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Lo spazio aperto dell’esteticità diffusa
Attraversare l’esteticità diffusa
Sono tante le sciocchezze che è necessario ignorare prima di poter studiare serenamente l’insieme dello spazio creativo dell’esteticità diffusa: una deprimente demagogia reclama insensatamente, ancora oggi (2011), il riscatto per tutto ciò che si ritiene sia stato ingiustamente sottovalutato, come le inesistenti arti minori o arti applicate, che non hanno nessun bisogno di veder riconosciuta una irreale pari dignità culturale con le altrettanto inesistenti arti maggiori per il semplice fatto che queste categorie non hanno nessun significato nella realtà. Ciò che esiste, infatti, è lo spazio continuo dell’esteticità diffusa, dove vengono date risposte diverse e domande diverse.
Gran parte delle opere prodotte nel territorio della creatività hanno il compito fisiologico di trasmettere e perpetuare gli stereotipi del comportamento, e le forme della condivisione collettiva, accettate così passivamente, sono le portatrici sane delle spore di quegli stereotipi: è anche per questo motivo che non ha senso rivendicare demagogicamente un’insensata parità tra le forme creative, perchè la qualità che viene faticosamente cercata con le opere più radicali risponde ad una domanda di antidoto e di pausa dignitosa nella inflessibile catena della comunicazione, mentre la quantità, l’accumulo massivo di segni già predisposti per essere pienamente condivisibili, risponde alla domanda, che non è mai spontanea ma sempre indotta dalla cultura egemone, di un asettico archivio collettivo che è anche purtroppo un potente narcotico per la libertà individuale. E d’altra parte, la diffusione massiccia, quantitativa, di una forma, non incide in nessun modo sulla sua qualità.
La componente più solida e resistente della catena della creatività, che è quella protetta dalla cultura egemone, si rafforza di giorno in giorno trasformando le forme aleatorie, come quello strumento di comunicazione collettiva che è la piazza, in forme stabili, come la televisione, mentre la poesia continua ad essere il segmento più debole di quella catena, perché nasce dalla generosa volontà dei singoli di cercare un antidoto, un catalizzatore prezioso, di qualità, che ci difenda dalla prepotente infestazione quantitativa della comunicazione.
E dietro l’idiozia delle forme popolari da riscattare non c’è altro che la meschina vocazione della cultura dominante per una oppressiva riduzione alla norma, per una ottusa normalizzazione forzata che ha lo scopo di svuotare e segregare la presenza perturbante della fragile, generosa qualità individuale che si oppone alla prepotente, demagogica infestazione degli stereotipi.
Ebbene, oggi è più che mai necessario distinguere chiaramente l’esistenza di una creatività che alimenta la libertà individuale, offrendo una struttura da indossare, da quelle forme della creatività che hanno invece la funzione implicita di dominare l’immaginazione con un telaio di facili suggestioni che hanno il solo scopo di colonizzare e condizionare la macchina della percezione.
Nella filigrana
Pittore romano, Scena di battaglia navale, 19 ac., Corridoio C della Villa della Farnesina, Museo Nazionale Romano, Roma
Vedere la filigrana: l’affascinante lievità delle opere degli autori ipersensibili che operano nella Roma di Augusto attorno al 19 a.c. mostra in tutta la sua purezza l’intensità poetica che può essere nutrita da un contesto culturale capace di coltivare un territorio dell’esteticità diffusa che si estende dalla poesia alla glittica e al giardino.
La battaglia navale della Villa della Farnesina è stata dipinta in uno stato di esaltazione febbrile che corrode le forme sfaldandole in una impaziente, convulsa gestualità;
Pittore romano, particolare di una parete del Triclinio C, 19 ac, Villa della Farnesina
gli incredibili paesaggi notturni del Triclinio C portano al limite estremo un lirismo visionario di immensa fascinazione,
mentre i rilievi a stucco creati per lo stesso edificio sono stati plasmati con un analogo, estenuante lirismo che nella piccola volta lascia affiorare solamente un quasi impercettibile, vibrante tracciato narrativo.
In queste opere delicatissime si denuda la filigrana del visibile: il contenuto qui è irrilevante, le forme della battaglia e delle scene della volta potrebbero illustrare qualsiasi altra cosa, e proprio la loro presunta destinazione decorativa è la condizione liberatoria che ha permesso ai due autori di declinare la prosa narrativa ellenistica in una acuta trascrizione in versi.
Scultore romano, Scene rituali, stucco, 19 ac c. Volta della volta del Cubicolo E, Villa della Farnesina
Ercole de Roberti (Ferrara, 1456 / 1496), Pietà, dall’altare in s. Giovanni in Monte a Bologna, Liverpool
In altri momenti, in contesti diversi, quella febbrile intensità è vissuta in forma di energia implosa: nella Pietà quattrocentesca del ferrarese Ercole de Roberti (+1496) una dolente linearità sorregge il fragile telaio, crudelmente disseccato, del gruppo centrale, e l’esasperante matassa di segni illeggibili dello sfondo denuncia la pressione di una metamorfosi che trascina a forza verso l’alto le linee rette rigidamente ancorate a terra, prima attraverso la brusca contrazione fossile delle due figure e poi nell’asprezza delle linee acute dei profili collinari, che nella parete livida dell’orizzonte vengono frantumate in segmenti quasi cancellati.
Nicolò dell’Abate (+1571), La calunnia di Apelle, penna, inchiostro e bistro, Louvre
Vedere la filigrana. Nell’inedito spazio culturale dominato dall’angosciata reverie di Rosso Fiorentino e dall’ipersensibilità dolorosa del Parmigianino, dell’Abate realizza ne La calunnia di Apelle il sogno privatissimo di una scrittura interamente materiata di energia isterica, tenebroso sismografo dei nervi.
