore ha frequentato molto a Parigi dal 1902, ed è forse dalle opere più intense dello scultore che deriva la forma eternamente incompiuta e scabrosa dei Quaderni.
Il perturbante Balzac del 1898 fu respinto dai committenti. Nel Salon di quell’anno il gesso di Rodin fu definito ‘un rospo in un sacco’ e ‘ una statua ancora imballata’, due definizioni inquietanti che si addicono perfettamente anche ai Quaderni di Malte.
Sappiamo che Rilke temeva sinceramente di comunicare con i Quaderni una devastante ‘impossibilità di vivere’, e sappiamo della volontà di Kafka di impedire con la distruzione la lettura postuma di ciò che aveva scritto.
Ebbene, è proprio qui il segno dell’autenticità della loro opera, nella fragilità epidermica di una scrittura che vive della necessità contraddittoria e penosa di esportare il dolore individuale.

Nella retina
Disegno

Stefano da Verona (S. da Zevio,1374-1438 c.), disegni,1430 c, Londra, British Museum

Il disegno non precede la pittura, la scultura, l’architettura, il raro disegno autentico, non descrittivo, non è mai un disegno preparatorio, è il momento di una riflessione profonda sulle possibilità di una creatività più radicale.

Con i suoi intensi disegni dei primi decenni del Quattrocento Stefano da Zevio contraddice apertamente la percezione confusa che molti hanno ancora di quella preziosa intercapedine stilistica che è stata denominata del tutto inadeguatamente tardogotico. Il tracciato instabile della sua grafia fa deragliare la descrizione naturalistica e soprattutto esautora radicalmente la vocazione del disegno alla leggerezza e alla lievità conciliante del gusto gotico.
Questo autore affascinante sembra essersi rifugiato nella purezza di un disegno eternamente sciatto e slegato, magnificamente indifferente al racconto, per sfuggire all’amabile facilità illustrativa del suo tempo.
E ci sono dei pittori, nel Quattrocento italiano, che sembrano aver provato a volte questo stesso disagio, sperimentando in disegni di grande incisività ciò che forse per loro non era possibile realizzare in pittura: Parri Spinelli (1453), Marco Zoppo (1478), lo stesso Filippino Lippi (1504).

Pittura

Francesco Guardi, Rio dei Mendicanti, 1785

La pittura è prima di tutto macchina retinica. Si allontana con la sua autenticità dal contenuto, che è davvero irrilevante se può essere descritto negli stessi termini con un qualunque altro mezzo, per tornare verso la retina, verso lo smarrimento di una svista, verso il fertile errore della percezione, sempre nell’irresistibile ricerca di una visione consapevolmente parziale del mondo.

Il Rio dei Mendicanti (1785) di Francesco Guardi non è l’opera più sperimentale di questo lirico ricercatore di forme, però incarna la piena specificità della pittura. C’è in questo dipinto una delicatissima membrana che vive solo nella retina, e ogni dettaglio del mondo esterno è declinato in una superficie appena increspata dalla registrazione ipersensibile del movimento.

Miniatura

Maestro di Ebo, Evangelisti, 835 circa, Evangeliario dell’arcivescovo Ebo (o Ebbone),Epernay

La miniatura è pittura destinata alla percezione limitata di un solo individuo, ma è anche a volte lettura pubblica, come negli Exultet, sempre però come fragile pittura effimera e in movimento. E’ fonte di grande libertà immaginativa nei suoi rari episodi di più forte creatività, come nelle straordinarie immagini alto medioevali dei libri carolingi.

La straordinaria freschezza dell’Evangelista, dipinto su pergamena dal Maestro di Ebo nel 835c, è stata segregata consapevolmente nella dimensione del libro affinché potesse sopravvivere, preservando dall’entropia e dalla ripetizione degradante un’invenzione poetica di estrema purezza. Questo pittore geniale si è sentito libero di modellare le sue immagini frenetiche con un segno convulso e irrefrenabile che ha desunto sicuramente dalle impressionanti miniature tardo antiche, come quella del magnifico Foglio purpureo di Xanten, del sec. VI, già inserito infatti in un codice carolingio, e nella forma compendiaria di quel modello straordinario il Maestro di Ebo ha innestato lo spasma di un disegno accelerato fino ai limiti della cancellazione.

Incisione

Giulio Bonasone, Nettuno e Amymone,1546, bulino

L’incisione, come l’argento, attira con la sua luce inerte la materia plastica in un’implosione fredda, trainando le forme nel fondo di uno spazio gelido che ne sclerotizza crudelmente il segno. Da qui la sua stupefacente, inquietante fascinazione.

Nell’incisione di Giulio Bonasone Nettuno e Amymone, del 1546, il disegno è rigidamente incastonato in un piano bidimensionale che impedisce ogni aggetto volumentrico e ogni movimento all’interno di uno spazio prosciugato e inerte. Questa incisione conserva intatta tutta l’opaca energia invasiva e frenata che è stata esercitata in precedenza sulla lastra di metallo della matrice, ed è per questo che la pagina di Bonasone, come quelle di Giorgio Ghisi, si accampa nella pienezza della specificità di questa tecnica creativa più delle opere, assai più emozionanti, di Mazzola il Parmigianino, di Stafano Della Bella e di Piranesi, che si strappano con la loro forza irresistibile dalla specificità dell’incisione per vivere in una autonoma dimensione poetica che non può essere confinata in una singola tipologia.

Jacopo Nizzola da Trezzo, Isabella Capua Gonzaga (+1559), medaglia

Le opere di quegli autori, come quelle di Seghers, ci trascinano a forza nell’emozione irripetibile e liberatoria della sperimentazione allo stato puro, mentre l’incisione di Bonasone, al contrario, insinua quasi dolorosamente lo stesso soffocante spazio privo di ossigeno che in quegli anni si contrae nelle medaglie più severe di Jacopo Nizzola da Trezzo (1589).

Fotografia

Henry Fox Talbot, Eliografia,1840 c.; J. Turner, Venezia, acquarello,1840

Come sviluppo naturale dell’incisione, la fotografia raccoglie e sigilla un dettaglio retinico effimero in un mosaico tonale di grigi; frena l’impatto dello sguardo sulle cose per fissarne un solo momento altrimenti irrappresentabile, dove l’illusione del reale e la consapevolezza del tempo sigillato arbitrariamente si saldano in una fascinazione che è spesso di troppo grande e insidiosa seduzione. E la specificità della fotografia non è nella lucida messa a fuoco meccanica, nella visione lenticolare che riguarda esclusivamente il percorso che inizia dal vedutismo illuminista e arriva a Daguerre, ma in un estremo, poetico e perturbante assottigliarsi retinico che si è nutrito, fin dall’inizio, della più sottile tradizione pittorica con Niepce e Talbot.

La delicata eliografia di Henry Talbot del 1840 è un esempio dell’antidoto poetico che il ricercatore inglese ha contrapposto all’infestante, ossesso naturalismo prosastico introdotto da Daguerre nel 1839 dopo la scomparsa del principe dell’esilio della fotografia, Joseph Nicephore Niepce (1765-1833), che nel 1826 aveva ottenuto la sua prima immagine fissa in una forma densa e sintetica giustificata a distanza dalla contemporanea pittura di Corot.

Gli studiosi della Fotografia negano spesso con arroganza e con ottusa insistenza il rapporto di osmosi che ha sempre legato questa tecnica creativa alla pittura e all’incisione, eppure la specificità della fotografia consiste proprio nell’isolare un dettaglio del mondo in movimento che poi non verrà mai più restituito alla continuità fluida del reale, e questa necessità non avrebbe luogo senza una pittura che proprio nei primi decenni dell’Ottocento, con Turner, Constable e Corot, fissava un singolo momento della percezione visiva in forme durature di inedita intensità e durata.
E d’altra parte, l’ipnotica messa a fuoco del dagherrotipo, sollecitata dall’esperienza del diorama, che si avvaleva di immagini fisse animate meccanicamente, aveva lo scopo di fossilizzare non un momento sfuggente della realtà ma piuttosto un rigido mosaico di dettagli illustrativi.
E’ la pittura più sensibile e colta, quindi, che ha giustificato la fragile fotografia di Niepce e di Talbot, non certo il greve naturalismo descrittivo e illustrativo che ha invece materiato fin dall’inizio, e poi dominato, il dagherrotipo fino alla sua definitiva metamorfosi in ciò che oggi impropriamente chiamiamo fotografia.

Illustrazione

Pagina da un trattato sulla lotta, sec, XVI;Litografia di Pierre Bonnard per Parallèlement di Paul Verlaine (1889), edizione del 1900 di A. Vollard

L’illustrazione è sempre stata destinata a specchiare puntualmente il testo scritto, a differenza della miniatura che ha dovuto invece commentarlo e sintetizzarlo, e questo ha limitato inevitabilmente la sua qualità creativa. Eppure è proprio questo aspetto dimesso e a volte trasognato che costituisce la sua specificità.

Una pagina illustrata del Cinquecento, scelta tra le tante analoghe, mostra la specificità dell’illustrazione: la necessità di un’umile ma puntuale descrizione visiva del testo (in questo caso un manuale di lotta) dove il disegno è stato affidato non ad un incisore importante o ad un pittore, ma ad un medio professionista già educato e predisposto alle forme tendenzialmente mediocri della corretta raffigurazione scientifica.
L’illustrazione si è avvalsa per secoli di questa manovalanza di creativi non intenzionali per assicurare al libro, soprattutto a quello tecnico, la continuità tra la parola scritta e il suo immediato diagramma grafico, e l’approdo alla litografia, nell’Ottocento, ha perpetuato questo attraente e fresco livello medio dell’immagine fino a quando l’illustrazione, nello snodo tra i due secoli, ha dovuto richiedere più intensamente l’intervento corroborante della pittura per mantenere in vita la sua specificità contro la diffusione della fotografia descrittiva. E da allora, paradossalmente, la qualità dell’illustrazione si è abbassata in un regime di fossilizzazione delle forme e di ripetizione acritica dalla quale adesso sembra impossibile farla uscire, nonostante le apparenze del suo gradevole ma epidermico eclettismo.

