Schede
Koons
J. Koons ostenta dalla fine degli anni ‘80 la figura dell’artista cinico, provocatoriamente antipatico e volgare, che il mondo dell’arte e il pubblico hanno subito accettato con immenso favore.
La sua opera, le vicende della sua vita privata, le vistose vendite all’asta, non scandalizzano più nessuno e questa eclisse dello scandalo ha un motivo ben preciso, perché Koons occupa ormai efficacemente il posto lasciato vuoto da Andy Warhol che a suo tempo aveva perfezionato le modalità di uno snervato comportamento libertino perfettamente inserito all’interno del sistema dell’arte contemporanea.
E se Warhol si contrapponeva all’europeo Beuys e al suo impegno sociale, Koons fa oggi da bilanciamento con le sue perversioni da salotto alla generosa vocazione al racconto e al dialogo delle nuove generazioni.
Dopo lo scalino del gusto postmoderno Koons ha potuto realizzare pienamente la sua identificazione nella figura dell’artista libertino del Settecento, ma la sua è solamente una seduttiva declinazione accademica del lascito di Warhol: dopo il precedente della presunta esistenza come arte di Duchamp e della esibita esistenza come volgarità di Picabia, due artisti che potevano rivendicare una vita esente dall’impegno della sopravvivenza materiale, Warhol aveva disegnato con la sua facile teatralità il profilo di un artista che mette in scena la doppia figura del filosofo cinico che simula una fredda indifferenza per il mondo e del pensatore libertino del Settecento che attraversa la vita con disincanto. E Koons indossa consapevolmente proprio questo abito settecentesco del pensatore libertino, con l’esibizione epidermica di una vacuità che associa all’esplicito recupero delle tecniche illustrative settecentesche con la piena adozione della leggerezza decorativa che quelle tecniche prevedevano. Koons si avvale dell’opera di ceramisti e scultori italiani, a conferma dell’esistenza di una bottega all’antica ancora più anacronistica della Factory di Warhol.
Allegoria satirica della Pittura, porcellana, 1769, Amburgo
Il suo Michael Jackson and Bubbles del 1988, una ceramica duplicata in più copie, espone chiaramente il modello paradigmatico del libertinismo settecentesco: la scimmia come figura provocatoria dell’artista eccentrico, un’immagine che circola in tutta l’iconografia settecentesca, soprattutto nella porcellana tedesca che Koons cita esplicitamente (Picabia aveva inserito nella sua Naura morta del 1920 una scimmia impagliata come ritratto di Cezanne, di Rembrandt e di Renoir).
Opere come Il San Giovanni battista, da Leonardo, un’altra porcellana del 1988, la Portantina in inox a imitazione degli argenti settecenteschi (1986), e la coppia in marmo del 1991, sono le altre tappe dell’identificazione anacronistica di Koons.
Perfino i tre palloni sospesi in un composto liquido, del 1985, erano già una visualizzazione scientifica che rievocava il settecento illuminista e sperimentale ancora permeato di ricerca alchimistica e di magia naturale.
Il Rabbit in acciaio anticipa, nel 1986, l’intenzione di fissare in una materia inalterabile le forme più effimere e ludiche, proprio come accade nel Settecento quando la porcellana si presta all’illustrazione più leggera.
Le foto erotiche con la moglie (1990) rientrano nello schema fin troppo prevedibile di questa messa in posa libertina e il modello figurativo è chiaramente quello dei dipinti licenziosi di Boucher, come le Odalische del 1745 e del 1753, mentre la stessa materia liquorosa delle foto è quella della Toilette di Venere di Boucher.
I monumentali Puppy realizzati con migliaia di fiori (prima nel 1992 e poi nel 1997 per il barocco Guggenheim di Ghery a Bilbao) sono la riproposta in pieno XX secolo dell’arte topiaria settecentesca.
E con le sue nature morte spinte in primo piano, come Cake del 1997, Koons suggerisce l’altro inequivocabile paradigma barocco, la Natura morta con Vanitas, e questa è davvero una rivelatrice, irresistibile confessione dell’intento moralistico che si nasconde goffamente dietro l’ingenua dissacrazione che Koons vorrebbe farci credere di voler praticare, una confessione che fa pensare all’imbarazzante, religiosa adorazione compiuta da Warhol nel filmare così staticamente il gotico Empire State Building nel 1966.
In Cake si leggono in trasparenza i dipinti secenteschi moralistici, come quelli di Willem Heda, dove i dolci abbandonati sul tavolo dicono appunto la precarietà delle cose, e questi testi edificanti in Koons sono illuminati a giorno dal filtro della materia espansa di Boucher e dell’arazzo settecentesco e poi resi ancora più epidermici dalla grana delle grandi forme decorative del tardo barocco ottocentesco francese, come quelle delle carte da parati di J.Desfossè (1855 c.).
2001
Cattelan
Il successo internazionale di Cattelan è facilmente comprensibile se si guarda all’insieme delle sue opere senza lasciarsi fuorviare dalla loro apparente eccentricità e soprattutto dalla loro apparente, calcolata discontinuità.