Francesco Guardi, Gondola sulla laguna (1765 o 1780 c.); Milano, Museo Poldi Pezzoli
La Gondola sulla laguna è una pagina rarissima scritta in versi da un pittore poeta che non ha mai smesso di cercare l’epidermide vulnerabile e indifesa del mondo. Qui si avverte il momento cruciale, il respiro trattenuto, di una definitiva ricerca di rarefazione.
F. Guardi, Burrasca,1770-1775 c. Castello Sforzesco, Milano
E il rapinoso, ipersensibile tracciato della battaglia navale della Farnesina riemerge nella freschezza del dipinto più gestuale di Guardi, nella Burrasca (1770-1775 c) di Castello Sforzesco.
Monet, La Rue Montorgueil a Parigi, festa del 30 giugno 1878, Musée d’Orsay, Parigi;
Monet, Rue Saint-Denis, festa del 30 giugno 1878, Musée des Beaux-Arts, Rouen
Poi, le due magnifiche versioni della festa parigina del 30 giugno 1878, di Monet, sanciscono nell’Ottocento la stupefacente sopravvivenza della possibilità di dissolvere le forme con un dettato frenetico che cerca una pura percezione retinica.
Kurt Schwitters, 1949
Qualunque sia il diverso contesto culturale e storico, la diversa giustificazione concettuale, niente può frenare questa affascinante ricerca della struttura interna del visibile, ed è quello che avviene con le opere più intense di due lirici novecenteschi.
Kurt Schwitters è stato un amaro principe dell’esilio, segregato dall’opacità della cultura dominante nell’insulsa formula scolastica dell’irrilevante movimento Dada, punito con il silenzio per il disinteresse che ha sempre ostentato per l’opera rappresentativa, per il capolavoro che sollecita e rende possibile la musealizzazione. Questo autore delicatissimo è stato condannato anche dalla sua stessa confusa attività creativa, che lo ha portato a realizzare poche opere autentiche quasi invisibili nell’insieme caotico del suo lavoro. Contro di lui, poi, ha lavorato il tempo, che ha quasi cancellato la straordinaria freschezza dei suoi segni poetici, sminuiti adesso dalla mortificante classificazione di opere che sarebbero precorritrici dell’Informale e dell’installazione concettuale.
Questo pittore puro, capace a volte di pensare il visibile attraverso i più fragili dettagli erratici, sembra aver condiviso come nessun altro la struggente musica del Quintetto per strumenti a fiato (Op. 26, 1924) di Schonberg, dove lo spazio della percezione è reso consapevolmente, dolorosamente opaco, perchè anche Schwitters, nei suoi lavori più scarnificati, ha trovato con un casto pudore la sedimentazione dei segni impoveriti del mondo che solamente le parole della poesia più introversa di quegli anni, di Rilke, potevano condividere: Questo prodigarsi del cuore / ora risparmiamolo più segreto (R. M. Rilke, Elegie Duinesi,1922).
Jean Fautrier, opere,1957
Per Fautrier, negli anni della Fenomenologia di Merleau Ponty, il graffio lievissimo sulla pelle delle cose è invece un abbandonarsi alla precarietà del vedere, ed è solo questa consapevolezza che gli ha permesso di variare all’infinito uno stesso calco epidermico che sfiora la superficie corrugata del mondo senza annullarne l’emozione iniziale, fermandosi in tempo sulla soglia dell’entropia, come avviene con la Seconda Sonata per pianoforte (1948) di Pierre Boulez.
Scavare l’intensità
Sarcofago di Portonaccio,180 c. Roma, Museo Nazionale Romano
Lievità, filigrana e respiro ansioso. Oppure densità massiva e dolorosa anossia: la massa convulsa del Sarcofago di Portonaccio, frutto della straordinaria cultura creativa del tempo di Marco Aurelio, è scavata rabbiosamente in un magma lavico che spinge fuori della superficie ogni residuo di spazio con parossistica intensità.
s. Angelo in Formis (Capua), Storie di Cristo,1057-1087
Ed è questa stessa ineludibile necessità di intensità che impone all’autore della scena della Presa di Cristo in S. Angelo in Formis (sec.XI), nel momento più acuto della cultura benedettina, di plasmare uno dei testi più affascinanti della pittura, dove le forme si addensano calamitate da uno sfuggente fulcro centrale che le opprime per costringerle in un ganglio che è impossibile sciogliere, mentre le fragili linee epidermiche che striano la superficie vibrano luminose nella retina per contrastare, per esasperare, l’opacità dei corpi macerati.
Filippo Lippi, Madonna Trivulzio, 1432 c., Milano, Castello Sforzesco
Scavare l’intensità. Filippo Lippi ha redatto con la sua Madonna Trivulzio (1432 c) uno spartito di sole dissonanze, elaborando in uno stato di irripetibile felicità creativa un brano che è interamente materiato di pure variazioni del volume, un rilievo plastico compresso in un telaio di liriche, innaturali deformazioni che permettono alla singolarità eccentrica di ogni dettaglio di smottare senza ritorno in uno spazio di irresistibile fascinazione.
Francesco Mazzola il Parmigianino, Matrimonio mistico di Santa Caterina, 1529, Louvre
E poi c’è la ricerca di intensità che porta ad una dolente insofferenza per il racconto descrittivo. Non sappiamo se la forma di abbozzo del Matrimonio mistico (1529) di Mazzola sia volontaria, però il dipinto si è sedimentato così nel tempo e sono gli stessi disegni di questo ipersensibile pittore che ci hanno educato ad accettare queste forme incompiute che insabbiano la materia in uno spazio di morbosa densità.