C’è stato però un magnifico episodio che poteva suggerire un futuro sviluppo poetico dell’Illustrazione con le forme ideate da Pierre Bonnard per la tarda edizione di Parallèlement di Paul Verlaine (1889), voluta da Vollard nell’anno 1900. In una delle pagine il pittore ha declinato le forme della sua opera più affascinante, il magnifico dipinto ad olio L’indolente del 1899 (Musée D’Orsay) in un magma tenerissimo che si sfalda nella materia stessa del libro ritrovando una perduta osmosi tra la parola scritta e la sua illustrazione.

Fumetto

Chester Gould, Dick Tracy, una striscia quotidiana degli anni ‘40

Il racconto grafico (meglio chiamare così il fumetto) ha la sua specificità nell’indissolubile osmosi tra immagine e parola epigrafica e una lunga storia che inizia con la necessità di certa miniatura trecentesca di saldare la didascalia epigrafica alla sequenza narrativa di immagini, per arrivare poi alla sedimentazione popolare con le xilografie quattrocentesche, con le satire inglesi del Settecento e infine ai più intelligenti e colti autori ottocenteschi, prima dell’infestazione macroscopica del Novecento che non segna le tappe di un progresso qualitativo ma quelle di una disastrosa e sterile ridondanza che può essere solamente quantitativa.

Il caso delle opere di Chester Gould (1985), Dick Tracy dal 1931 al 1977, dimostra come poteva crescere con intelligenza e sensibilità il racconto grafico novecentesco, che ha invece scelto la strada della ridondanza e della più triste banalità.
I brani di autentica qualità, in Dik Tracy, sono comunque rarissimi e limitati, come lo sono quelli di certi film dei primi decenni del Novecento, che contengono preziosi momenti di altissima intensità poetica innestati all’interno di una struttura discontinua e a volte perfino mediocre, ed è naturale che sia così, perchè queste forme novecentesche, quei film e l’opera di autori del racconto grafico come Gould, hanno dovuto subire la pressione devastante di una accelerazione senza precedenti che ha investito le tecniche creative di destinazione popolare trasformando con violenza la qualità in quantità.

Dick Tracy, anni ‘60

I pochi lacerti di autentica qualità di Dick Tracy comunque sono davvero attraenti: negli anni ’40 c’è a volte una anomala agitazione espressionista del segno con una consapevole ricerca di un registro di acute dissonanze; poi, nel ’60, ci sono lunghe sequenze stranianti di soli oggetti e di dettagli, debitrici evidentemente del gusto nutrito dal Design. Altrove si agita invece un’insofferente linea pittorica che tende ad esautorare la stessa riconoscibilità naturalistica.

Epigrafe

L. Orfei, iscrizione per la Mostra dell’Acqua Felice, 1587

L’epigrafia ha un suo ristretto corpus fascinoso di opere suggestive laddove la scrittura si dilata o si contrae a contatto con lo spazio urbanistico come estensione visionaria della parola scritta proiettata in forme monumentali sulle fontane cittadine e sulle facciate delle chiese romane. Nelle opere cinquecentesche di Luca Orfei l’epigrafe è pura pagina, splendida nella sua fresca dilatazione, invenzione grafica che stempera la pesantezza della narrazione scultorea e architettonica del tempo.

La specificità dell’iscrizione è nella perturbante proiezione fossilizzata della parola nell’ordito architettonico della scultura e dell’edificio, e nel Cinquecento Luca Orfei, attivo negli anni 1585-1589 per i progetti urbanistici di Sisto V con cinquanta incisioni, ritrova questa immediatezza dimenticando la dolce eleganza delle epigrafi damasiane incise da Furio Dionisio Filocalo (366-384) e l’intensità plastica della scrittura medioevale.

Oggi l’epigrafia riemerge improvvisamente nelle rare opere autentiche del troppo artificioso e scolastico Joseph Kosuth, come accade con la scritta al neon della stazione Dante della metropolitana di Napoli (Queste cose visibili, 2001).

Scrittura di Tommaso D’Aquino; Biblioteca vaticana

La scrittura cartacea offre invece degli episodi di grande fascinazione estetica quando il disegno si abbrevia in un inquieto sismografo del corpo, come è quello degli straordinari frammenti sopravvissuti della scrittura di Tommaso D’Aquino.

Vetrata

Parigi, Sainte-Chapelle, 1242-1248

La vetrata filtra e scompone la luce, che si suppone bianca e unitaria, come strumento di una arcaica, visionaria percezione di una presunta voce divina che si disgrega nell’iride per incarnarsi in discorso articolato e comprensibile nella grammatica del visibile.

Scomporre la luce per ascoltare il numinoso: nel racconto di Noè che dialoga con il suo Dio attraverso l’arcobaleno si perpetua, evidentemente, il retaggio remoto di una percezione arcaica della luce che a tratti, accidentalmente, mostrava sé stessa in una ipnotica disarticolazione timbrica molto prima che la pittura iniziasse a riprodurne le suggestioni. E quello di Noè non è un accordo con il numinoso, ma con la natura stessa, che può essere apparentemente caotica oppure altrettanto apparentemente ordinata e identificabile in una forma razionale.

Rogier van der Weyden, Polittico del Giudizio Universale (part.),1445-1450; P. Rubens, Paesaggio con arcobaleno, 1632 (part.)

L’arcobaleno figura nella pittura come citazione dell’Apocalisse (1445-1450) in un polittico di van der Weyden, oppure, in un dipinto laico di Rubens del 1632, come ampio segno barocco che unifica il paesaggio, e in questa diversità si specchia l’esaurirsi della mitologia della luce divina a favore della mitologia della natura.

Mosaico

Mosaico dell’abside di s Maria in Domnica, 817-824 c. (particolare)

Il mosaico trasmette nel tempo una perturbante, antica complicità tra la fragilità e l’incertezza della retina e l’opaca concretezza della massa architettonica che la ostacola.

Nel magnifico mosaico di S. Maria in Domnica, negli anni di Pasquale I, 817-824, la materia rigida delle forme più antiche di Ravenna si smaterializza sotto i nostri occhi per specchiare l’incertezza della percezione retinica, e questa poetica della fragilità retinica si avverte anche nelle altre opere legate a Pasquale I, nel sacello e negli affreschi di s. Prassede e nella Stauroteca vaticana, che è servita forse da modello di forme riduttive, quasi popolari, analoghe a quelle già divulgate dai grandi libri miniati come il Pentateuco di Tours (590-604 c).

Stauroteca cd di Pasquale I, sec. IX (Musei Vaticani)

Smalto

Nicolas de Verdun, Smalto, part. dell’Altare di Klosterneuburg,1181 c, Vienna.; Croce stazionale, sec XIV, Campolieto (Molise)

Lo smalto medioevale ha un ruolo importante nell’orchestrazione della creatività, perché si colloca al punto d’arrivo del tragitto rituale che porta i pellegrini dalla presunta caoticità del mondo aperto verso la clausura straniante del reliquiario, dove l’enigmatica astrazione visionaria permette l’illusione di una momentanea sospensione astorica della tormentata vicenda individuale.

Reliquiario di San Tommaso Becket, fine XII sec. Limoges; Nicolò Malinconico, Trasporto dell’Arca dell’Alleanza intorno alle mura di Gerico,1694 c, Bergamo

Il reliquario e l’altare smaltato medioevali ratificano, come fuoco prospettico e approdo finale dei lunghi percorsi del pellegrinaggio, il rapporto di dipendenza reciproca tra l’arte popolare, disseminata lungo il tragitto con le croci stazionali plasmate da artigiani locali, e l’arte della cultura dominante, che offre al pellegrino ciò che questi si aspetta di trovare, il conforto, solo apparentemente paradossale, dell’oscurità imperscrutabile del numinoso.
I segni popolari delle croci e dei rilievi dislocati lungo il cammino consolidano un patrimonio di cultura che non tollera cambiamenti repentini, mentre lo splendore visionario della cassa smaltata conferma il dogma religioso del pensiero inaccessibile della divinità.
Evidentemente, il modello ideale del reliquario ermetico è l’Arca dell’Alleanza, un oggetto interamente d’oro, intoccabile e inavvicinabile, destinato a creare in Occidente un equivalente, moltiplicato all’infinito, della Kaaba islamica, calamita di tutti gli sguardi nomadi.
Le opere di Nicolas de Verdun (1130-1205) e di Godefroid de Huy mostrano la più grande consapevolezza di questa specificità dello smalto: trascrivere i più diffusi contenuti narrativi popolari nelle forme della più visionaria astrazione materiale, mentre gli smalti trecenteschi di Guccio di Mannaia (1318) e di Ugolino di Vieri (1338) hanno il compito, poi, di sciogliere questa seduttiva reverie dell’astrazione materiale in un contesto creativo che privilegia la singola qualità dello scultore e del pittore, nel diverso scenario che sostituisce quella paradossale saldatura funzionale tra arte popolare ed ermetismo con una più conciliante ma meno necessaria continuità estetica.

Arazzo

Francesco de’ Rossi, Salviati, Ecce Homo,1549, arazziere Nicolaus Karcher, Uffizi

L’arazzo è una membrana epidermica che scherma la parete rifiutando sia la perentoria rigidezza del quadro che l’ambiguità illusionistica dell’affresco. Quando il pittore sa intuire questo valore di riduzione ottiene dall’arazzo un’emozionante materia attenuata e stremata.

