La moda contemporanea nel tunnel dell’entropia

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La Moda contemporanea nel tunnel dell’entropia

La perturbante icona funeraria dell’abito universale del XX e del XXI secolo, l’opaca giacca e cravatta maschile, lascia trasparire in filigrana la sua sconcertante struttura: noi vediamo chiaramente sotto la pelle lo sterno (la cravatta), i muscoli volontari e involontari (la giacca scura e la camicia bianca).
Si tratta di una radicale visualizzazione del corpo indifeso, privato della sua patina, una contrazione estrema dell’abito antico che dall’epoca neoclassica in poi segna l’abbandono, per l’abito maschile, del colore e dell’ostentazione del corpo a favore di una ossessiva omogeneità formale che in Europa ha un precedente altrettanto intensivo solamente con l’abito maschile dell’Olanda borghese del Seicento.
Il significato profondo di questo paradossale abito universale è inavvertito dall’incredibile quantità di persone che lo indossano ipnoticamente tutti i giorni, in tutte le parti del mondo, eppure questa icona che sembra davvero inalterabile conserva integra tutta la sua inquietante necessità e una struggente severità arcaica.

Questo abito, così apparentemente modesto e sempre pensato come la più banale divisa dell’omologazione, disegna nel panorama del XX e del XXI secolo un’incredibile fascia continua di impressionante intensità, un fregio plastico talmente stabile nel tempo da ridicolizzare la credenza popolare della presunta volubilità della moda,
E’ questo abito universale la Moda autentica del XXI secolo.

Tutto il resto, tutto ciò che chiamiamo Moda, è uno sconfinato edificio megalitico abbandonato che sopravvive grazie al tessuto connettivo dell’esteticità diffusa che ne mantiene artificiosamente unite le parti in rovina.
Perché l’estensione irrefrenabile di questo perturbante simulacro funerario da indossare ha spostato tutta la memoria passata dell’arredo del corpo in uno sconfinato limbo, in un deposito fossilizzato e inerte che oggi ci appare esclusivamente come arredo del corpo della donna, segno di una vuota ipertrofia manieristica che ha la funzione di arginare l’arida dissoluzione di forme che sono ormai svuotate di necessità.

E la depressione creativa della moda contemporanea ha inizio quando l’abito abbandona la sua struttura liquida di confine tormentato del corpo per lasciare emergere in filigrana la funebre icona arcaica del corpo visto sotto la pelle.

Di fronte al disagio che provano gli studiosi di fronte al problema della Moda contemporanea è necessario ripensare ancora una volta il compito della critica d’arte interdisciplinare: distinguere con chiarezza l’opera d’arte autentica, che abita la propria specificità ad un alto livello creativo, dall’opera d’arte tendenzialmente inautentica che, seppur dotata di un grande fascino seduttivo, è profondamente minata alla base da elementi strutturali che sono radicalmente estranei alla sua specificità.

E’ inutile e insensato quindi chiedersi se la Moda possa essere arte o no, dal momento che ogni forma della creatività lo è.
Si tratta invece di capire quanta autenticità ci possa essere in forme creative, in opere d’arte, che mostrano una atrofia concettuale talmente avanzata da inibirne la crescita, talmente radicata in profondità da cancellare la memoria di un remoto, fertile tempo della necessità.

Nell’esteticità diffusa del XX e del XXI secolo
La moda contemporanea, come macroscopica fossilizzazione di segni un tempo necessari e oggi sopravvissuti al conflitto tra il corpo organico e le materie inorganiche che lo assediano, può essere interpretata indagando la serrata simpatia strutturale di sopravvivenza che condivide con il design, con l’arte e con l’architettura, ma è inutile cercare delle forme importanti di autenticità in una tecnica creativa che mostra dall’inizio del Novecento tutti i sintomi della più rigida sopravvivenza fossile.
I rari interventi degli storici dell’arte, d’altra parte, sembrano eternamente inibiti proprio dall’insensata pretesa di rivendicare alla Moda un posto prestigioso nell’ambito dell’Arte invece di limitarsi a collocare serenamente questa forma creativa nel campo dell’esteticità diffusa studiandone senza pregiudizi la fenomenologia.