Salvator Rosa (+1673),Paesaggio con soldati e cacciatori, Louvre
Nel dipinto più lirico di Salvator Rosa, il Paesaggio con figure del Louvre, la consistenza materiale è disseminata e dispersa ovunque, tutto il dipinto è corpo che respira affannosamente la sua intollerabile densità, e qui la figura umana, confinata in segmenti minimi, è un doloroso arto mancante.
F. Guardi, Piazza San Marco parata per la festa della Sensa, post 1776, Vienna, KM
E l’irresistibile vocazione poetica alla densità è radicata anche in uno dei due poli opposti del registro creativo di Guardi: nella Festa della Sensa (1776 c) il pittore salda la freschezza della trasparenza alla necessità di plasmare un luogo di morbosa fascinazione, i frammenti sono schiacciati in un profilo depresso che li spinge in una sedimentazione inerte, nella dolente reverie di una materia che può sopravvivere solamente nella precarietà della retina.
A. Fontanesi, Alla fonte, 1860, mercato antiquario
Antonio Fontanesi (+1882), il più sensibile e intelligente principe dell’esilio della pittura dell’Ottocento italiano, è stato spinto dalla conoscenza diretta dei paesaggi di Rembrandt verso una pittura visionaria dominata da una perturbante luce oleosa che approda ad una sorda cancellazione della materia (Alla fonte, 1860).
La malìa del perturbante
Moneta celtica, I sec. ac (?),variazione da uno statere d‘argento di Filippo II del IV sec;
Gerusalemme, Stampo per ampolla con Daniele tra i leoni, sec. VI
La percezione inquieta. L’alternativa alla freschezza liberatoria della filigrana e alla necessità di densità della contrazione materica è nella capacità delle opere d’arte di irretire l’immaginazione con la malìa struggente del perturbante, una suggestione che si insinua soprattutto laddove si sedimenta il deposito alluvionale di forme culturali che resistono a tutto ciò che cerca di cancellarne la matrice più arcaica.
In queste opere si avverte un irrequieto svincolarsi dal dominio dello sviluppo progressivo delle forme che viene imposto da altri, in questa strettoia i nervi sono esasperati nella malìa di una doppia percezione, dove la continua metamorfosi del segno sembra contraddire tutto ciò che è legato alla funzione pratica dell’oggetto.
Così le monete celtiche scompongono la figura naturalistica greco romana, imposta come normativa dalla cultura dominante, e ne disgregano i segmenti in forme erratiche che contraddicono ogni possibile riconoscibilità, ogni figurazione parziale e limitata nel tempo, approdando alla struggente reverie di uno spazio privo di dimensione e di storia, e le fasi intermedie di questa mutazione in corso recano il turbamento di una emozionante e irripetibile avventura della percezione.
Le affascinanti Ampolle palestinesi del VI sec. miniaturizzano dei graffiti di stridente acutezza che trasmettono con forza l’eco della cultura costantinopolitana, condizionata sempre da un’irrefrenabile ansia.
Teofane il Greco, Trasfigurazione,1403, Galleria Tretjakov, Mosca
E c’è un’affascinante pittura del Medio Oriente europeo che salda la più violenta, febbrile animazione segnica alla struttura fossilizzata di uno schema che nel tempo sembra opporsi, ma solamente ad una lettura epidermica. all’evoluzione stilistica. Nella magnifica Trasfigurazione (1403) di Teofane il Greco la crudele trazione azionata del rigido telaio grafico sottopone le forme ad una spasmodica deformazione, e qui l’esasperazione di arcaici segmenti figurativi, in un pedale tenuto di sconcertanti note stridenti, aziona una perturbante energia ostile che contraddice con la sua brutalità lo stesso contenuto religioso del dipinto.
Leon Battista Alberti, Tempietto del santo sepolcro,1467, tomba di G. Rucellai, Firenze; Jacopo Carrucci Il Pontormo, studio per Gli israeliti che si dissetano nel deserto, matita,Uffizi
Con il perturbante della presenza le cose possono contrarsi dolorosamente sotto i nostri occhi, come il Tempietto realizzato da Alberti per la famiglia Rucellai nel 1476, che si ritrae nello spazio con la stessa desolata solitudine dell’uomo melanconico descritto in una sua poesia.
E sono perturbanti i corpi nudi sdoppiati in due masse speculari, saldate in una dolorosa simmetria animale, che in un disegno di Carrucci il Pontormo mostrano una carnalità quasi dilavata da ogni riconoscibilità.
Alessandro Magnasco, Il furto sacrilego,1731, Milano, Museo diocesano
Nel perturbante della visceralità, ci può emozionare il Furto sacrilego di Alessandro Magnasco (1731), dove l’ossessivo tormento imposto alla materia innesta la percezione sgomenta di un corpo che è allo stesso tempo viscerale ed esterno, agitato da quella convulsa e irrefrenabile smania delirante che Piero Camporesi ha descritto nel suo appassionato Il pane selvaggio (1980). E la gestualità frenetica di questo dipinto di Magnasco ha un corrispettivo nella sonata per archi Il trillo del diavolo di Giuseppe Tartini (1740), che è giustificata da un’analoga necessità di indagare la tenuta parossistica della forma.
G. B. Piranesi, Sepolcro dei Curiati ad Albano, 1748 ac, acquaforte
L’osmosi perturbante tra organico e inorganico è invece al centro della ricerca creativa di Giovan Battista Piranesi (+1778), soprattutto nelle sue vedute di rovine romane incise a metà Settecento, nella reverie struggente di una morbosa contaminazione dei corpi e degli spazi che alimenta l’opaca stimmung di una irrequietezza senza conforto.