Anche l’arazzo è sempre stato un elemento importante nell’orchestrazione dell’esteticità diffusa. I grandi arazzi fiamminghi, tra Quattrocento e Cinquecento, sono materiati dalla stessa forma della musica polifonica introdotta in Italia dalle Fiandre da musicisti come Guillaume Dufay (1474) e Josquin Desprez (1521), e lo dimostrano opere maestose come le Storie di Giuditta e Oloferne (Tournai, 1515 c) del Museo di Palazzo Venezia.
E i panni istoriati hanno avuto a volte un ruolo anche nella morfogenesi delle forme pittoriche: già nei mosaici del tempo di Giustiniano, in S. Vitale, a Ravenna (547), la simulazione dell’arazzo giustificava l’enfasi posta sulla tessitura dei tessuti e sulla piattezza dei volumi in contrasto con la carnosità inquietante dei volti.
Nel Cinquecento, la serie raffaellesca degli Atti degli Apostoli, tessuta a Bruxelles dalla manifattura di Pieter van Aelst e destinata alla Cappella Sistina (1515-1519), aveva lo scopo evidente di stemperare la percezione delle forme michelangiolesche.
A fine secolo, nel contesto dell’estetica legata al francescano Sisto V, gli affreschi di S. Susanna, della Biblioteca Vaticana e soprattutto del Cavalier d’Arpino in Campidoglio imitano l’arazzo per giustificare apertamente un ductus progressivamente abbreviato e sfatto, volutamente anacronistico, che verrà proposto ancora, in chiave polemicamente antibarocca, fino agli anni ‘40 del Seicento. nel cuore del potere laico della città.
E di contro, l’arrivo a Roma degli arazzi disegnati da Rubens, portati da Francesco Barberini nel 1625, condiziona e accelera proprio la formazione del linguaggio barocco di Pietro Berrettini da Cortona, responsabile della manifattura Barberini e autore lui stesso di cartoni preparatori.

Ma la vicenda più interessante legata a questa tecnica è sicuramente quella che riguarda uno straordinario creatore di esteticità diffusa del Cinquecento, Francesco de’ Rossi (Salviati), un artista eclettico che ha radicalizzato l’estensione nomade di un segno infestante capace di sconfinare dalla pittura all’argento e all’arredo fino agli arazzi magnifici conservati agli Uffizi.
Nell’Ecce Homo e nella Deposizione (1549) la materia è sfibrata e addensata caoticamente, ipnotica come lo sono gli affreschi romani di Palazzo Ricci (1554) dai quali è impossibile distogliere lo sguardo irretiti come siamo da una coatta decifrazione senza fine.

Jacopo Pontormo, Giuseppe trattiene Beniamino (1546-1547), arazziere Jan Rost, Quirinale;

Immediatamente prima di lui, un geniale Pontormo aveva disegnato gli arazzi più emozionanti che siano mai stati realizzati, quelli del ciclo di storie bibliche ideate per la manifattura Medicea e culminanti nello sconvolgente Giuseppe trattiene Beniamino (1546-1547) del Quirinale.

F. Ubertini il Bachiacca, I Mesi, arazziere Jan Rost, 1553, Uffizi

Ma gli arazzi di Pontormo sono comunque grande pittura, indipendentemente dalla tecnica usata, e hanno un posto tra i disegni più inquietanti del pittore.
E’ più fedele alla specificità dell’arazzo un autore mediocre come Francesco Ubertini il Bachiacca, che nei Mesi (1553) degli Uffizi ha creato una materia debole e dilavata che si decontrae in uno spazio trasparente e privo di calore, meravigliosamente fragile: la pochezza tecnica del Bachiacca pittore è la forza del Bachiacca ideatore di panni istoriati.

Gli arazzi del Pontormo e del Bachiacca sono stati tessuti dal sensibile Jan Rost, che ha capito perfettamente sia lo svolgersi plastico delle forme verso l’alto del Giuseppe che il disegno minuto e scomposto dei Mesi; quelli di Salviati sono opera del passionale Nicolas Karcher, che ha saputo aderire con una tale energia creativa ai modelli del pittore, con un livello altissimo di partecipazione, da poter essere considerato anche lui un autore più che un esecutore.

Tessuto

Evangeliario di Ariberto d’Intimiano, oro e smalti, sec. XI, Milano, tesoro del Duomo

Il tessuto è una forma pittorica in movimento nello spazio. Viene indossato nella cavità architettonica affinché possa intercettare e trattenere in superficie l’eco dei segni circostanti. Sul corpo rispecchia la deriva di collisioni che agita la terra di confine tra l’organismo vivente e la materia inorganica. A volte media tra la pelle e la percezione sfuggente dell’immateriale.

La specificità del tessuto, la sua possibile autenticità, è nello sdoppiare la pelle con un simulacro di ciò che è imponderabile e immateriale. Lo dimostrano gli esempi più intensi trasmessi dalle opere d’arte di altre tipologie: lo smalto magnifico dell’Evangeliario di Ariberto d’Intimiano (sec.XI) trasmette con immensa suggestione la profonda compenetrazione tra il corpo e l’immaterialità fluida che il tessuto rende percepibile.

Manifattura romana, Pianeta, seta rossa laminata d’oro con ricami in argento e oro, sec. XVII, S. Barnaba, Marino

E oggi la purezza di questa specificità sopravvive nei tessuti liturgici, che possono avere a volte un’intensità pittorica che toglie il respiro, in un registro di irrazionale e rapinosa sensualità epidermica che contraddice in profondità lo stesso carattere liturgico dell’oggetto, come accade con la pianeta secentesca conservata a Marino in s. Barnaba.
Seducenti macchine estetiche da fruire in movimento, strumenti di una pesca a strascico dei riflessi luminosi e degli assottigliamenti materici disseminati nello spazio circostante, opere che esistono ambiguamente tra lo spazio del rito religioso e la cultura più laica accanto alla musica sacra e ai grandi arredi delle sacrestie.

Tappeto

Tappeto da preghiera Hereke con iscrizioni coraniche, sec. XVIII, Asia Minore

Nel tappeto orientale, dove si specchiano il giardino assente e il mihrab, si alimenta la connessione a distanza dello spazio eternamente mobile della vita nomade con uno spazio fisso ma remoto, la kaaba, avvertibile dietro la nicchia vuota del mihrab che apre verso oriente.

Uno straordinario tappeto Hereke del sec. XVIII mostra tutta la suggestione di questo spazio limitato dell’oggetto che smotta e implode in una dimensione che si avverte come aperta e senza limiti.
Questo tessuto si specchia a distanza nel mihrab, nella nicchia vuota dell’edificio di culto islamico che indica l’invisibile Kaaba a oriente, e alimenta la percezione dinamica dello spazialità materiale del nomadismo che incessantemente, attraverso la sua soglia, può estendersi e librarsi altrove.

Mihrab, 1354/55, da Isfahan, Iran, Met, NY; La Kaaba in una miniatura islamica, sec. XVI

La superficie di questa opera così densa è interamente colonizzata dalla scrittura dei versetti del Corano declinata nelle varianti grafiche che sono le stesse degli interni in ceramica delle moschee, in una sovrimpressione di forme che condensano lo spazio collettivo, reale e lontano, nello spazio illusorio ma vitale del tappeto da preghiera individuale.

Cinema

T.Drejer, Vampyr, 1932

Dall’800 siamo nell’epoca aristotelica del movimento simulato che sostituisce gradualmente la realtà stessa. La fotografia si anima nel cinema, il teatro popolare è visualizzato da Meliès per essere poi cristallizzato nella televisione, il teatro e il romanzo travasano la loro materia nell’ipertrofico cinema narrativo. E anche i primi aerei e le prime automobili seguono questa stessa logica del movimento che inibisce e sostituisce il movimento reale del corpo. Però un raro cinema creativo oppone fin dall’inizio all’ipertrofìa opaca del cinema narrativo un corpus limitato ma intenso di straordinarie opere autentiche, frutto esaltante della comprensione profonda dei limiti e delle possibilità di questa forma creativa.

In contrasto con l’abnorme crescita quantitativa del cinema narrativo, il cinema scritto in versi offre un catalogo ristrettissimo di straordinari frammenti che all’inizio possono essere anche ridotti a pochi preziosi minuti capaci di trasmettere con freschezza il momento emozionante dello stupore della ricerca contro quello prosastico della descrizione teatrale e romanzesca.
Il forte paradigma di matrice aristotelica attorno al quale si muove il cinema è quello dell’esproprio del tempo reale a favore del tempo simulato, del verosimile, ma gli autori più sensibili hanno avvertito subito l’opportunità di riscattare quel tempo deformato dalla visione concentrando la materia del film in una dimensione percettiva che si è resa sempre più aderente al tempo reale della macchina percettiva individuale, e in questo il cinema scritto in versi ha seguito lo stesso tracciato della musica più poetica del primo Novecento e della letteratura più interessata al calco vivido della sensibilità che all’evento esteriore.

Quando Carl Theodor Dreyer ha realizzato il suo stupefacente Vampyr, nel 1932, ha ritrovato il tempo reale della percezione già espropriato dal greve cinema narrativo e ha sostituito al racconto descrittivo l’evento stesso del vedere, come l’Ulisse di Joyce aveva appena ritrovato il tempo reale della percezione contro il tempo differito del racconto descrittivo.
Nel 1928 Drejer aveva concretizzato ne La passione di Giovanna D’Arco il sogno della fusione creativa tra architettura, scultura e pittura, con un film che era plasmato progressivamente dalla spazialità cava, dai volumi crudelmente slegati dal loro baricentro e infine dal caos visivo di immagini esclusivamente visive e pittoriche.
Vampyr invece è solamente cinema allo stato puro.

Questo di Drejer è forse il film più autentico, nel senso della sua piena specificità, che sia mai stato realizzato.
Tutto il tempo materiale di ciò che all’inizio sembra essere l’avvio di un consueto racconto in prosa si travasa irreversibilmente nel tempo reale della percezione. Tutto quello che accade nel film accade nei nostri occhi, l’unico protagonista di questo evento poetico è il nostro occhio, qui non c’è nessuna storia da seguire o da capire, tutto è delicata, ipersensibile reverie di uno sguardo destinato ad indagare la penombra che circonda le cose per restringersi nella scrittura in versi più acuta, più emozionante, che il cinema abbia mai conosciuto.

Video

Video amatoriali con le immagini dell’attentato a J. Kennedy, 1963

La forma creativa che ha subìto con più violenza il superamento qualitativo delle forme spontanee della comunicazione non intenzionalmente estetica è il video, che già alla sua origine, nei primi anni ’60, è stato subito vanificato dal confronto con la ripresa sconvolgente dell’attentato a Kennedy, dove la creatività occasionale rispecchiava la pura necessità imposta dall’evento stesso.