Pier Leone Grezzi, Miracolo di San Filippo a Vincenzo Maria Orsini futuro Benedetto XIII, 1730 c., Matelica
Girolamo da Treviso, Il papa lapidato dai quattro evangelisti, 1536 c., Hampton Court (dipinto in Inghilterra in occasione dello scisma anglicano)
Quella di Cattelan è la realizzazione puntigliosa di un progetto che sembra già sostanzialmente tutto previsto e pensato; un lavoro che comunque è privo di quella leggerezza e di quella ironia che gli vengono universalmente riconosciuti.
Con l’alibi di una rivisitazione dissacrante vengono sistematicamente riproposte tutte le fasi storiche dell’avanguardia: dal new dada all’arte concettuale e all’arte povera, dalla performance alla body art, dall’environment alla land art, dall’adolescente disincanto anarchico di Fluxus al vuoto minimale, fino al recupero integrale del recente lascito formale di De Dominicis.
Una vera e propria antologia di un passato musealizzato che arriva al momento giusto, proprio ora che una virulenta retorica barocca impone la monumentalizzazione dell’avanguardia delle origini per disinnescarne e archiviarne definitivamente i segni.
E infatti questo lavoro viene premiato proprio per la sua tempestività, come viene premiato il teatrale, tempestivo pseudo-cinismo di Koons che permette l’archiviazione definitiva di tutto ciò che c’era ancora di inquietante nel lascito del libertino Warhol.
Le opere. La Nona Ora (2000) è scopertamente una barocca Caduta sotto la croce, realizzata con le forme settecentesche della cera dipinta integrata da abiti di stoffa che conosciamo soprattutto dalle opere di Angelo Piò (Bologna, sec. XVIII); un ricorso all’iperrealismo della cera dipinta barocca che viene adottato anche dai fratelli Chapman che guardano evidentemente alle immagini catastrofiche di Zummo (Firenze, sec.XVII) come quelle plasmate per La Peste del Bargello (1).
Le stesse vicende esteriori de La Nona Ora poi ricalcano puntualmente i passi obbligati del mecenatismo barocco: prima viene il consenso in uno spazio culturale diffidente verso la chiesa romana (Londra), poi la scontata reazione cattolica (Varsavia) e infine l’acquisto (di una copia) del mecenate privato con l’immediata valorizzazione nel mercato dell’arte. E anche la recente immagine di Hitler in Him (2001), che è una figura di committente inginocchiato (crudele ma devoto), desunta dalle pale d’altare del Barocco, esiste materialmente come rievocazione dei ritratti settecenteschi in cera dipinta di Piò.
Angelo Piò, Busto, cera colorata e stoffa, sec.XVIII, Bologna, Santuario della Madonna di San Luca;
Oppenheim, opere
Queste opere di Cattalan confermano l’imperante tendenza internazionale al recupero acritico della figurazione barocca, e intanto sono anche la debole trascrizione dell’opera più importante di Rauschenberg, Monogram (1955-59), che a suo tempo introdusse la figura impagliata e reclusa in un arcano spazio remoto (in Cattelan l’icasticità ferma di Monogram è allentata e sbloccata dal ricorso alle opere di Oppenheim che negli anni ’70 usò dei manichini vuoti da ventriloquo).
A proposito di Monogram, Rauschenberg dichiarò di aver messo la capra dentro la ruota affinché nessuno potesse chiedersi cosa ci faceva la capra sopra la tela: in questo modo l’attenzione veniva interamente spostata dal momento della sorpresa e del disagio al momento successivo dell’insidiosa familiarità con l’enigma dell’opera.
E questa di Monogram era una tappa cruciale dell’allontanamento radicale dalla sospensione lirica di Duchamp: si passa uno scalino e subito dopo è quasi inevitabile essere nello sprofondare prosastico nel racconto che gli oggetti sono in grado di sostenere, dove la capra nella ruota viene subito investita dal contenuto letterario che giace nel suo passato in attesa di essere rievocato, perchè la capra di Rauschenberg non è meno moraleggiante del suo modello pittorico, Il capro espiatorio dipinto da Hunt nel 1854, e non è meno descrittiva della capra villosa cavalcata nelle porcellane di Meissen o dell’ariete zodiacale che passa nel cerchio astrologico.
Ne La Nona Ora la figura del pontefice giace sotto l’asteroide perché non ci si possa chiedere: cosa ci fa una Caduta sotto la croce nel XXI secolo? Perché un tema così settecentesco (e retorico) come un pontefice sopravvissuto ad un incidente? E anche in questo caso, analogamente a quanto accade per Monogram, riemerge prepotentemente uno scontato provocatorio modello iconografico legato allo spiritualismo cattolico che si nutre di vittimismo: il Papa lapidato di Girolamo da Treviso.
Per decifrare nei dettagli il catalogo di Cattelan, senza incorrere nelle impudiche giustificazioni sociologiche che gli vengono troppo generosamente offerte dalla critica, basta scorrere idealmente le pagine della storia artistica recente e cercarne l’eco.