Trumeau, sec. XVIII, Cà Rezzonico,Venezia
E in quel momento storico, agitato da riflessioni filosofiche contraddittorie e dal più impaziente sperimentalismo, ci sono opere affascinanti come il grande trumeau veneziano di Cà Rezzonico, un’opera magnifica che non è stata realizzata come capolavoro unico, ma come consapevole variazione di una serie infinita di oggetti simili, come lo sono anche le delicate caffettiere d’argento degli stessi anni, tutte opere che appaiono profondamente materiate da una singolare intensità, perché i mobili come questo di Cà Rezzonico, come i tanti argenti settecenteschi, sono stati plasmati con il lascito della fertile poetica di Borromini, frenata nel Seicento romano dal barocco polimaterico di Bernini ma rivitalizzata poi da architetti geniali come Guarino Guarini e Bernardo Vittone e travasata nel Settecento nelle forme dell’architettura contratta e miniaturizzata del mobile e dell’argento.
Nel trumeau di Cà Rezzonico questa perturbante energia borrominiana traspare con forza e impone alla massa architettonica un respiro ansioso che è retto dalla simultaneità di diastole e sistole, c’è un volume che sotto i nostri occhi si contrae nella concavità e si dilata nella convessità, memore della facciata dell’Oratorio dei Filippini (1637-1667). Questo volume si chiude verso di noi minacciandoci in un registro acutissimo di osmosi con lo spazio che lo ospita, che implode paurosamente in un perturbante smottamento. La contrazione in basso dei profili che si sdoppiano porta alla disgregazione in alto del fastigio che viene spinto fuori, indifeso nello spazio vuoto. E la superficie di questo spazio rovesciato verso l’interno, di questo magnifico corpo architettonico inabitabile e prospetticamente irraggiungibile che possiamo solo toccare, aprire, chiudere, è sgranata a mosaico dall’impiallacciatura che denuncia una trazione che non smette di deformare l’intero volume.
Luoghi
Donato di Betto Bardi, d. Donatello (+1466), particolare dei rilievi dell’Altare maggiore di S. Antonio (1446-1450), Padova; F. Mazzola il Parmigianino, Madonna di Santa Margherita,1529-1530, Bologna
Esistono dei luoghi, nelle opere d’arte di ogni tipologia, che coinvolgono la macchina percettiva in una irresistibile fascinazione, e questi luoghi ipnotici non sono vincolati necessariamente alla sensibilità individuale di chi è capace di scoprirli, perché sono il frutto concreto della ricerca consapevole di una liricità sempre più acuta, accessibile a chiunque decida di abbandonarsi alla pura lettura della forma senza essere condizionato dall’evocazione irresistibile del racconto.
Ed è davvero impossibile sottrarsi alla maglia di segni che nei rilievi visionari di Donato di Betto Bardi per l’Altare maggiore di s. Antonio (Padova, 1446-1450) disgrega la materialità dei corpi per comprimerla contro il fondo, in uno stupefacente telaio di volumi che si stiacciano senza cedere niente della loro consistenza.
Al centro della Madonna di Santa Margherita di Girolamo Mazzola agisce invece una stuporosa gravità che svuota progressivamente la materia assorbendola per spengerne la luce e il colore e per cancellarne con un amaro ductus fangoso i residui descrittivi.
Johannes Brahms (1897)
Luoghi. Nella musica di Brahms, nelle sinfonie (1862-1885) e nella Ouverture tragica (1880), ci si trova improvvisamente in uno spazio rarefatto nel quale siamo stati trascinati e dal quale non possiamo desiderare più di uscire, spianate desolate dove le forme musicali arrivano stremate dalla tensione e dominate da una struggente nostalgia irrelata, stuporosi spazi interni che Brahms può aver visitato per la prima volta nella tormentata Quarta sinfonia di Schumann (1841).
Gustav Mahler (+1911); Alessandro Antonelli, interno della Mole Antonelliana, 1862-1899,Torino, foto del 1976, prima del riuso come Museo del Cinema (2000)
E nel cuore dell’Adagio dell’incompiuta Decima sinfonia (1910), scritta da Mahler in una condizione di grande sofferenza, poco prima della morte (1911), si concretizza inaspettato un interminabile accordo dissonante, una sconvolgente crepa che si apre paurosamente nello spazio creando un luogo inedito della percezione, un posto che non è stato mai visitato né prima né dopo di lui (Schonberg si rifiutò saggiamente di completare l’opera).
Ebbene, l’immensa aula disadorna dell’edificio torinese (1862-1899) di Alessandro Antonelli, uno spazio che è stato ideato sostanzialmente privo di destinazione, agli occhi di chi l’ha vista prima del suo brutto reimpiego museale (2000) aveva lo stesso fascino perturbante di quel luogo struggente dell’Adagio di Mahler, un contenitore inquietante di pura presenza priva di scopo.
Poetica della negligenza
Pittore romano del III secolo dc., particolare della Cappella Greca, Catacombe di Priscilla, Roma;
Denaro Antiquiore, argento, Roma, epoca di Giovanni VIII e di Carlo il grosso (872-882)
Esiste una poetica della negligenza che in ogni periodo storico ha coltivato una consapevole e ricercata vulnerabilità della forma.
La negligente pittura catacombale del III secolo, frutto di questa poetica, contrastava l’infestazione minacciosa della più violenta materialità con la ricerca di un perturbante calco della presenza, e la semplificazione gestuale di questa pittura derivava paradossalmente dalla più licenziosa pittura erotica romana, perché come quella poteva evocare una realtà materiale talmente evidente da non aver bisogno di essere descritta nei dettagli ma solo accennata, ed aveva un senso negli anni di Plotino, quando la materia più sorda poteva essere immaginata come ombra opaca proiettata da una grande luce troppo forte.