Il video, accanto al più raro cinema sperimentale, poteva cercare lo sguardo come puro accorgersi del mondo esterno, ma gli autori avrebbero dovuto accettare un lavoro radicalmente disinteressato e anonimo, impensabile nel contesto dell’arte americana degli anni ’60, e la fossilizzazione contenutistica ha vanificato subito, fin dall’inizio, questa possibilità, prima con la sterile piattezza didascalica di Paik e poi con l’attuale (2012) deprimente retorica religiosa di Bill Viola.
Eppure oggi, nel momento (aristotelico) della visualizzazione forsennata dei dettagli quotidiani e occasionali resa possibile dalle telecamere pubbliche, e nell’eclisse (momentanea?) dell’effimero cinema sperimentale, ci sarebbe la possibilità concreta di una creatività capace di cercare davvero la specificità di uno sguardo che non è visione di qualcosa ma fertile, epidermico accorgersi del mondo.

Per adesso, questa forma continua ad essere superata e vanificata dalla realtà e dalla necessità, dall’intensa, involontaria esteticità del video occasionale. Nel 1963 i filmati dell’assassinio di Kennedy resero patetiche le prime opere dell’arrogante Nam June Paik; nel 1998, mentre a Roma si celebrava una sterile sfilata di vuote opere scolastiche con la mostra La coscienza luccicante, in tutto il mondo si potevano vedere in tempo reale, anche per strada, le immagini impressionanti, le icone lucide e terse, vere, dell’interrogatorio a Clinton. La realtà stava rendendo ridicola la finzione accademica.

Riprese video del maremoto in Giappone (2011)

Nel 2010 le riprese video dei telefoni cellulari hanno trasmesso in forme vivide le immagini della rivolta giovanile in Iran, visualizzando l’immediatezza concreta dell’abbreviata e diretta comunicazione verbale.
Nel 2011 il maremoto in Giappone è stato registrato da immagini di estrema, involontaria bellezza visiva, debitrici evidentemente dell’estetica elastica della webcam e segno ineludibile della loro tragica necessità, che dimostrano come una creatività futura possa essere materiata da una potente esteticità diffusa capace di disintossicarci dall’amorfa e ormai insopportabile visualizzazione statica del cinema narrativo e della televisione.

Televisione

Giacomo Vaccari, messa in scena televisiva de L’idiota di F. Dostoevskij,1959; Zanni, stampa settecentesca

Con la Televisione, lo sviluppo in serie delle immagini più logorate dagli stereotipi quale è stato introdotto nel Cinema di inizio Novecento da Meliès ha rotto gli argini di una visualizzazione ininterrotta del mondo popolare e dei suoi ritmi fossili: il fregio continuo e morfologicamente inerte dell’immagine televisiva, da allora, si è sedimentato in una messa in scena destinata a sostituire aristotelicamente il vero con il verosimile.

Nel 1959, con la realizzazione de L’idiota di Dostoevskij, di Giacomo Vaccari, la Televisione ha dimostrato di poter ridurre ad arte popolare qualunque forma creativa: in quell’affascinante, delicatissimo spettacolo in bianco e nero la parola scritta era declinata in una visione rallentata, più che in ascolto, e nonostante l’intelligente raffinatezza del risultato si trattava comunque di trasmutare nelle forme illustrative del teatro popolare la preziosa e insostituibile percezione individuale della parola, lontano dall’irrappresentabile sospensione del tempo che solamente la letteratura rende possibile.

Pubblicità

Campagne pubblicitarie dell’agenzia STZ; G. L. Bernini, Monumento funebre di Alessandro VII Chigi,1678, s. Pietro

Il processo di accelerazione aristotelica in atto dall’Ottocento esalta le forme che la Pubblicità ha rianimato del passato barocco e allegorico, in un crescendo che mette sotto scacco l’immaginazione. Rarissimi i casi di creatività autentica, come quella di STZ.

La Pubblicità costituisce l’esito estremo del funzionamento di un macchinario barocco del quale segna l’infinito spengersi nella risacca dell’entropia, ed è in questa landa desolata della creatività che le forme più tragiche possono ancora entrare in collisione senza pathos con le forme più effimere del gioco: ciò che appare come una sgradita e arbitraria interruzione di uno spettacolo televisivo, o dello stesso tessuto visivo della città, non è altro che il retaggio dell’intermezzo, che separava tra di loro gli atti del melodramma musicale; con la pubblicità il dettaglio minuto e inoffensivo della vita materiale si insinua ad interferire con lo spettacolo ipnotico del dramma latente che viene messo in scena con le notizie di cronaca per essere innestato vivo nella discontinuità urbana.

Computer art e Net art

J. Marey, Doppia ellisse creata da un punto luminoso agitato nell’oscurità (1800/1900, senza data);
H. W. Franke, Grafica elettronica, oscillogramma, 1955 c.

La Computer art e la Net.art sono il frutto della Scolastica illuminista che perpetua nel Novecento l’arrogante pretesa di unificare la conoscenza individuale in una nuova Enciclopedia universale capace di uniformare e forse sterilizzare l’esperienza viva del mondo.

La Doppia ellisse di J. Marey, creata da un punto luminoso agitato nell’oscurità (1800/1900), è la matrice raffinata e involontaria del proliferare inerte e insensato di tanta sterile grafica computerizzata, come è quella di H. W. Franke (Grafica elettronica, oscillogramma, 1955 c.); una forma creativa che ha dovuto adottare forzatamente le forme del Bauhaus e della scultura di Gabo e di Pevsner per rivestire di forme estetiche la grigia funzionalità della Cibernetica.

Paolo Uccello, disegno di Mazzocchio, sec. XV;
Giovanni da Verona, Tarsie nel coro di s Maria in Organo a Verona (partic.),sec. XVI

D’altra parte, la matrice dell’arte realizzata con il programmatore è quella remota della decorazione ritmica neolitica e del mosaico, dal quale la Computer art mutua la rigida scomposizione in tasselli. Crediamo di essere in presenza dell’applicazione di una tecnologia nuova, svincolata dal passato, e assistiamo invece alla miope continuità di una forma arcaica legata alla necessità di visualizzare il mondo con quelle forme geometriche che vengono ancora insensatamente definite decorative.
La vicenda creativa legata alla Cibernetica sembra ricalcare quella dello studio dei poliedri platonici nel tardo Quattrocento (da Luca Pacioli a Leonardo da Vinci), un’indagine che in quel momento era sostenuta dall’impellente necessità militare di perfezionare la forma delle rocche difensive. Ebbene, anche la rete, come è noto, si è sviluppata all’inizio con la clausola vincolante di un’analoga esigenza militare, ed è forse per questo motivo che la computer art e la Net.art soffrono di un devastante invecchiamento precoce, di una metastasi che ha già logorato la tetra musica elettronica degli anni ’60 e che adesso sta intaccando a vista le insopportabili forme accademiche dell’architettura progettata al computer.

Un’arte della rete comunque sarà possibile quando verrà ridimensionata l’insulsa retorica che pretende di associare il progresso e il futuro ad Internet, e quando saranno create opere estese davvero nel tempo reale e nella discontinuità dello spazio con una drastica riduzione della loro piena visibilità ed una autentica, irreversibile perdita di paternità. Nel frattempo, lo sviluppo creativo dell’installazione e dell’opera effimera, in questi primi decenni del XXI secolo (2010) costituisce un potente disinnesco e un vigoroso antidoto alla tediosa maniera scolastica dell’arte prodotta per la rete.

Abitare l’esoscheletro
Scultura

Donatello, Maddalena penitente, legno dorato,1453/1455, Firenze

La scultura è segnata nei suoi inizi dalla collisione tra la percezione del mondo che hanno gli inumatori e quella divergente che ne hanno gli inceneritori. L’irreale, paradossale, ipnotica verosimiglianza della figura umana imposta degli inumatori porta all’equivoco che ci fa credere nella scultura come ad un simulacro realistico del corpo: ma è proprio la sfuggente realtà polimorfa del corpo in movimento nel tempo e nello spazio che la scultura degli inumatori vuole ostinatamente catturare e cancellare. Dalle urne cinerarie ha origine invece l’attesa di una realtà fluida e irrefrenabile, e nelle urne etrusche le due remote anime della scultura si sovrappongono. A distanza, le urne etrusche portano ad Arnolfo, poi Donatello, nelle sue opere più vere, più liriche, forza la scultura per dare un esito a questo conflitto irrisolto, e allora il volume e il graffio epidermico si schiacciano definitivamente uno sull’altro.

Urna cineraria di A. Cecina Selcia, II-I sec. ac, Museo Guarnacci,Volterra

L’urna di Cecina Selcia (II-I sec ac) viene definita nel catalogo del Museo Guarnacci di Volterra ‘di fattura non particolarmente eccelsa’. Si tratta invece di un’opera assolutamente straordinaria, dove ogni minimo segmento si contrae con uno spasmo verso un irresistibile centro invisibile, in una allucinata morfogenesi dell’instabilità.

Abito

Giuseppe Baldrighi, Ritratto della famiglia del duca Filippo di Borbone (1757-1758), particolare; Parma, Galleria Nazionale

L’abito abita una frontiera emozionante che si estende tra l’organico e l’inorganico e suggerisce posture da sperimentare per accedere ad una fertile contraddizione tra il corpo vissuto e il corpo assediato dalle materie inorganiche, i gioielli, gli arredi.

La pittura ha conservato nel tempo la memoria viva di opere di grande densità creativa, come capita con il dipinto di Giuseppe Baldrighi, Ritratto della famiglia del duca Filippo di Borbone (1757-1758, Parma). L’arioso abito visibile al centro della scena trasmuta la materia organica del corpo in uno strato delicatissimo di infinite variazioni pittoriche; qui un dipinto di modesta qualità trasmette intatta la percezione sensoriale di un incredibile congegno visivo, di un abito affascinante che è stato realizzato nella pienezza della sua specificità, ipersensibile estensione dal corpo verso il confine dell’inorganico e schermo capace di filtrare e setacciare tutte le presenze esterne, dalla luce fredda dell’argento alla perturbante e immisurabile vastità architettonica di un grande trumeau.

