Lo sguardo negato

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Lo sguardo negato 

L’angelo del Riposo nella fuga in Egitto (1599), di Michelangelo Merisi il Caravaggio, ci volge le spalle e ci invita ad adottare il suo stesso punto di vista: davanti a questa figura seduttiva che attira il nostro sguardo si estende lentamente lo schermo denso del visibile, uno scenario che possiamo immaginare negli occhi del giovane dipinto nel 1507 da Lorenzo Lotto. L’angelo del Riposo è una boa spaziale che permette al nostro sguardo di ancorarsi al fulcro ottico formato dal bianco del drappo e dal nero delle ali che vediamo gravitare al centro del dipinto. Questa figura è il paradigma che permette di decifrare il tracciato di una liturgia dello sguardo.

I giovani che abitano i primi dipinti del pittore lombardo, dal 1593 al 1597, ci fissano negli occhi con uno sguardo innocente, sono adolescenti precristiani, vestiti all’antica in un limbo pagano nel quale sembrano non avere colpe da espiare, come gli ignudi adolescenti del cinquecentesco Tondo Doni. Il loro sguardo ci attira dapprima verso una materia che appare illusivamente della più grande concretezza, ma poi ci abbandona nell’ingranaggio retorico dell’iperbole che di quella materia esalta solo la vuota apparenza.

Siamo nel mondo severo del pauperismo di Carlo Borromeo che viene innestato a Roma nell’alveo del più conciliante pauperismo oratoriano di Filippo Neri, e lo sguardo di quei giovani ha la forma del monito: ci invita a guardare per giudicare.

 

Con le opere realizzate per il Giubileo del 1600, con la spinta del pauperismo moderato di Neri, nei dipinti di Merisi si dilata un incavo in cui il numinoso non ha ancora fatto irruzione. Chi si muove in questa penombra è privato dello sguardo, che è fierezza e scambio, ed è sottoposto alla forza corrosiva e punitrice del nostro sguardo esterno che è guidato a forza in quella cavità da una luce artificiosamente selettiva e inquisitrice. Guardare questa materia, nell’accentuazione retorica dell’iperbole che ne impone l’attraversamento, significa giudicare moralisticamente gli altri con lo stesso rigore puritano di chi alla Vallicella assisteva, nell’anno 1600, alla severa Rappresentatione di anima et di corpo di Emilio de’ Cavalieri.

 

Coerente con la spiritualità pauperistica che lo condiziona, Merisi elabora una sua poetica dello sguardo negato: il Narciso (1597-1599) cristallizza nel chiasmo il moto circolare dei due sguardi, la Medusa (1596) ne esaspera l’aggressiva invadenza.

 

Adesso lo sguardo diretto e seduttivo dei primi dipinti non è più possibile: la Canestra di frutta (1600) segna il passaggio definitivo di quello sguardo innocente dei giovani precristiani a uno sguardo che corrode crudelmente la materia.

La Canestra, in bilico come l’angelo del Riposo in una soglia che segna l’estrema periferia del dipinto, è mutuata dalle analoghe raffigurazioni pompeiane, conosciute attraverso chissà quante repliche scomparse, perchè Merisi pensa le immagini attraverso la vivida memoria di ciò che già esiste. Qui, nella Canestra, la violenta accentuazione illusiva attivata dalla forma retorica dell’iperbole imprime una forzatura percettiva che costringe chi guarda ad un ipnotico coinvolgimento: se le foglie della canestra decadono sotto i nostri occhi, seguendo il senso della lettura nel tempo accelerato della Vanitas con memento mori, questo significa che il nostro sguardo le corrode dimostrando il suo potere inquisitore.

Questo oggetto, così vicino ai nostri occhi, in bilico sul bordo estremo della visibilità, viene colpito da una reazione provocata dalla stessa accentuazione dell’iperbole.

Da questo momento, se nei primi dipinti del Merisi eravamo attirati dallo sguardo degli adolescenti prescristiani verso oggetti inerti e pienamente illuminati, ora il nostro sguardo potenziato non si specchia più in altri volti, e scandaglia nella penombra alla ricerca di una materia umiliata.

 

Nei dipinti della cappella Contarelli si estende la liturgia dello sguardo negato: nel Martirio di Matteo (1602) la circolarità stringe verso un centro inerte, ancora una volta con un nodo di bianco e di nero nella veste di Matteo, e il pittore si specchia nel dipinto con lo sguardo calamitato verso questo centro amorfo. Merisi sovrappone nel Martirio la memoria vivida di immagini che già esistono adattandole alla densità del naturalismo lombardo, ed è per questo motivo che non ha bisogno di disegnare, perché proietta letteralmente sulla tela delle immagini già plasmate.

Nella larga stesura che deduce dal Miracolo di s. Marco di Tintoretto (1548) innesta la figura di carnefice incisa da Raimondi nel 1511 per la sua Strage degli innocenti, alla quale sovrappone ulteriormente la figura dell’uomo che si sporge in alto a sinistra del dipinto veneziano. La struttura complessiva del dipinto, poi, è esplicitamente desunta dal dipinto di Muziano del 1589 (Aracoeli).

 

M. Raimondi, Strage degli innocenti, incisione, 1511 (particolare); M. Merisi, Martirio di s. Matteo, 1600-1601, S. Luigi dei Francesi, Roma;

 

J. Tintoretto, Miracolo di s. Marco,1548, Galleria dell’Accademia, Venezia

G. Muziano, Martirio di s Matteo, 1589, Aracoeli, Roma

 

Nella Vocazione di Matteo (1600), lo specchiarsi delle figure nell’allitterazione, a due a due, costringe ad una ricognizione visiva trascinata nel profilo di una ellisse schiacciata che impedisce allo sguardo di sostare, nella lenta liturgia dello sguardo che culmina nei dipinti di S. Maria del popolo (1601): nella Crocefissione di Pietro la lettura è sostenuta da un telaio geometrico, la fune tesa in alto è il lato deformato di un quadrato sbarrato dalle diagonali della croce, e la progressiva cancellazione nell’ombra dei volti dei carnefici (del loro sguardo colpevole) ci spinge verso il volto di Pietro al centro del dipinto. E l’unico approdo anche qui è il neutrale punto focale del grumo di bianco e di nero al centro del dipinto.

Anche nella Madonna dei Palafrenieri (1606) il bianco e il nero fissano guglie di una neutrale luminosità emergente dalla penombra, una boa spaziale che è necessario sfiorare per scendere in profondità. Nella Caduta di Paolo la cecità e la rotazione a chiasmo drammatizzano ulteriormente l’impossibilità di avere uno sguardo, e accelerano l’esasperazione iperbolica della materia che ora si schiaccia paurosamente contro chi guarda.

 

In quegli anni aristotelici sembra imperativo uno sguardo indagatore e moralistico, disponibile al gioco di una doppia, contraddittoria percezione, uno sguardo che non vede la realtà perché ne contraddice l’essenza stessa che è data dall’irrapresentabile simultaneità degli eventi.

E lontano dal mondo di Caravaggio è invece la parola, in virtù della sua malleabile vulnerabilità, che sonda efficacemente il reale, le tante parole di Shakespeare, che nel 1601 apre con l’Amleto il laboratorio della più divorante libertà immaginativa, e le tante parole di Giordano Bruno che nel 1600 è portato a morire con la lingua in giova stretta da una morsa di legno, obbligato al silenzio lui che ne Gli eroici furori aveva negato la positività del vedere perché la realtà non può essere fissata ma solo cercata senza tregua, e aveva scritto: l‘infinito, per essere infinito, sia infinitamente perseguitato.

1974-2001