Così, nella magnifica moneta carolingia del tempo di Carlo il grosso (872-882) l’energia plastica del corpo e dei suoi movimenti coincitati è registrata da un ductus che ferisce la superficie d’argento impedendo al volume di fissarsi in una delle sue innumerevoli posture, con una freschezza immaginativa che rivive raramente nella numismatica.
Stefano da Verona (Stefano da Zevio,+1438), disegni,Firenze,Uffizi
Tra le opere più emozionanti di questa consapevole poetica della negligenza ci sono i disegni di Stefano da Verona (Stefano da Zevio), uno straordinario, lirico principe dell’esilio che è stato relegato nell’ombra dal più prosastico Pisanello. Questo pittore allo stato puro ha cercato intenzionalmente con i suoi disegni una materia eternamente dissonante, volutamente erronea, sostituendo ogni minimo segno descrittivo con un segmento svuotato di senso e magnificamente negligente. Egli ha reagito quasi con sdegno alla retorica dell’elegante descrizione tardo trecentesca che Pisanello ha invece perfezionato come seduttivo linguaggio dominante.
Filippo Lippi. Pietà, 1459 c., Milano, Museo Poldi Pezzoli
E una raffinata negligenza costituisce a volte l’esito di altri autori concentrati nella pura ricerca, come è il caso di Filippo Lippi, che nella sua tarda Pietà (1459) del Poldi Pezzoli si ritrae nella cripta silenziosa di un poetico e intenzionale anacronismo rifiutandosi di aderire alla facile spettacolarità rinascimentale.
Benvenuto Cellini, Ducati per Clemente VII, 1529-30, oro, Milano, Castello Sforzesco
Quando Cellini realizzò i ducati per Clemente VII, dopo il Sacco di Roma (1529-30), sembrò approfittare dell’urgenza e della fretta della committenza per allentare momentaneamente il peso dell’ossessiva cura tecnica con la quale aveva sempre operato, e il risultato è quello di una materia insolitamente abbreviata e sistematicamente sfasata. Cellini in questa occasione può essersi sentito libero, per una volta, di essere un nano sulle spalle di giganti, pensando alle irripetibili invenzioni liriche donatelliane, a quelle forme negligentemente poetiche che sapeva bene di non poter emulare.
Arazzeria medicea, ambito di A. Bronzino, sec. XVI, Quirinale; Albarello, 1550, attr. a Maestro Simone, Castedurante;
Giulio Bonasone, Cupido mostra Dafne ad Apollo, 1545 c. bulino
Ci sono poi delle forme della negligenza che pur maturando ai limiti dalla creatività intenzionale sono innestate in un contesto che le giustifica pienamente, come è il caso di certi arazzi medicei di metà Cinquecento realizzati su disegno di Bronzino che sembrano avere il ruolo implicito di stemperare l’austerità della troppo ardua icasticità dei modelli progettati da Carrucci il Pontormo per quella stessa serie.
Analogamente, certe forme della pittura su ceramica di metà Cinquecento aderiscono alla freschezza liberatoria delle illustrazioni librarie per allentare la rigidezza degli istoriati raffaelleschi, e un incisore eclettico come Bonasone mostra una acuta consapevolezza della consistenza epidermica dell’illustrazione destinata esclusivamente al libro.
Antonio Viviani (+1620), Storie dell’Antico testamento,1613/1614 c. Palazzo Barberini, Roma. Sale del Palazzo Sforza inglobato nell’edificio pontificio edificato e completato dal 1627 al 1639.
Una testimonianza veramente affascinante di questa poetica della negligenza è data dagli affreschi (1613-1614) di Antonio Viviani dell’ex Palazzo Sforza inglobato nel palazzo romano dei Barberini (1627-1639): la figurazione di Viviani, abbreviata fino al limite estremo dell’abbozzo informe, è giustificata in quegli anni di inizio Seicento dall’ambiente della cultura arpinesca, fedele al lascito culturale di Filippo Neri che prevedeva un recupero critico della pittura catacombale.
Johan Barthold Jongkind, (+1891), Porto
Claude Monet (+1926), Scogli a Belle-Ile, 1886, Louvre
Con il suo Scogli a Belle-Ile (1886), Claude Monet ha declinato la maravigliosa sciatteria dell’olandese Jongkind (+ 1891), verso il quale ammise con sincerità di essere debitore, per depurare quella materia convulsa dalla sua emozionante frenesia gestuale e dall’intensa emotività memore di Hals, approdando ad una epidermide ruvidamente bidimensionale e intenzionalmente scarnificata, ridotta a frattali svuotati e inerti con un processo di lirica semplificazione che ha un equivalente nel passaggio dalle piene e aggressive sperimentazioni di Hector Berlioz (+ 1869) alle forme più purificate di Debussy, come sono quelle del Quartetto per archi op. 10 del 1893.
Emile Bonnard, Marthe, 1919; Autoritratto; Marthe
Nei primi decenni del Novecento troviamo infine la pittura perturbante con la quale Bonnard oppone una struggente tenerezza che mostra tutta la vulnerabilità del corpo agli sviluppi prepotenti della poetica della trasparenza di Matisse e all’infestante vitalità eclettica di Ruiz Picasso.
P. Bonnard, Foto della moglie Marthe
Bonnard cancella, con apparente ottusità, laddove gli altri aggiungono, e cerca la debolezza stremata del vedere in alternativa all’incontrollabile voracità del guardare. Questo delicato pittore vuole quasi dimenticare come si dipinge, e in questo ritrarsi sdegnoso di fronte allo spettacolo impudico del guardare è vicino a quel remoto, meraviglioso ritrarsi di Stefano da Zevio.
Oskar Kokoschka, Aiutate i bambini baschi, 1937, litografia
E con lo stesso disagio per l’infestante evidenza dell’immagine, Kokoschka scelse con la sua amara litografia dedicata all’evento di Guernica (1937) di ricorrere al linguaggio figurativo più scabrosamente depauperato, e anche lui ha cercato come Bonnard di sconfinare dalla tecnica ortodossa della pittura per vivere l’emozione di sgrammaticati segni embrionali confinanti con l’arte infantile e occasionale.