F. Goya,Francisco Bayeu,1795, Prado

Quarant’anni dopo, Goya ha dipinto invece nel suo magnifico ritratto di Francisco Bayeu (1795, Prado) un abito che mostra con irripetibile intensità una perturbante alternativa alle norme dell’abbigliamento, una latente correzione del corpo stesso. E questo abito che Goya ha reinventato va oltre la sua specificità, perchè è una pelle sfuggente e disancorata, una stupefacente reverie del corpo senza forma.

Mobile

Cassapanca, Toscana, sec. XVI, Castello di Monselice

Il mobile comprime tra di loro prospetti architettonici e cavità interne che sedimenta poi a ridosso del corpo. In alcuni rarissimi casi l’intensità del mobile riflette e materializza l’energia stessa che il corpo disperde nella cavità dell’involucro architettonico.

Il volume austero della grande cassapanca di Monselice (sec. XVI) si estende orizzontalmente nello spazio rievocando le grandi forme di Ammannati, come il profilo plastico del ponte a s. Trinita.

Castel s. Angelo, cd Sala dell’Erario e dell’Archivio,1545 c, con cassoni del 1400 e1500.

I cassoni quattrocenteschi rafforzati in ferro conservati nella stupefacente stanza dell’Archivio e dell’Erario di Castel S. Angelo si innestano nello spazio plasmato dagli armadi in noce a parete del 1545 come la sonorità addensata di strumenti a fiato nel registro grave si staglia drammaticamente contro il tutti orchestrale.

Tavolo veneziano a otto gambe, fine1600, Rezzonico, Venezia

E il tavolo tardo secentesco di Cà Rezzonico registra uno sdoppiamento frenetico del volume sollecitato da un’irresistibile, inavvertibile energia sismica.

Disegno industriale

A. Castiglioni e Pio Manzù, Parentesi,1971; Georges de La Tour, Giobbe e la moglie,1630 c, Epinal

L’articolazione degli oggetti, il disegno della loro struttura, non può mai separarsi dalla matrice neolitica e non può mai separarsi dalla collocazione dell’oggetto funzionale in un imponderabile progetto collettivo che ha lo scopo non dichiarato di farci prendere le distanze dalla sfuggente funzione delle cose.

La Parentesi (1971), pensata prima dal sensibile Pio Manzù, scomparso prematuramente, e poi realizzata da Achille Castiglioni, è forse l’opera di Design meno logorata dall’invecchiamento precoce che ha invece svilito gran parte della produzione contemporanea, ed è anche l’oggetto che incarna più coerentemente la specificità del disegno industriale mostrando in filigrana una struttura che non rinnega la sua più remota radice storica.

Lampada da miniera, sec. XI 

L’inedita freschezza ariosa della sua forma, infatti, così sgranata e denudata nello spazio, deriva dalla pura, disarmante, identità di forma e funzione: la luce spostabile lungo il filo teso verticalmente rievoca allo stesso tempo la memoria vivida delle fiaccole portate a mano e la preziosa fragilità delle più antiche lampade da miniera.

Strumenti musicali

Beato Angelico, Incoronazione della Vergine, particolare,1432,Uffizi
M. Merisi il Caravaggio, Riposo nella fuga in Egitto (partic.),1599, Galleria Doria
Benvenuto Cellini, Narciso,1565 c, Bargello

La forma dello strumento musicale dipende anche dalla morfologia delle opere d’arte che vengono create nello stesso momento storico, soprattutto se ne viene condivisa la necessità di sintesi, come avviene con il violino cinquecentesco.

La forma del violino, perfezionata da Andrea Amati, da Gasparo da Salò e da altri, a metà Cinquecento, nasce dalla volontà di unificare polifonicamente più voci in un solo strumento, integrando la dolcezza antica della ribeca con la sonorità corposa della lira da braccio e della viola; le contrazioni plastiche della sua architettura sono le stesse che si vedono nelle sculture del Pollaiolo (Ercole e Anteo) e di Cellini (Narciso), e la sua incredibile struttura elastica è impensabile in un contesto che guardi solamente alla mera funzionalità per essere giustificata invece dall’irripetibile esteticità diffusa del tempo.
Tra le innumerevoli illustrazioni dipinte che riguardano gli strumenti ad arco ci sono due opere che mostrano in tutta la sua fascinazione il passaggio dalla delicata ribeca medioevale al violino cinquecentesco: nell’Incoronazione della Vergine (1432) di Beato Angelico (Uffizi) la leggerissima ribeca viene suonata accanto alle lunghe trombe tubicine e alle trombe corte, e il Riposo nella fuga in Egitto di Merisi il Caravaggio (1599, Doria) è l’unica raffigurazione del violino in grado di denunciarne appieno la complessità volumetrica.

Credenza, sec. XVIII; A. Lambertsz, Ritratto di de Leeuw con la famiglia,1671 (particolare), Amsterdam;
Jacob Bellevois, Nave, sec. XVII

All’inizio del Settecento, coerentemente con lo sviluppo del Concerto grosso di Corelli, gli strumenti musicali rispecchiano l’acuto individualismo del tempo con il potenziamento della loro disponibilità alla sintesi: il fortepiano (il gravicembalo col piano e forte di Bartolomeo Cristofori) salda la percussione del clavicembalo al pizzicato del clavicordo, permettendo la clausura più riflessiva; il flauto traverso di Hotteterre potenzia la voce solista, emancipandola dagli altri strumenti, e i violini di Stradivari e di Guarneri del Gesù portano ai limiti estremi la piena autonomia del violino cinquecentesco, mentre la malleabilità architettonica degli strumenti musicali si specchia più che mai nei più intensi mobili settecenteschi e nella massa plasmata delle grandi navi.

Armi

Germania, 1548, pistola a ruota, Coll. Odescalchi, Museo Nazionale del palazzo di Venezia

Le armi ideate esplicitamente per essere un’opera d’arte sono segnate da una contraddizione arcaica che è alla base della loro stessa esistenza: mostrano infatti la doppia natura esemplificata dall’arco, che può raccontare e mitizzare l’avventura della caccia trasformandosi in strumento musicale e dimenticando la sua funzione aggressiva. I momenti di acuta astrazione delle armi tedesche di fine Cinquecento, come quelli delle armi rituali oceaniche, mostrano un design fascinoso che è rivelatore di questa contraddittoria necessità di amnesia.

Nelle armi il design si affina, quando si tratta di farne dimenticare la funzione: le pistole e gli archibusi tedeschi del Cinquecento occultano nel loro raffinatissimo disegno la sagoma funzionale dell’arma, e siamo nello scenario figurativo del manierismo internazionale, dove per un breve momento storico nessuna cosa denuncia esplicitamente la sua funzione pratica.

Roncone, sec. XV

D’altra parte, già il falcione contadino si era trasformato attorno al 1530 in un prezioso oggetto astratto alla corte di Carlo V, assorbendo e dissimulando la sua doppia realtà materiale, quella del lavoro contadino e quella dello scontro fisico che vedeva i contadini svizzeri disarcionare i cavalieri avversari con gli strumenti rurali.

Ai confini del corpo
Argento

Francois-Thomas Germain, Brocca e bacile (1756-58), argento, Parigi, Musèe des Arts Dècoratifs

Nell’orchestrazione degli oggetti l’argento ha il ruolo di un suono delicato e fragile, del clarinetto che sfora nel tutti orchestrale: una luce sepolta e scansata che minaccia con pudica delicatezza la volgarità delle forme più invasive, come sono i pesanti arredi dorati. Nei rari argenti importanti, la luce fredda e implosa denota una consapevole scelta pittorica che investe una materia che viene esposta disarmata alla corrosione dello sguardo.

La Brocca con bacile di Francois-Thomas Germain, realizzata nel 1756-1758 per Giuseppe I del Portogallo (ora a Parigi), sintetizza tutto ciò che l’argento può dare alla ricerca inesausta del perturbante: questa opera sconcertante si contrae in forme acute e rancorose, vibra in una membrana abrasa da impreviste dissonanze e forgiata da anomale slabbrature materiche; una affascinante luce fredda che implode a ridosso di un nucleo centrale instabile e sfuggente, nello spirito di un’isterica disarmonia prestabilita.

M. Merisi il Caravaggio, Seppellimento di S. Lucia, 1608 (partic.),Siracusa; Lisbona, Aiguière, 1735 c.

E a volte nella pittura affiora, questa luce meravigliosamente depressa dell’argento, come nelle vesti della figura in primo piano del Seppellimento di s. Lucia di Merisi (1608).

Oro

Roma, reticella d’oro, Museo Nazionale Romano, Roma; Pittore romano, Fanciulla con reticella d’oro, affresco, Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Modellare l’oro per adeguarlo al movimento nomade dei corpi. Dal neolitico in poi la possibilità di plasmare la luce con il metallo sottile dell’oro ha innestato alla periferia del corpo vissuto la reverie dell’astrazione visionaria, riscatto dalla sfuggente storia individuale.

La delicatissima reticella d’oro d’epoca romana del Museo Nazionale di Roma è quella ritratta dal pittore della Fanciulla pompeiana di Napoli: una vibrante estensione del corpo che si dilata in una filigrana di parossistica, struggente fragilità.

Vetro

Inghilterra, Brocca in vetro lavorato, XVII sec., Louvre

Come visualizzazione dell’aria, e del respiro che gli è stato soffiato dentro, il vetro è legato al profumo intimo delle essenze antiche: lo attestano i colori delicati dei vetri più arcaici, dove si denuncia la volontà di vedere il profumo dell’aria e dei suoi sapori.

Quando ha un ruolo negli ostensori, come in quello napoletano del Sangue di S. Gennaro, il vetro conferma la sua vocazione ad essere aria attraverso la quale si vede il sangue interno al corpo.

Un’affascinante Brocca inglese del XVII secolo, conservata nella collezione di vetri del Louvre, esaspera la specificità del vetro come aria resa percepibile agli occhi mediante l’aggetto incolore e massivo dei suoi rilievi epidermici.