E’ necessario, anche qui, rinunciare prima di tutto all’ossessiva ricerca di familiarità, che invece di favorire inibisce una distaccata lettura critica, e smettere di credere che la donna sia la principale destinataria della moda (come altrove è necessario rinunciare all’idea che i fumetti e i cartoni animati siano destinati esclusivamente ai bambini): è necessario smettere di credere che la moda sia soprattutto un fenomeno caratterizzato dalla sua importanza economica e cominciare ad ignorare le demenziali discussioni demagogiche sulla cultura che sarebbe alta o bassa, adeguando invece con naturalezza alla moda lo stesso linguaggio e lo stesso comportamento critico che viene dedicato a qualsiasi altra forma di creatività, a qualsiasi altra opera d’arte.
Non c’è nessun motivo di occuparsi dell’intero sistema della moda, così inaridito e svuotato, come non c’è nessun motivo per giustificare l’intero sistema dell’arte contemporanea, così vergognosamente umiliato dalle regole del mercato, o del cinema, così tristemente impoverito dalla pochezza concettuale che trasmette con le modalità di un virus gli stereotipi più sterili del racconto.
Non può essere interessante sostenere il sistema della Moda, o il sistema della Televisione, ed essere coinvolti in una assurda e colpevole tolleranza verso le ottusità del mercato e dell’economia fino a sconfinare in una forma mortificante di involontario collaborazionismo.

E’ urgente invece ridimensionare drasticamente un fenomeno che si impone all’attenzione con la prepotenza della sua infestante massa quantitativa, riconoscendo ogni volta in esso, laddove è possibile e legittimo, una significativa, anche se rarefatta, qualità creativa.
Anche per la Moda, infatti, come per ogni altra tecnica creativa, può essere individuata l’opera di qualità, autentica, che risponde ad un necessità reale, e questa opera quando esiste non è solamente nella Moda, perché allora abita dignitosamente lo spazio aperto dell’esteticità diffusa indipendentemente dalla sua tipologia; come accade con un abito dal delicato, colto design consapevolmente debole di Miuccia Prada.

L’insidiosa continuità dei modelli storici

M. Fortuny, tunica in seta Delfi, 1907; Teye, XVIII dinastia (1350 ac.), legno, Louvre

L’abito disegnato all’inizio del Novecento da Mariano Fortuny (un artista quindi, non un sarto) è forse l’ultimo retaggio dell’abito inteso come pelle del corpo, e infatti Delfi non è un peplo, come gli abiti neoclassici indossati in quegli stessi anni da Isadora Duncan per le sue performance di danza, ma è piuttosto il confuso ricordo emozionato dei tessuti strettamente aderenti al corpo visibili nella cultura egiziana più remota.
Questo abito, Delfi, con la sua disarmata purezza, segna il punto di arrivo del conflitto tra organico e inorganico che ha sempre condizionato l’arredo del corpo. Dopo questa pelle inorganica, che riflette e sostituisce la fragile pelle organica, nell’arredo del corpo irrompe per sempre quella impressionante, drammatica icona da indossare che è l’abito universale maschile della giacca e cravatta, dove il corpo organico vero è definitivamente sostituito dalla sua raffigurazione verosimile.

Chanel; tomba terragna di Lady Margaret of Cobham, 1315

Da allora la sopravvivenza fossile dell’arredo del corpo diventa la Moda, un deposito neutro di suggestioni già consumate in altre epoche, e ogni presunta innovazione stilistica in questo contesto è destinata ad essere condizionata da insidiosi armonici di memoria che ne materiano spesso la struttura.
L’abito di Chanel, in questo contesto, non è altro che la memoria del progetto trecentesco che segregava il corpo della donna all’interno di una struttura rigorosamente architettonica.