Un continente sommerso
Antonio Fontanesi, Aprile,1872-1873, Gam, Torino; Pittore non professionista,Paesaggio
Nei tristi tropici della creatività si estende un vasto continente sommerso che vive dei resti della creatività della cultura dominante, un deposito insondabile nel quale ogni forma abbandonata finisce di decantarsi nella deriva dell’entropia, e in questa landa sconfinata, che costituisce in parte la forma attuale dell’arte popolare, la creatività si nutre tristemente di fantasmi inariditi che sono un eco sempre più debole di opere autentiche, come dimostra la frequente ripresa delle opere dei pittori romantici come Fontanesi.
Duchamp, Farmacia, 1914; Pittore non professionista,Paesaggio
Quando nel 1914 Duchamp comprò una delle immagini già predisposte per i pittori non professionisti, firmandola e intitolandola Farmacia, lo fece forse per una profonda e inavvertita empatia con il mondo popolare sommerso, guidato più da una forma di sottile pietà antropologica che da una presunta e sterile ironia.
F. Picabia, Nudi,1940 c.; Pittore non professionista, ‘Lo spirito del mattino’; I. Klein, Anthropometries, 1960
Il suo amico Francis Picabia, d’altra parte, nel ’40, decise di adottare senza remore la tecnica dei pittori non professionisti per ritrovare paradossalmente il piacere di una libertà incondizionata che i rigori dell’avanguardia accademica non potevano più offrirgli.
L’arte realizzata nel continente sommerso degli artisti occasionali, inesistenti per la cultura dominante, è stata umiliata con la deportazione in massa nel territorio del presunto cattivo gusto, però nessuno osa contrastare il mercato e l’egemonia accademica denunciando il carattere di arrogante cattivo gusto che rende grottesche alcune opere novecentesche forzatamente storicizzate e mai rimesse in discussione.
Certo, è facile sorridere per il malizioso nudo illustrativo che nelle ingenue intenzioni di un pittore non professionista evocherebbe addirittura lo spirito del mattino, ma sarebbe imprudente, nel regime tirannico della cultura egemone, sorridere anche delle ridicole Anthropometries dell’Accademico di Francia Yves Klein, che nel 1960 prevedevano incongruamente perfino l’accompagnamento di un complesso strumentale da camera.
L’insidiosa fascinazione dell’immagine
J. Turner, Incendio in mare, 1834, Londra; J. Turner, Incendio alla Camera dei Lords e dei Comuni il 13 ottobre 1834, 1835
In aperto contrasto con l’imbarazzante sciatteria di quel mondo sommerso, le forme più attraenti dell’arte possono essere a volte il frutto di una accurata strategia della seduzione, e lo splendore dei dipinti di Turner ne è la dimostrazione più evidente.
Nella lega delle opere di questo grande seduttore è necessario distinguere la componente di oro dell’autenticità dalla componente di rame del calcolo fascinatore: è oro la sua freschezza materica e gestuale, ma è rame il dosaggio ragionato di forti emozioni visive che sarebbero quasi altrettanto seducenti anche nella realtà, come è il caso delle sue navi che bruciano in mare, dove le combustioni centrali impongono un’irresistibile suggestione ipnotica, e dello spettacolare riflesso nell’acqua dell’Incendio alla Camera dei Lords, due quadri dipinti nel 1834, dieci anni prima dell’assai più intenso Pioggia, vapore e velocità (1844) con il quale Turner sembra quasi essersi pentito di aver sfruttato così impudicamente il suo talento per sedurre l’immaginazione degli altri, concedendo a se stesso una poetica sperimentazione materica dove l’oro prevale nettamente sul rame.
W. Duyster, Soldati davanti al camino, sec. XVII, Olanda, Filadelfia
Nel dipinto olandese di Duyster, i Soldati davanti al camino, invece, il rame dell’artificio e della strategia seduttiva prevale sull’oro della creatività. Il pittore ha pianificato pazientemente una struttura costituita da un mosaico di segnali che attirano insistentemente la macchina percettiva in una ricognizione continua, tutto è regolato da calcolati effetti di controluce che evidentemente rendevano suggestivi gli interni secenteschi anche nella realtà, e la fascinazione ipnotica del dipinto nasce proprio dall’aver fissato una concreta realtà visiva altrimenti sfuggente.
Francesco Cairo, Erodiade con la testa del Battista,1633-1635, Torino, Galleria sabauda; F. Cairo, Erodiade, Vicenza, Pinacoteca; F. Cairo, Martirio di s. Agnese,1635
Ed anche un sensibilissimo pittore come Francesco Cairo (+1665) sembra non aver resistito alla tentazione di sedurre l’immaginazione degli altri, nel tempo della tenebrosa e teatrale cultura secentesca lombarda: la sua invenzione più efficace è quella di una vasta superficie corporea in penombra che si sposta di lato con un effetto di scorcio di ricercata suggestione; nei suoi dipinti il rame dell’assestamento retinico e del perturbante spaesamento percettivo prevale sull’oro di una raffinata sensibilità materica.
Sebastiano Mazzoni, Annunciazione, 1650 c. Gallerie dell’Accademia, Venezia
Come Cairo, anche Sebastiano Mazzoni lascia che la sua sensibilità visionaria si estenda a colonizzare tutta la superficie del dipinto, e anche in questo caso un pittore puro si è fatto condizionare dalla tentazione irresistibile di abbandonarsi ad uno scandaglio del visibile privilegiando l’emozione indotta da un mosaico fluido di dettagli spettacolari. Se Francesco Cairo ci seduce con una massa espansa che frana dolcemente di lato, Mazzoni sa di poterci affascinare con un disgregarsi epidermico di splendidi frammenti che si formano attimo per attimo sotto i nostri occhi.