Ceramica

Cina, Sung meridionali, Piatto, sec.XII-XIII da Hangzhou, NY Met

Anamorfosi dell’involucro architettonico, la ceramica capta le modanature e i dettagli decorativi dello spazio plastico, memore della sua più antica funzione neolitica di semplificazione geometrica del mondo.

Hsia Kuei, Paesaggio, sec. XII-XIII, Sung meridionali

La pura specificità della ceramica è quella mostrata nelle forme Kuan della colta estetica dei Sung meridionali (960-1279): il Piatto del Met (NY), sec. XII-XIII, da Hangzhou, con la sua rete di sottili crettature che alludono poeticamente alla precarietà, negli anni drammatici dell’invasione tartara della Cina, è parte della cultura Chan che in Giappone sarà poi lo Zen, e i suoi spazi vuoti sono quelli di Hsia Kuei, il più ipersensibile pittore Sung.

Avorio

Dittico del Maestro di Echternach, sec. XI, Berlino S.M.

La microplastica dell’avorio trascina nel tempo la memoria arcaica dei resti delle ossa animali trasmutate in figura per sostituire il dettaglio reale e anonimo con l’icona duratura dell’insieme. Da allora, la fissità visionaria della luce sfuggente dell’avorio è legata alla miniaturizzazione massiva e straniante del volume, e la presenza degli avori bizantini nelle coperte librarie medioevali conferma la possibilità di suggerire, con questa materia, la percezione inquietante di un volume e di uno spazio che implodono all’interno di una prospettiva irreale.

Nel Dittico di Echternach (sec. X, Berlino) agisce una spasmodica deformazione plastica, ospitata in una cripta anossica, che schiaccia i volumi contro una rigida, incattivita superficie fossilizzata, e questa opera del geniale maestro di Echternach potrebbe essere l’estrema guglia di qualità emergente dal grande arcipelago storico degli avori.

Bronzetti

Firenze, Venere, bronzo, 1570 c., cm. 7,5, manico di un campanello (?); Museo Nazionale del Palazzo di Venezia

Le forme del bronzetto miniaturizzano la plastica monumentale all’interno degli spazi ristretti destinati alla pratica individuale della reverie. Qui il nero del bronzo patinato e la luce della doratura hanno la funzione di alimentare il sogno ad occhi aperti, dove la memoria del monumento pubblico si assottiglia nella contrazione della memoria individuale.

Nella minuta Venere in bronzo di Palazzo Venezia (Firenze, 1570 c, h 7,5 cm), forse un delicato manico di campanello, il profilo è martoriato dalla luce e il volume viene dilavato dalla stessa sensibilità morbosa che porta ai disegni più struggenti del Primaticcio (nel catalogo del museo l’opera è ritenuta ‘di modestissima qualità’).

Monete

Gallia, monete, 150 ac

La moneta si affina nella sfida lanciata dalla sua stessa funzione, nella lentissima e fascinosa sedimentazione di un disegno lievissimo e a volte quasi illeggibile, per mantenere costante nel tempo la sua nitida forza iconica. Ariosa e affascinante nelle astratte monete celtiche, lirica e perturbante nelle delicatissime scifate bizantine, emozionante nelle rare occasioni rinascimentali, la moneta stipula un rapporto privilegiato con l’individuo perchè viene letta e compresa, al di là della sua funzione, come la pagina miniata di un libro, e il suo linguaggio è spesso quello contratto, severo e pudico, delle più inquietanti incisioni a bulino.

Costantinopoli, scifate d’oro con Cristo in trono e Giovanni II Comneno con la Vergine, 1118-1143

Medaglie

Multiplo di lira o medaglia per Francesco I Sforza (1450-1466), argento; Castello Sforzesco, Milano

Derogando dalla cultura più complessa della moneta, la medaglia viene plasmata con una densità che rievoca le bulle etrusche, i pesanti nummi romani in bronzo e i contorniati imperiali; con la microplastica di Pisanello dialoga apertamente con la decorazione architettonica, confermando la sua vocazione al risentito frammento plastico.

Bertoldo di Giovanni, Congiura dei Pazzi, argento, 1478

Se le affascinanti e dense medaglie (o multiplo di lira) per Francesco I Sforza (1450-1466) del Castello Sforzesco serrano l’icona nella stretta sempre più opprimente delle cornici per spingerla verso un fondo immisurabile, la spettacolare Congiura dei Pazzi di Bertoldo di Giovanni (1478) approda invece ad una straordinaria dimensione plastica che è più vicina ai rilievi donatelliani e allo stupore metafisico albertiano che alla specificità della medaglia.

Glittica

Egitto, Tolomeo II e Arsinoe II, 270/69 ac. circa (Vienna)

Le gemme, a differenza delle monete e delle medaglie, negano ambiguamente la lettura dei dettagli, alimentando una percezione alterata che ha la sua matrice nella dimensione di una morbosità privata e visionaria che è stata già sperimentata con le più remote materie incise.

I cammei più interessanti sono sicuramente quelli di matrice tardo ellenistica, materiati da una disorientante sovrapposizione dei profili: dall’eccezionale, seducente sardonica a 9 strati con i ritratti appaiati di Tolomeo II e Arsinoe II (di incerta datazione, 270-69 ac, Vienna KM) e dalla grande Gemma Claudia (49 dc), a cinque strati di onice, (Vienna KM), a quello, materiato di affascinante negligenza, con Giulia Domna, moglie di Settimio Severo (170/217, Parigi, Cabinet des Médailles).

Alessandria, Tazza Farnese (II sec. ac, Napoli);Kimon, Aretusa, tetradramma,410 c.

La grande Tazza Farnese, cammeo a due facce in agata sardonica, (Napoli, Museo Nazionale), è databile alla metà del II sec. ac, Alessandria dei Tolomei: è considerata il capolavoro assoluto della glittica, eppure la forma liberamente espansa nello spazio della Gorgone, frontale e icastica come l’Aretusa siracusiana del tetradramma di Kimon e come la precedente Athena di Eukleidas, condivide soprattutto la cultura dell’argento (v la Patera in argento con Cibele, da Parabiago, IV sec dc, Castello Sforzesco) e della tipologia dell’oscillum in marmo (come quello del Museo Nazionale di Napoli); il recto è infatti modellato come un rilievo, e la fascinazione della Tazza è quindi dovuta all’icastica e prepotente imposizione dell’immagine espansa, non all’ambiguità materica e all’opacità percettiva che caratterizzano invece le gemme distinguendole dalle altre tipologie creative. D’altra parte, la coppa in sardonice (la cd Coppa dei Tolomei) della Biblioteca Nazionale di Parigi, realizzata forse anch’essa ad Alessandria sotto i Tolomei, mostra la stessa irruente plasticità barocca della Tazza Farnese, ed è chiaramente legata ai modelli in bronzo e in argento estranei alla specificità della glittica.

Sigilli

Sigillo di Vitellozzo Vitelli,1564-1568, tipario in bronzo, Bargello

Le ferite scabrose che dalla rigida superficie del tipario passano alla cera e all’oro coltivano un linguaggio fatto di pochi segni artificiosamente enigmatici. Come certi gioielli, il sigillo esaspera la percezione di una materia minuta che disdegna la riconoscibilità mutuando l’oscurità delle formule frammentate e cifrate dell’esoterismo. E quando il sigillo accoglie le forme della figurazione, come in Guccio di Mannaia e in Lautizio, le infossa nella materia con una visionarietà da incubo.

Domenico Beccafumi, S. Michele scaccia gli angeli ribelli,1526-1530, Siena, Pinacoteca Nazionale

La superficie increspata del sigillo per Vitellozzo Vitelli (1564-1568) del Bargello, fascinoso duplicato dell’impronta digitale nella terra di confine tra organico e inorganico, si contrae in uno schermo di frenetici lacerti come nei dipinti di Beccafumi, mentre le opere spettacolari di Cellini per Ercole Gonzaga (1540, Mantova) e per Ippolito d’Este (1540, Lione) sono più seducenti placchette che veri sigilli perchè subìscono lo stesso destino degli arazzi di Pontormo e dell’Avorio Barberini del Louvre, troppo sconfinanti nei contesti della grande pittura e della grande scultura per adeguarsi ai limiti della specificità tipologica.

Gioielli

Cultura Mochica (II-VIII sec. dc), Collana, argento e oro, II sec. dc,Perù, dalla Tomba del Signore di Sìpan (1987)

Il gioiello eredita dal mondo nomade l’energia visionaria e aniconica delle pietre e ostenta la sua familiarità con i corpi ostili all’organismo. Come segno dell’oppressione e come anamorfosi del corpo malato, il gioiello ha un senso nella deriva della marea inorganica che assedia l’organicità del corpo, ma può anche saldare concettualmente gli estremi opposti del frammento più insignificante con il modello strutturale dell’insieme più esteso.

Un’incredibile gioiello della Cultura Mochica (II sec. dc), trovato in Perù nel 1987, la collana del Signore di Sipan, in argento e oro, mostra la stessa struttura concettuale dello scarabeo stercorario egizio: nel gioiello egiziano la materia più infima, quella legata allo scarabeo, è legata all’insieme universale, il sole, che si muove nello spazio e nel tempo come il grumo di sterco, e anche nella stupefacente collana mochica c’è un elemento minimo, un dettaglio comune della vita quotidiana, l’arachide, che si moltiplica sotto i nostri occhi nella forma di un modulo astratto fino a disegnare un mosaico con il quale si restituisce sinteticamente l’universo stesso, laddove la luce solare (l’oro) è saldata specularmente alla luce lunare (l’argento).

Egitto, Gioiello con scarabeo

Scoprirsi nel mondo
Teatro

Kenneth Brown, The Brig, regia di J.Malina, scene di J.Beck, Living Theatre, 1963, filmato da J. Mekas

La sperimentazione del comportamento che la narrativa in prosa offre al singolo individuo il teatro la estende all’intera collettività ripercorrendo il rituale più arcaico fino al nuovo rituale teatrale che oggi cerca faticosamente la necessità delle origini. Da quando l’Ulisse di Joyce ha fatto coincidere la simulazione dell’esperienza con l’esperienza stessa, ma per una sola volta irripetibile, il teatro ha cercato spesso di trasformarsi in pura performance per tornare a far coincidere il rituale con l’esistenza, ma l’impresa si è rivelata impossibile, perché la percezione dell’esistere si sottrae alla condivisione della collettività per essere solo individuale, come lo è nella lettura privata di Ulisse. Ciò che invece il teatro può ancora fare è ridisegnare la mappa del confine tra il corpo vissuto e lo spazio che lo ospita facendo entrare in collisione gli oggetti e i corpi con una grammatica del perturbante.