Il paradigma barocco

Dior; Rubens

La presunta liberazione dai vincoli che sarebbe stata introdotta da Dior nel secondo dopoguerra denuncia la memoria delle forme aperte della Francia barocca così chiaramente visualizzate da Rubens. Ma lo stile di Dior è soprattutto la riproposizione dell’eclettismo antiquariale ottocentesco che intendeva archiviare negli arredi e nelle altre forme di design tutti i segni già storicizzati della decorazione.

Esteriorità antiquariale

Valentino; Murano, 1500

E’ in questo stesso contesto di un anacronistico, tardo eclettismo ottocentesco che il design delle opere di Valentino ha mutuato poi le forme fossili degli oggetti relegati nello spazio antiquariale. Con questi abiti il tedioso mito di una inesistente bellezza scherma il disagio perturbante che è sempre stato provocato da opere d’arte (come i vetri) che ci ostiniamo a non voler accettare nella loro sfuggente realtà concettuale.

Mary Quant; Verrocchio

Ogni risibile innovazione della Moda si trascina dietro, irresistibilmente, la memoria contraddittoria di un passato che non può mai eludere: analogamente alle forme musicali dell’Inghilterra degli anni ’60, che rievocavano debolmente le suggestioni della voce di controtenore della vocalità tardo cinquecentesca e il delicato pathos elisabettiano di Dowland, il design essenziale esemplificato da Quant riflette l’abito maschile quattrocentesco, il segno arcaico di una avventurosità, di una nudità eroica, che è stata quasi sempre preclusa alla donna.

Moda e Arte figurativa: gli equivoci

Saint Laurent, Mondrian, 1965; anonimo, abito con bruciature, anni ‘80

L’ingenua citazione che nel 1965 Saint Laurent fa di Mondrian denuncia tutta la disarmante pochezza concettuale di chi si affida con arroganza al meccanismo insidioso della familiarità per sfruttare in senso spettacolare le icone dell’ermetismo contemporaneo: è, questa di Saint Laurent, una forma indiretta, e forse perfidamente involontaria, di critica riduttiva che non è poi così diversa da quella più esplicita mostrata da Guttuso nel suo Boogie Woogie del 1953, dove il dipinto di Mondrian degli anni ’40, con lo stesso titolo, è umiliato nella forma di un pannello decorativo, e tutte e due le forme finiscono per denunciare il manierismo sterile di un pittore troppo ingiustamente celebrato.

Tutte le idiozie che seguono questa prima, ingenua adozione di forme storicizzate hanno creato nel tempo un vero museo degli orrori: vengono rievocate le bruciature di Burri, i tagli di Fontana e la pittura di Mirò, fino alle più ridicole riprese delle figure di Haring.

L’impossibile osmosi tra Moda e Pittura

Cardin 1969, Matisse, 1912

In questo terreno insidioso di memoria fossilizzata era inevitabile tentare il ricorso all’imitazione esplicita della pittura. Cardin tenta il recupero stilistico del paradigma della leggerezza e della trasparenza, in quegli anni ormai fin troppo elaborato da Matisse, ma il tessuto indossato non poteva più essere più la superficie sulla quale in un’altra epoca si rifletteva ambiguamente lo spazio delle chiese barocche, perché negli anni ’60 il tessuto può rispecchiare solamente le forme altrettanto inaridite e viziate del design.

Boldini

Basta guardare un dipinto gestuale di Boldini per capire quanto siano inutilmente banali i tessuti stampati con espliciti riferimenti alla pittura informale, che di quella fresca, intima fascinazione di Boldini possono riproporre solamente una sterile epidermide.
Mandelli (Krizia) negli anni del gusto postmoderno, ha tentato una dignitosa ma scolastica riproposta delle forme del futurismo di Balla e Boccioni, e neanche la rara intelligenza del colore usato da Enrica Massei negli anni ’80 ha potuto innestare nella Moda un impossibile spazio pittorico.