Questi pittori, così sequestrati dal loro grande talento, operano con sincerità, non c’è dubbio, e forse non sono neanche seduttori intenzionali, eppure la loro opera è spesso costruita fin dall’inizio per sedurre prima di tutto l’immaginazione degli altri, creando delle forme stupefacenti che creano assuefazione senza potenziare in chi guarda la macchina per decifrare il mondo.
Giuseppe Sammartino, Cristo velato, 1753, Cappella di Sansevero, Napoli; Henri Cartier Bresson, Quai des Tuileries, Paris, 1956
E un altro grande seduttore dell’immaginazione è Giuseppe Sammartino. Con il suo Cristo velato di Napoli (1753) rievoca l’invenzione sofistica della Nike che si allaccia il sandalo (410 ac), ma la sua scultura, che poteva essere perturbante per l’intensa osmosi tra la materia organica simulata e la concreta materia inorganica, denuncia invece apertamente, nell’epoca dell’Illuminismo, la sua natura di pura sperimentazione scientifica, di lucida e scoperta dimostrazione tecnica.
Un’esplicita volontà di sedurre domina anche tutta la vastissima opera di Cartier Bresson. Il suo Quai des teuileries del 1956 riassume tutto l’oro e il rame presente nel suo lavoro. E’ oro la comprensione della specificità della fotografia: la percezione è attirata e reclusa in un raggelato segmento del reale che costringe lo sguardo ad una ricognizione visiva che non ci permette di decifrare i singoli dettagli senza essere costretti a tornare incessantemente al fulcro centrale, alla confluenza delle fasce scure e delle sottili liste bianche in una zona neutra dove la rigidezza delle parti architettoniche subisce l’insinuarsi dell’ombra liquida, dell’acqua e delle poche figure. Ma è rame la retorica costruzione di matrice letteraria della stuporosa e seduttiva scenografia di una teatrale sospensione del tempo che Cartier Bresson condivide con il troppo artificioso Resnais de L’anno scorso a Mariembad (1961).
T. Eakins, La canoa a due rematori, 1872, Filadelfia Museum of Art; A. Wyeth, Il mondo di Cristina, 1948, NY
E infine può essere interessante riflettere sul caso della seduttiva pittura di Andrew Wyeth, davvero emblematico per capire quanta insensata cecità sopravvive per le forme d’arte di matrice ottocentesca e illustrativa.
In un recente volume italiano (2006) dedicato esclusivamente all’arte americana dall’800 ad oggi, accanto ad una troppo generosa documentazione degli autori più insignificanti della fragile cultura artistica americana, a Wyeth, pittore nazionale di quel Paese, sono riservate solamente quattro incredibili righe (in un volume di ottocento pagine), e la sua pittura, per quanto questo possa sembrare grottesco, viene accostata a Tobey e a Pollock (!) pur di non ammettere l’esistenza di una dignitosa figurazione illustrativa che deriva dal fresco realismo del più colto e sensibile dei pittori americani dell’Ottocento, Thomas Eakins.
Tracce del pensiero
Australia, dipinto murale; Cina, Dinastia Sung, Vaso a forma di cistifellea, sec.XIII
A volte nell’arte vive l’emozionante freschezza dell’immaginazione filosofica, e quando il pensiero ha la possibilità di condizionare direttamente l’opera d’arte il risultato è materiato da un lirismo inedito che deroga dalla vincolante tipologia delle forme, come accade nella stupefacente pittura australiana, dove un’intensa cultura della presenza giustifica e sollecita l’invenzione di una motilità segnica irrefrenabile che rievoca, con la proiezione delle sue liquide, diafane striature bianche sul rosso del fondo, l’agitarsi senza tregua di un corpo vissuto che non può mai separarsi, neanche per un attimo, dall’insieme unitario di una materia che non ammette discontinuità.
Ed è il caso anche della più delicata ceramica Sung, dove la cultura Chan (Zen), nel momento tragico dell’invasione tartara della Cina, giustifica una sottile nervatura di crepature che visualizzano con irripetibile suggestione poetica la possibile perdita della consistenza materiale del mondo, in una accettazione della disarmata concretezza delle cose che da allora ha sempre caratterizzato il pensiero Zen.
‘Dévot Christ’, sec. XIII-XIV, Cattedrale diPerpignan (FR); Cultura di Teotihuacan, Tre teste, II sec.-VII sec. dc.
Il vigoroso pauperismo francescano ha portato nel medioevo ad opere di sconvolgente intensità poetica, come il Cristo di Perpignano, del quale giustifica l’atroce disseccazione che fa implodere il corpo nella condizione di intollerabile esoscheletro del dolore. E un’analoga sconvolgente intensità poetica vive in certe opere della austera cultura di Teotihuacan, che prevedeva un legame indissolubile, morbosamente dominante nell’immaginazione collettiva, tra la morte e la vita.
Collage di Schwitters; Joseph Beuys durante una performance
Poi, negli anni più fertili del pensiero novecentesco, la fenomenologia e l’antropologia hanno giustificato le rare opere di più grande autenticità: Kurt Schwitters nei primi decenni del Novecento trascrive in versi quella stessa necessità di ricominciare a guardare il mondo che Schoenberg stava sperimentando in musica e che forse solamente la Fenomenologia di Husserl poteva condividere.