L’antologia di Cattelan iscrive nel suo vasto registro un esempio della performance rischiosa (l’evasione dalla finestra del castello di Rivara nel 1992), di quella disincantata e negligente di Fluxus (Biennale dei Caraibi), di quella espressionista e teatrale di Vostell, con la macchina inserita nell’albero ad Hannover, nel 2000, e di quella minimale (la sala espositiva vuota in una delle tante occasioni).
Si registrano le figurazioni amare di Kienholz svuotate di pathos (Andreas e Mattia, 1996), la performance violenta e tribale di Nitsch, con un uomo drammaticamente incollato alla parete in A perfect day (1999), la pericolosità della body art con il fachiro sepolto vivo della Biennale del 1999.
Le azioni ambientaliste di Beuys sono imitate al Wiener Secession, con la luce prodotta poveramente dal lavorìo di due biciclette.
Le maschere di lattice antologizzano l’ingenua serialità popolare di Warhol.
Il Bel paese (1994) ripete l’icasticità luminosa e fuori contesto che Warhol ha messo nelle grandi immagini della Pepsi Cola del 1962.
Il cavallo sospeso in alto, in Novecento (1999), cita enfaticamente il cavallo sospeso del cinema di Eisenstein (Ottobre), ma anche e soprattutto gli animali impagliati sospesi nelle Wunderkammern del passato.
Coccodrillo impagliato, XV secolo, Curtatone, Mantova, S.Maria delle Grazie.
I tagli di Fontana si sovrappongono, non certo ironicamente ma retoricamente, alla presunta icona popolare della firma di Zorro in Senza titolo del 1993.
Il presunto furto del 1992 (Fondazione Oblomov) e la vendita del proprio spazio espositivo (Biennale del 1993) sono una innocente e teatrale messa in posa che doveva solo rievocare l’inoffensivo cinismo di Warhol attraverso l’immagine retorica di un Mercurio che si muove velocemente dall’essere ladro all’essere un abile mercante.
Il recente Hollywood per la biennale di Venezia (2001) è un’opera di land art (come era già land art il cubo di terra con l’ulivo del 1998) e anche questa lavoro conferma l’esistenza di un progetto mirato che punta ad una completa ricognizione antologica a tutto tondo del passato. In questa Hollywood perfino l’esplicito riferimento ai precedenti immediati (come quello di Ed Ruscha, The Back of Hollywood del 1997) tradisce la volontà di approdare ad una suggestiva sedimentazione delle immagini già esistenti.
Ma è comunque l’opera di De Dominicis, che gode attualmente di un ingiustificato apprezzamento critico e che nessuno osa mettere in discussione, ad essere fin troppo chiaramente il punto di riferimento più solido per Cattelan.
Gli scheletri degli animali scarnificati e sovrapposti del 1997 e di Pluto (1998) ripetono esplicitamente quelli di De Dominicis per lo scheletro con i pattini e il cane del 1970, e sono anche la citazione letterale degli scheletri rinascimentali dei memento mori e delle Wunderkammern.
Opere come lo struzzo con la testa nel pavimento (1997) e come gli animali impagliati sovrapposti (1997) adottano uno schema concettuale che De Dominicis ha utilizzato pienamente con la Mozzarella in carrozza del 1970 e prima ancora nell’allestimento con il giovane down del 1969, opere che alla loro prima apparizione mi confermarono l’esistenza di quello scalino già introdotto nel 1959 da Monogram: una semplice espressione verbale si concretizza materialmente in un ingombrante tableau vivant. E’ la sleale strategia barocca riproposta nel XXI secolo.
E Cattelan adotta evidentemente da De Dominicis questo modello. Le opere possono essere la concrezione casuale di espressioni verbali a patto di assumere la forma saccente di un esoterico monito filosofico.
Quindi tutte le opere d’arte, del passato e del presente, possono essere tradotte in una trasparente filigrana che le alleggerisce e le destoricizza, esattamente come ogni espressione verbale popolare può concretizzarsi in un’ingombrante e deflagrante immagine tattile o in un evento spettacolare.
E questo è proprio il sogno barocco di una arbitraria archiviazione di tensioni mai completamente attraversate. Nella fresca ariosità e nel disimpegno divertente che nasconde un serioso progetto pedagogico i delicati pensieri ancora compressi dell’avanguardia delle origini vengono dispersi e oscurati.
Ma il percorso accademico che porta da Rauschenberg a De Dominicis e a Cattalan oggi può anche essere serenamente ridimensionato. Questo sottile smottamento catartico, questa catarsi aristotelica del dramma dell’avanguardia, non viene affatto nobilitata dal distacco che questi autori hanno creduto di possedere.
Nota
(1) Vedo ora che anche un articolo sull’inserto del Giornale dell’arte, nel giugno del 2000, accostava, ma solo occasionalmente, l’opera dei ceroplasti settecenteschi come Ercole Lelli a quella degli artisti contemporanei.
2001