I limiti della stilizzazione

Armani 2008; Ponti, Grattacielo Pirelli, Milano,1960

Il processo di irrefrenabile fossilizzazione creativa subìto dalla moda contemporanea porta inevitabilmente ad una serrata simpatia strutturale con l’altra tecnica creativa, il Design, che ha subito un analogo, deprimente processo di svuotamento e di perdita della necessità.
E anche le forme più dignitose risentono di questo impoverirsi del contesto creativo: il disegno neorinascimentale di Armani mostra il forte controllo verticale di una linea essenzialmente grafica che è sempre tendenzialmente percepita come compressa contro un piano di fondo; il colore, sempre virato verso il silenzio dignitoso del grigio, convalida questa linea compressa sul piano e ne sottolinea la funzione di antidoto a ciò che viene avvertito come caotico sovrapporsi dei segni contraddittori del mondo.
E’ una poetica del segno riduttivo che aderisce perfettamente a quella esemplificata da Ponti con il suo grattacielo Pirelli del 1960 e da Zanuso e Sapper con il Televisore Brionvega del 1967. Come negli abiti di Armani, anche in queste opere il volume si lascia plasmare senza resistenza da un disegno che si avvale di una suggestiva scansione angolare capace di sospendere momentaneamente la percezione delle dimensioni reali (una funzione che nelle opere di Arm ani è affidata alla malleabilità interna della struttura portante) con un effetto permanente di gratificante, anche se sterile, respiro sospeso.

L’Osmosi tra Moda e Design

Ferrè; Sapper e Zanuso, telefono Grillo, 1962; Giugiaro, Quaranta, Concept Car (2010)

E anche nel lavoro così intenzionalmente creativo di Ferrè si avverte la necessità di agire in osmosi con il Design. Con le forme chiuse, dense, delle sue opere, Ferrè ha cercato una massa architettonica implosa e difesa dal mondo esterno come lo è quella delle strutture più ariose di Armani; contro il vuoto dinamismo di matrice Art Nouveau delle linee aerodinamiche del primo Novecento Ferrè ha opposto la stessa materia addensata che conosciamo con il telefono Grillo del 1962, con le sistemazioni museali di Gae Aulenti e, oggi, con la plasticità rappresa delle opere di Giugiaro.

L’innesto della tecnica nelle suggestioni neoclassiche

Pollock, sedia Penelope; Versace; Marmi del Foro di Traiano

Tutto il lavoro di Versace, in questa prospettiva, si è lasciato dominare da un gusto neoclassico declinato al presente con le opere di Paolini e Trotta, due autori che figuravano nella collezione d’arte di Versace accanto agli arredi antichi di epoca napoleonica.
La tecnologia del tessuto metallico è stata coniugata da Versace alla percezione fascinosa del marmo e del granito, in un pattern percettivo vibrante capace di suggerire la solidità materica e opaca della pietra accanto alla trasparenza della maglia; un innesto costruito artificiosamente però, e destinato ad una seduzione troppo debitrice del fascino legato alla sopravvivenza antiquaria.
Non diversamente da Armani e Ferrè, Versace ha dovuto cercare gli elementi costruttivi fuori dalla specificità della moda.

L’illusione dell’Eclettismo

Lanzichenecco, 1500; Antonio Marras, 2009; Yamamoto, scena teatrale (sec. XIX)

Nell’epoca del caotico nomadismo dei linguaggi, in questo primo decennio del XXI secolo, era fin troppo prevedibile il facile successo del fresco eclettismo di Marras, che lascia trasparire nei suoi lavori la memoria (consapevole) degli abiti informali dell’Ottocento giapponese, già introdotti in Europa da Kenzo e ora sovrimpressi al ricordo indiretto (inconsapevole) dei magnifici abiti frappati del Cinquecento militare.