Nel magnifico film di Jonas Mekas del 1964 è possibile vedere The Brig, lo spettacolo del Living Theatre che ricostruiva lo spazio ossesso di un carcere militare. Con The Brig il teatro ha trovato momentaneamente la sintesi tra l’angoscioso racconto letterario, memore di Kafka, e (nel dolore insensato) la sua più antica matrice tragica, con una pura presenza del corpo che poi la troppo esibita e retorica intenzionalità antropologica del Living ha purtroppo vanificato.

M. Perlini, A, Aglioti, Otello, 1974

Una sintesi emozionante di gesto e di oggetti, di corpo e parola, è stata sperimentata con grande intelligenza da Memè Perlini e da Antonello Aglioti negli spettacoli creati a Roma negli anni ’70: Locus solus (1976), La partenza dell’argonauta (1976), Risveglio di primavera (1978), La cavalcata sul lago di Costanza (1979).

Danza

Foto da E. De Martino, La terra del rimorso, 1961

La danza, dai tempi più remoti alla contemporaneità, rispecchia le metamorfosi di un Io alla ricerca della leggerezza, quando allenta la morsa della gravità come nelle danze ruandesi dei Tutsi, e di un Io smarrito e inquieto, con la più rara sperimentazione contemporanea che registra la percezione sfuggente del baricentro dell’architettura corporea.

Nei sopravvissuti documentari realizzati nel Salento da Ernesto De Martino e da Diego Carpitella alla fine degli anni ’50 c’è tutta la scabra realtà della danza: il corpo si desta con la musica, oscilla per riconoscere e ricomporre il proprio baricentro disperso, lo mette alla prova nel rischio scalando le pareti di una chiesa.

Pina Bausch; Una coreografia di William Forsythe

Per ritrovare una tale autentica necessità si deve guardare alle opere più amare di Pina Bausch e alle coreografie più intense di William Forsythe, dove la danza sospende la verticalità del corpo per costringerlo nell’avventura emozionante di un percorso accidentato e imprevedibile che riscrive la grammatica dell’estensione corporea nello spazio.

Canto

Notre Dame, Parigi; Pérotin, Spartito, sec. XII-XIII

Il canto, analogamente a quanto fa la danza per il baricentro, si plasma per adeguare e calibrare il suono che viene prodotto all’interno di quello strumento musicale che è il corpo cercando la stabilità di un Io che vuole essere libero di esplorare, come nel fascinoso melisma gotico della Scuola di Notre Dame, e di un Io inquieto e disorientato che cerca il suo baricentro sfuggente, come quello della voce angosciata dell’Erwartung di Schoenberg del 1909.

La voce mostra la pienezza della sua specificità nelle opere sconvolgenti di Leonin (1135-1201) e di Perotin (1160-1230), destinate a Notre Dame di Parigi, dove il melisma scorre fluido verso l’alto, lungo i pilastri gotici, trascinando con sé la parola scomposta prima di tornare verso la navata in basso, con una identità inaudita tra la forma architettonica ogivale e una purificata spazialità musicale che solamente la voce può assicurare ad un livello così alto.

Architettura

Francesco Borromini, s. Ivo alla Sapienza (1642/1660)

L’involucro architettonico induce ad una scioccante reazione fisiologica: costringe a registrare con il corpo, nell’incavo dell’edificio, un respiro che implode a volte nelle brusche dissonanze della struttura muraria dove lo spazio fisico si sfalda nello spazio sensoriale. E questo retaggio arcaico, così profondamente innestato nel tessuto della macchina percettiva, spinge verso il possibile recupero della perturbante discontinuità dell’involucro.

In S. Ivo alla Sapienza di Francesco Borromini (1642-1660) registriamo con il corpo un movimento ansioso di diastole e sistole, un respiro forte e impercettibile delle masse che si contraggono per poi decontrarsi.

Scenografia

Jerzy Grotowski (+1999), allestimento teatrale

L’inerte scenografia del passato ha ceduto nel Novecento alla fascinazione di un utilizzo di scabrosi materiali teatrali che possono riportala all’immediatezza rituale più remota. Dopo il teatro povero di Grotowski, dopo il Living Theatre e dopo le sperimentazioni di Ronconi e di Perlini, dislocate in spazi dilatati memori della drammaturgia del mondo greco, la scenografia confluisce liquida adesso nelle migliori installazioni delle forme post concettuali di fine Novecento.

J. Beuys, Installazione, 1983

Nell’opera di Beuys l’installazione materica mostra in trasparenza il suo debito con la scenografia teatrale.

Giardino

Andrea Mantegna, Trinfo della virtù, 1502, Louvre

Con il giardino umanistico la crescita delle piante si innesta viva nell’involucro architettonico per estendersi poi, con il giardino all’italiana e francese, a specchiare una natura sfuggente che l’agricoltura neolitica non hai voluto né potuto dominare. E con il giardino paesaggistico si attua lo scambio tra un paesaggio esterno, radicalmente ridisegnato, e un giardino selvatico, interno e recintato, che viene ripensato radicalmente anche come materia permeata di fascino letterario.

Il Viridarium di Palazzo Venezia (1468 c) mostra lo snodo tra il giardino pensile di Pienza, di Rossellino, il chiostro monacale di S. Maria Nova, l’orto funzionale medioevale e il viridarium della casa romana caro agli umanisti: era un’architettura vivente. materiata di arbusti che crescevano ovunque sui pilastri creando quello stesso spazio vegetale che si vede nel dipinto di Mantegna Minerva caccia i vizi dal giardino della virtù (1505), che è il cardine storico tra gli ultimi giardini umanistici e il primo giardino all’Italiana realizzato da Bramante in Vaticano.

G. Muziano, Veduta di Villa D’Este, 1565-1567, affresco, Tivoli, Villa D’Este

Le avventure della creatività
Arte contemporanea

M. Duchamp, Trois stoppages etalon,1913-1914, replica del 1963

C’è un paradosso veramente straordinario nella ricerca sperimentale di forme nuove. Nella disattenzione della coscienza, nell’euforia della presunta novità, riemergono nell’opera arcaici modelli visivi di un passato remoto e del mondo rurale, armonici di memoria, e spesso ciò che può sembrare una forma innovatrice è invece l’irresistibile riproposta di torsi incompiuti mai completamente assimilati in profondità. La falda della sperimentazione più autentica, poi, viene contaminata dalle innumerevoli derivazioni scolastiche che hanno lo scopo implicito di svuotare di energia creativa le poche opere durature, spingendole nella fornace dell’entropia. Ma il ritorno dell’enigma eracliteo offre un antidoto prezioso alla devastazione dell’omologazione accademica.

Barra di platino iridio, unità di misura del metro dal 1889 al 1983, Sèvres

Marcel Duchamp, Trois stoppages etalon, 1914-1963. Con questa delicatissima ideazione Duchamp ha visualizzato (consapevolmente ?) il modello di enigma elementare proposto da Eraclito.
La barra rigida che è stata imposta come matrice ideale di ogni metro dal 1889 è anche il paradigma del canone rigoroso della norma, della parola stessa che costruisce il senso di ogni affermazione coerente, segmento costruttivo di ogni descrizione logica, e i tre fili elastici di un metro che prendono ognuno una forma diversa cadendo da un metro di altezza, per essere poi fissati in una leggera sagoma di legno, correggono idealemente quella rigidezza del canone offrendone una delicata versione in versi.
Come un’opera di Arp di quel tempo, questi fili sono lontano dalla fune tesa.
I fili di Duchamp costituiscono l’antidoto al modello concettuale della barra di Sèvres, che imponeva la riflessione sull’angolo retto e sulla linearità, e agiscono sulla percezione come l’espressione enigmatica proposta da Eraclito, il sole ha la misura di un piede, che aveva lo scopo di offrire un antidoto individuale alla catena inflessibile della comunicazione e della necessità materiale.

Arte internazionale

Basonge, maschera Kifuebe, Congo

I tempi dell’arte occidentale non sono gli stessi dell’arte esistente nel resto del mondo: noi viviamo direttamente solo una piccola parte della creatività, e l’arcipelago immenso della creatività lo possiamo parzialmente attraversare solamente se scegliamo di rivivere con intensità le forme più autentiche dell’arte africana, oceanica, asiatica, australiana, che hanno guglie di estrema purezza creativa. E questo è possibile anche davanti ad una singola opera decontestualizzata e conservata in un museo, perché indipendentemente da un viaggio sul posto, che può essere miope e sterile se è miope chi lo compie, la specificità di quelle forme è tutta nella straordinaria energia con la quale delle culture magnificamente creative hanno permesso, nei casi più intensi, un’estrema contrazione di segni.

Mesopotamia, Humbaba, terracotta,1800-1600 ac c, British Museum; Moneta celtica derivante da un modello greco; Terracotta Sao, Nord Camerun

Un segmento di questo sconfinato arcipelago di forme permette di tracciare il percorso della morfogenesi di una di queste straordinarie invenzioni, quella delle sconvolgenti maschere Kifuebe della cultura Basonge del Congo, che mostrano in tutta la sua pienezza la specificità dell’arte realizzata fuori dall’Occidente: la parossistica visualizzazione estrema dell’esistenza interiore.
Questo tracciato emozionante porta le icone più arcaiche, come l’atroce figura di Humbaba, fino alla guglia estrema delle maschere Kifuebe memori delle forme importate dai fenici e delle più antiche scuture Sao, mentre le altre tappe intermedie di questa impressionante visualizzazione della tensione interiore sono dislocate altrove nel tempo e nello spazio, dalla deformazione celtica delle monete greco romane alle sculture plasmate dai non vedenti.