Quando Beuys ripete con innocenza il gesto del lavoro, esentandolo dal bisogno della sopravvivenza, trascrive in versi la pietà antropologica che Levi Strauss aveva provato attraversando i tristi tropici e che De Martino aveva avvertito con forza struggente nella sua terra del rimorso. E Beuys rivive in questo modo, fosse anche inconsapevolmente, la condizione popolare della sofferenza, che sposta nella piena visibilità del mondo con una radicalità poetica che gli ha consentito di non falsificarne la realtà con una insincera riproposizione teatrale.
L’eterno presente della creatività
Roma o Bisanzio, Evangelista, cd Foglio porpureo di Xanten, sec VI c, pergamena, Bruxelles, BRA; foglio sciolto inserito in un manoscritto carolingio del IX sec.
Ci sono torsi incompiuti che richiedono una continua rivisitazione e uno scioglimento progressivo di pensieri troppo densi svincolati dai limiti cronologici del loro tempo. Sono le rare opere d’arte che erigono le pareti di un eterno presente dove viene vanificata ogni cronologia e ogni presunzione di continuo superamento.
Nello stupefacente foglio purpureo di Xanten (VI sec.) confluiscono secoli di una ricerca radicale coltivata per nutrire una fertile incertezza della retina, tracce effimere di un Io che non cerca solidità e sicurezza, ma il fertile rischio di una instabilità nel mondo ininterrotto degli eventi.
Questa magnifica traccia effimera risponde, con la sua riduzione estrema a pura, repentina gestualità, alla necessità di strappare gli eventi dalla loro storia immediata per dilavarli da ogni nozione esteriore. E risponde, con la sua estrema fragilità materiale, con il suo affascinato accamparsi nella zona più sfocata della macchina percettiva, all’indefinita necessità di riconoscere all’Io individuale una precarietà che lo pone incessantemente sulla soglia di un rischio senza difesa.
Michelangelo Buonarroti,Pietà,1564,Castello Sforzesco, Milano
Nella sua ultima opera, nella Pietà del 1564, Buonarroti è finalmente libero dal calco fascinatore della cultura ellenistica che lo ha sempre condizionato, è libero dal ricordo di Masaccio e di Donatello, e vede distintamente che l’Io individuale vive nell’asse oscillante del baricentro che quelle due figure sorreggono saldandosi tra di loro, sfaldandosi una nell’altra, vede che la storia individuale può allentare la sua stretta soffocante in una purezza di irripetibile intensità che ne cancella ogni segno.
H. Seghers, Paesaggio roccioso con mulino a vento, incisione, 1620
Questi autori, con queste singole opere, sono principi dell’esilio che cercano l’eterno presente della creatività, i loro torsi incompiuti sfidano consapevolmente il rischio della illeggibilità per offrirci un fertile enigma che risveglia.
E se lo stupefacente Paesaggio roccioso con mulino a vento inciso da Seghers nel 1620 contraddice radicalmente ogni forma europea elaborata in quelli stessi anni, non è per lo sterile desiderio di sedurre gli altri, ma per una irresistibile seduzione che la realtà dell’arte (i più raffinati dipinti cinesi che il pittore olandese ha sicuramente visto) ha esercitato su di lui, così affascinato dalla possibilità di vivere fino in fondo la struggente rêverie di un mondo disabitato.
James Ensor, Le tribolazioni di Sant’Antonio,1887, Moma, NY
Un dipinto come Le tribolazioni di Sant’Antonio di Ensor (1887) dimostra quanto sia sterile equivocare la sperimentazione più autentica come anticipo di qualcosa che deve ancora essere ideata e realizzata, perchè il magnifico dipinto di Ensor non anticipa niente: è il risultato finale, il punto di arrivo, di una necessità profonda, non è un inizio.
Questo registro di acute, convulse cancellazioni e di crudeli dissonanze, questo precipitare frenetico delle graffiature epidermiche sull’inerte deposito alluvionale di materia svuotata, ha un equivalente nell’incubo degli accordi dissonanti della Decima di Mahler del 1910. Sia il dipinto di Ensor che il brano di Mahler non sono anticipi sulla pittura e sulla musica informale del Novecento, sono il punto di arrivo di una estenuante ricerca del limite, di una zona neutra capace di sospendere l’incubo della storia, e quasi tutto ciò che è venuto dopo è stato condizionato da una (sleale?) volontà di cancellare nella fornace dell’entropia questi avamposti della ricerca di autenticità.
Paul Cézanne, Cabanon de Jourdan, 1906, Gnam, Roma
Queste opere, questi principi dell’esilio, sono una sfida alla corrosione dell’entropia, ed è per questo che resistono in un eterno presente.
Cèzanne, con il suo Cabanon de Jourdan del 1906, ha sabotato la velenosa macchina dell’entropia scansando tutto ciò che può essere imitato e snaturato: se osserviamo a lungo la sconcertante parte sinistra del dipinto, dove lo smottamento doloroso e indecifrabile dei piani ha un equivalente nell’inaspettato annodarsi centrale dell’Ouverture tragica di Brahms, possiamo sorridere dei fragili dipinti di Ruiz Picasso e di Georges Braque che hanno cercato inutilmente di trascinare nella fornace della ripetizione un dipinto come il Cabanon.
Il dipinto di Cezanne lascia imperare al suo interno un segmento piatto che unifica senza motivo l’intero spazio disponibile, in una collisione opaca di masse senza spessore che si sedimentano insensatamente una sull’altra.
E per vedere davvero questo dipinto difficile, che dopo un secolo non ha perso ancora niente della sua inedita freschezza e della sua complessità, dobbiamo prima dimenticare tutto ciò che gli è stato sovrapposto dopo, tutte le banalità illustrative del Cubismo e tutte le più goffe derivazioni popolari.
Una sera ho fatto sedere la Bellezza sulle mie ginocchia e l’ho trovata amara, e l’ho insultata
(A. Rimbaud, Una stagione all’inferno, 1873).