Goya

Ma se osserviamo un abito informale, questo sì meravigliosamente nomade, dipinto da Goya, avvertiamo subito l’irreparabile fragilità nella moda contemporanea di una creatività sfibrata che, anche quando sia vissuta con sincera generosità, non può accedere ad una autentica libertà poetica.

L’inoffensiva spettacolarità della Moda

Yamamoto,1999; vestizione di una dama inglese (1880 c); processione popolare

La vuota spettacolarità messa in scena dalla moda negli ultimi decenni ha le stesse impudiche modalità dell’arte internazionale più apertamente barocca, dall’architettura di Gehry alle installazioni di Cai Guo-Qjang, di Gupta e di Hirst, ma ogni evento sensazionale è destinato ad essere vanificato dall’affiorare di incontrollabili armonici di memoria: l’invenzione del 1999 di Yohji Yamamoto è in realtà una inerte ricostruzione di certe innocue foto ottocentesche, ed è anche soprattutto la rievocazione, probabilmente indesiderata, delle macchine processionali della cultura popolare.

Jean-Paul Gaultier, 2009; Costume di Osckar Schlemmer per il teatro del Bauhaus, 1927

Gli abiti di Jean Paul Gaultier possono apparire sconcertanti solamente agli occhi di chi non sa cogliere l’evidenza della loro innocua matrice teatrale; in questo caso si tratta semplicemente dei costumi di Schlemmer degli anni venti.

La stanca tradizione dell’eccentricità

Westwood; Louise Bourgeois;

L’insulsa tradizione dell’eccentricità è ormai lo spazio delle più tediose invenzioni figurative, dagli abiti di Westwood, che pretendono goffamente di scandalizzare, alle sculture (insignificanti) di Bourgeois, che ripropongono uno stanco naturalismo illustrativo.

L’effimera fascinazione del perturbante

Miyake; Ito

La cultura giapponese sopravvive oggi al declino di una cultura che a suo tempo ha saputo essere aperta all’avventura formale internazionale con l’architettura di Tange e il cinema di Ozu e Oshima, ed è una cultura che oggi mostra la sua fragilità concettuale di fronte all’esuberante seppur contraddittoria vitalità cinese e indiana.

Questa profonda mancanza di motivazioni della cultura giapponese ha portato purtroppo al sacrificio di autori dotati di grande sensibilità, come è il caso di Miyake, che sembrava voler introdurre un’inquietante contaminazione di forme desunte dalla Body Art prima di banalizzare il suo lavoro con una insensata plasticità spettacolare, dell’architetto Ito e del coreografo e danzatore Teshigawara, che sembrano aver devoluto la loro raffinata sensibilità ad una malinconica poetica della trasparenza immateriale troppo saldamente ancorata alla tradizione filosofica locale.

Yamamoto, 2006; Matthew Barney

Le opere perturbanti di Yohji Yamamoto, legate evidentemente al dominante pensiero dell’emozione di questi anni, che vive grazie alla momentanea vacanza di un più incisivo pensiero filosofico, dipendono chiaramente dalle ossessive installazioni di Barney, che nel panorama della creatività post concettuale rappresentano comunque, a loro volta, il momento di una debole strategia della seduzione epidermica ormai del tutto priva di giustificazione.

Video del 2004 per McQueen; Cai Guo-Qjang, Head On, 2006

McQueen (suicida nel 2010) ha commissionato nel 2004 a N.Knight e M.Clark una installazione video analoga all’opera Head On, realizzata da Cai Guo-Qjang nel 2006: due opere che condividono la stessa vuota spettacolarità debitrice dell’incontrollabile infestazione della tecnica delle manipolazioni digitali che rende così poco sopportabile il cinema narrativo di questo primo decennio del XXI secolo.