Arte delle origini

Paleolitico, Bisonte scolpito su osso di renna, dalla Grotta de la Madeleine, Musée des Antiquités Nationales, St. Germain en Laye)

Tutto ciò che conosciamo oggi dell’arte è quasi solamente un frammento, se viene collocato nella vertiginosa cronologia della creatività, perchè l’arte, come la conosciamo da poco più di diecimila anni, è il frutto di una fase di latente, irresistibile ridondanza di forme preziose e necessarie prodotte da una interminabile ricerca creativa che si è protratta senza tregua per una durata inconcepibile di tempo; una ricerca vitale che si è sviluppata con opprimente intensità nel segno di una parossistica volontà di controllo concettuale del mondo. E si è instaurato in questo sconfinato periodo di tempo, in questa immensa estensione temporale, un registro dal rigore assoluto che oggi possiamo solo intuire di fronte alla soglia dolorosa del disagio mentale, che forse preserva nel tempo la memoria fossilizzata di un passato sconvolgente.

L’avorio straordinario con il bisonte che si gira, del Magdaleniano (20.000-13.000 ac), dimostra magnificamente la volontà di far coincidere una piccola parte dell’animale, un frammento di osso e di corno, con l’intera vitalità del suo corpo in movimento: l’implosione in questa struggente prospettiva schiacciata rivela l’intenzione esplicita di comprimere e memorizzare in un solo frammento tutto il volume di un corpo vivo in movimento nello spazio. In questa opera l’avorio trascrive nel dettaglio rigido e occasionale di un residuo organico la realtà concettuale del mondo sfuggente: quando il volume si piega nella brusca torsione la massa vivente viene imprigionata per sempre in uno spazio ideale che permette di sottrarla alla storia.

Arte prodotta dalla scienza

Etienne-Jules Marey, Studi dei movimenti dell’aria e del fumo, 1901; William Turner, L’incendio del palazzo del Parlamento,1834

Un contesto culturale eccezionalmente fertile può generare e giustificare opere d’arte autentiche, di altissimo livello, anche in assenza di una esplicita volontà creativa. E’ un fenomeno che può essere compreso in profondità se si guarda oltre i confini tradizionali della Storia dell’arte, al territorio dell’esteticità diffusa. I capolavori: l’eliografia di Niepce del 1826; le ricerche sul movimento dell’aria e i brevissimi, stupefacenti films, di Etienne-Jules Marey; il film di Birt
Acres e Paul Rough del 1895; l’aliante immateriale degli Wright del 1902.

Il caso più emozionante di arte prodotta dalla Scienza, tra i tanti di grande interesse, è sicuramente quello degli Studi dei movimenti dell’aria e del fumo condotti dal geniale Jules Marey nel 1901: le forme fluide che affiorano dagli schermi traforati dei suoi esperimenti, inquietanti come ectoplasmi, sono esplicitamente debitrici delle visualizzazioni dell’aria e del fumo realizzate da Turner in tanti dipinti, come ne il magnifico Incendio del palazzo del Parlamento del 1834.

Etienne-Jules Marey, Studi dei movimenti dell’aria e del fumo, 1901; John Constable, Studio di nuvole,1822

E un altro riferimento fondamentale per Marey è stato senza dubbio il lavoro di ricerca empirica sulle nuvole condotto da John Constable, come si può constatare mettendo a confronto le forme più austere degli Studi dello scienziato francese con quelle, altrettanto severe, di Constable (Studio di nuvole, 1822).

Arte popolare

Mamutones sardi

Memoria della persistenza neolitica e deposito alluvionale delle forme che l’arte della cultura egemone ha di volta in volta sostituito e quindi abbandonato, l’arte popolare è lo sconfinato deposito che preserva nel tempo tutto ciò che viene scartato, dalle forme diffuse e internazionali del neolitico alle forme successive, svuotate e abbandonate perché ormai inutilizzabili per la cultura dominante. Ma le forme vitali della creatività popolare più autentica sono quelle arcaiche che sopravvivono nel rituale collettivo, laddove si dà un ‘orizzonte alla presenza individuale’: il solco dritto, i grandi frantoi monumentali, la sonorità perturbante dei mamutones.

La Zeza, foto del 1947, Bellizzi (SA)

Arte del malessere psichico

Anonimo, Guazzo (pubblicato nel 1964), Ospedale psichiatrico di Firenze;
V, Hugo, Acquarello,1850; A. Rodin, Disegno acquarellato

Nel tunnel che porta dalla metà dell’800 ai primi anni del ‘900 il disagio mentale trova una collocazione nello spazio della creatività: non più solamente naufragio della coscienza, ma anche drammatico recupero di una facoltà intuitiva altrimenti persa e neutralizzata.

Lo studio dell’arte legata al malessere psichico è funestata purtroppo da un doppio equivoco: quello di chi nega, per ottusità, l’esteticità di queste forme, e quello di chi, colpevolmente e in mala fede, le enfatizza insensatamente per fruttare appieno il fascino ambiguo della devianza.
Ma basta leggere senza pregiudizi una delle opere più significative maturate in questo territorio, il guazzo di un anonimo autore degente dell’ospedale psichiatrico di Firenze nel 1964, per scorgere in filigrana la matrice formale che la condiziona: la massa scura, il buio, è quella sperimentata da Victor Hugo con i suoi amari acquarelli (1850), mentre la figura in piena luce, che da quel buio si svincola angosciosamente mutilata, è quella cercata da Rodin con i suoi disegni più acuti e più intimi.

Arte infantile

Disegno di un bambino debole di vista

L’arte infantile si adegua subito al contatto con la committenza degli adulti, una presenza autoritaria che agisce senza tregua contro tutto ciò che nel registro espressivo del bambino porta all’introversione e lontano dal dialogo. E’ di questo che si occupa la grigia letteratura scientifica sull’arte infantile: sondare il comportamento infantile senza cercarne le stupefacenti tracce di nuove realtà.

Al bambino viene richiesta l’articolazione ortodossa di una depressa descrizione inventariale del mondo, contraria a quella che all’origine viene oscuramente animata nello scarabocchio. Ma ci sono forme che sfuggono a questa tirannìa, quelle dei ragazzi quasi non vedenti che esasperano le forme grafiche infantili, che non possono abbandonare, con esiti di affascinante intensità.

Copie

M. Buonarroti e B. Ammannati, Ponte a SS. Trinita, 1571, FI (ricostruito nel dopoguerra)

La copia di un’opera d’arte non è necessariamente un simulacro inautentico; il disagio di fronte alla copia deriva dall’incapacità di capire la realtà profonda dell’opera stessa, ed è dovuto alla preferenza che viene data all’aspetto materiale dell’oggetto a scapito della sua realtà concettuale. La ricostruzione integrale del Ponte a Santa Trinita dimostra come sia possibile ricostruire rigorosamente l’opera distrutta senza tradirne l’autenticità.

Quando si ha la volontà di capire in profondità la realtà dell’opera scomparsa o impraticabile sono possibili copie rigorose come quella del Ponte di S. Trinita a Firenze, sostenuta con intelligenza da Bruno Zevi. Il ponte di Bartolomeo Ammannati (1571) era stato distrutto durante la guerra, nel 1944, e fu ricostruito con i materiali originali nel 1958.

Ed è possibile e legittimo riprodurre anche opere preziose e rare praticamente invisibili, come la Cattedra lignea Sancti Petri (trono di Carlo il Calvo del sec. IX con inserti più antichi) conservata all’interno nel gruppo berniniano in S. Pietro e visibile grazie alla bella copia tedesca realizzata nel 1974 (Tesoro di S. Pietro), e come la magnifica copia del Codice Purpureo di Rossano Calabro, evangeliario greco del 550 conservato nel Museo diocesano calabrese, consultabile alla Biblioteca Nazionale di Roma.

Altre copie sono il frutto di scelte culturali di altissimo livello, come quella che impone di ricostruire periodicamente, ogni venti anni, il tempio giapponese scintoista di Ise (databile tra il 690 e il 720 dc, la redazione attuale, del 1993, sarà scomposta e ricostruita nel 2013), e come quella che prevede, nella cultura australiana, di rinnovare sistematicamente i dipinti totemici senza alternarne minimanente l’autenticità.

L’arte attraverso le immagini del passato

Stefano Della Bella (1610-1664), veduta marina, acquaforte; Costruzione di una nave, sec. XVII, incisione

La realtà di opere d’arte scomparse può rivivere attraverso l’interpretazione offerta in altri sopravvissuti contesti creativi, come è il caso del giardino umanistico documentato accuratamente nei dipinti di Mantenga, degli strumenti musicali più antichi presenti nelle miniature altomedioevali, degli abiti registrati nei dipinti da Rosso Fiorentino, da Pontormo e da Goya, e delle grandi architetture navali, scomparse ma sopravvissute magnificamente nei dipinti e nelle stampe dei pittori più sensibili.

Nei rari casi di più autentica creatività non si tratta mai di mera raffigurazione illustrativa, ma di ricostruzione di interi contesti altrimenti sfocati e dispersi: l’abito antico dipinto da Pontormo, da Rosso Fiorentino e da Goya conserva in tutta la sua realtà l’emozionante potenzialità creativa che l’abito aveva o che poteva avere nel suo tempo, perchè ne porta in salvo la complessità e ne intercetta l’emozionata percezione sensoriale; un abito dipinto da Rosso Fiorentino è anche il progetto di come quell’abito poteva essere indossato e forse anche di come poteva essere diversamente realizzato.
Altrove, in una incisione delicatissima di Stefano Della Bella, il più sensibile illustratore poetico del Seicento, appare in tutta la sua precarietà e fragilità la struttura della nave antica.

Beatus de Liébana, Commentari all’Apocalisse (particolare), miniatura, Scuola di Saint-Sever, sec. XII Parigi, BN.

Nei Commentari medioevali dell’Apocalisse, come in quello della Scuola di Saint-Sever del sec. XII, e a volte in alcuni affreschi, come in quelli della Cripta di Anagni, i Vecchioni, che nel testo antico sono definiti citaredi, hanno in mano una ribeca o una fidula, e questa sembra essere la traccia di un organico di soli archi del quale forse la storia della musica non ha trovato traccia.