McQueen, 2006; evocazione di un ectoplasma in un fotomontaggio di inizio Novecento;

McQueen presentò nel 2006 un ologramma in sostituzione delle modelle, con l’intenzione evidente (ma inconsapevole?) di sfruttare il pensiero dell’emozione con l’evocazione di un anacronisitico ectoplasma.

Chalayan, 2007; Sterlac

Gli abiti del cipriota Hussein Chalayan, dotati di motori interni e di timer che reagiscono nel tempo, sono stati ideati per una performance sperimentale nel 2007. Il precedente individuabile nell’arte, qui, è con evidenza quello degli eventi ormai storicizzati di Sterlac.
In questo caso la ricerca di una impudica fascinazione del perturbante sta cercando una giustificazione nella cultura dell’ibridazione del post-umano.

Il fascino e i limiti del decostruzionismo

Miyake; Eisenman

La diffusione, anche superficiale, del decostruzionismo filosofico di Derrida, ha portato a fertili soluzioni creative, nella Moda e nell’Architettura, che forse potevano essere coltivate più intensamente.
Sia Miyake che Eisenman hanno sprecato la freschezza delle loro intuizioni nella decadenza di un manierismo snervato che decostruisce la forma senza un vero progetto.

La poetica dell’immaterialità

Jill Sanders; Nouvel

Il doloroso sospetto dell’anoressia, coniugato alla vulnerabilità estrema del velo, è esteso paradossalmente alle strutture in filigrana di Nouvel, dove si vive lo sgomento di una incontrollabile precarietà strutturale, nel territorio incerto di una ipersensibilità che corrode con struggente intensità la forma della materia senza approdare mai ad una più acuta realtà.

Una dignitosa consapevolezza educata dall’arte post concettuale

Prada; koolhaas, una sede Prada

L’unica dignitosa risposta al vuoto barocco imperante nella Moda sembra essere quella formulata con intelligenza e coltivata sensibilità da Miuccia Prada.
La sua intensa attività promozionale rivolta da anni all’arte dell’area post concettuale gli ha permesso evidentemente di disintossicandosi da tutto ciò che nella moda è troppo materiato di manierismo e di arida stilizzazione.
In questo senso è significativa la scelta di Prada di collaborare con un architetto come Koolhaas che avverte con forza, a volte anche in modo contraddittorio, la necessità di una riflessione critica delle forme dello spazio architettonico che sono oggi altrettanto viziate da un ossessivo manierismo formale.

Prada 1998; Manzù e Castiglioni, lampada Parentesi, 1969-1970; Prada 2009

‘Io voglio analizzare il brutto. Lo fanno gli artisti, lo fanno i cineasti, perché non dovrebbe farlo chi crea moda?’(Il Venerdi, 2009).
‘Brutti da fare scandalo’ fu il commento alla prima apparizione dei modelli di Miuccia Prada alla fine degli anni ’90 (‘Non voglio più creare abiti sciccosi, ma l’opposto. Faccio vestiti brutti con stoffe brutte’).

Rinunciando alla facile piacevolezza esteriore, Prada ha elaborato una consapevole, colta poetica dell’implosione che trascina le sue opere al limite della percezione di ciò che può essere un abito inteso non come forma protagonista ma come una componente di un più articolato idioma individuale.
Sono forse queste le uniche dignitose opere della moda che possono essere accostate all’intelligente, scarnificata delicatezza immateriale della Parentesi di Piò Manzù e Archille Castiglioni (1969-70).
Le impercettibili, accurate imperfezioni tecniche degli abiti di Prada evocano il raffinato craquelè della ceramica Sung, in un telaio di sottili, dissonanti fratture che lasciano in vita un fertile disagio.
I migliori abiti di Prada mostrano in filigrana la loro semplice, smaterializzata struttura, lo scheletro di un disegno ricercatamente debole che denuda quasi la funzione stessa dell’opera.
10.2010