Introduzione

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Principi dell’Esilio

Chi cerca a punta di scandaglio l’argilla rossa dei grandi

fondi per plasmare il volto del suo sogno

Chi entra nel circo della sua nuova opera in un’altissima animazione dell’essere

Chi segue con cura le profonde erosioni del linguaggio

 

Quelli sono principi dell’esilio e non sanno che farsene
del mio canto

 

(da Saint-John Perse, Esilio, 1942)

.

Introduzione

Ci sono artisti, disseminati in ogni tempo, ovunque nel territorio illimitato dell’arte, che lavorando hanno scelto di sedurre prima di tutto se stessi, forzati dalla prepotente necessità di concentrarsi sul proprio lavoro per captarne le incessanti modulazioni interne.
Questi autori non sono stati capaci di pensare a una strategia efficace per il proprio successo pubblico, diversamente da coloro che hanno invece costruito, con tenacia e astuzia, una solida carriera artistica fondata su modelli già sperimentati e operato in un registro di grande estensione, graduato dalla clamorosa committenza pubblica alla riflessione intima del disegno più minuto, in vista del loro scopo fondamentale, la seduzione dell’immaginazione degli altri.
Il lavoro di quegli artisti, che sono i principi di un esilio al quale sono quasi sempre destinati, è spinto nell’ombra dalla stessa altissima qualità che lo distingue. Per questo lavoro è previsto a volte un ipocrita riconoscimento postumo, ma il successo pubblico non è necessario in tale comportamento creativo, non è fondamentale, questa dimensione estetica non è in attesa di una adeguata collocazione nella storia dell’arte.

Esiste un grande arcipelago dell’esilio nel quale abitano non solo artisti isolati, ma interi corpus di opere sconosciute, sentieri parzialmente cancellati, comportamenti critici svalutati e inutilizzati. Anche tutto questo abita l’esilio, anche queste cose sono principi del loro esilio.
Ma per scandagliare questo territorio della creatività è necessario rimuovere gli opprimenti luoghi comuni che frenano la capacità di riflessione critica, e cercare un respiro più ampio.

La storia dell’arte, potenza e fragilità dei luoghi comuni
Sono in vigore pregiudizi che colonizzano pesantemente la storia dell’arte, tanto ingiustificati quanto energicamente radicati nel senso comune, un limite che grava soprattutto sulla generazione dei più giovani.
Il meccanismo della percezione è atrofizzato dal pregiudizio contenutistico col quale si dimentica che l’opera d’arte autentica, accampata nella specificità del suo contesto formale, non documenta la Storia ma la commenta, non registra gli eventi ma offre l’opportunità di una profonda, diversa riflessione.
Nonostante le sterili critiche a Vasari, la presunzione contenutistica pretende ancora che l’opera d’arte sia un momento del progresso, una tappa di avvicinamento ad una inverosimile conoscenza del reale, mentre lo spazio estetico è dato invece spesso da torsi incompiuti che richiedono una continua rivisitazione, uno scioglimento progressivo di pensieri troppo densi e svincolati dai limiti cronologici del loro tempo.

Ci sono esperienze radicali mai abbastanza ripercorse, come lo sono le urne cinerarie etrusche, che pur rivivendo nel tempo attraverso le emozioni di Arnolfo di Cambio e di Arturo Martini conservano intatto il nucleo concettuale che le plasma all’origine, legato alla straordinaria collisione tra la cultura degli inumatori e quella degli inceneritori, un evento esteso forse verso il futuro più remoto, perché le urne etrusche non sono ancorate nel passato ma vibrano in un eterno presente.
Il limite contenutistico tende a fissare gerarchie di valori che esaltano tutto ciò che si presume educativo per sminuire fenomeni linguistici arbitrariamente classificati come minori, alimentando la cecità per la forma.

L’iconologia spesso sostituisce l’interpretazione formale, ma la traduzione iconografica è delegittimata se viene strappata dalla particolarità dell’opera, l’iconografia è solo una componente formale e cambia con il passaggio da un contesto linguistico all’altro; lo storico può anche aver bisogno di raccogliere delle nozioni iconografiche indipendenti dal contesto linguistico che le ospita, ma il compito della storia dell’arte non è questo.
L’opera d’arte, autentica e autonoma, denota solo se stessa, non è veicolo di progresso perché si concretizza proprio nel disagio del progresso, e il suo registro si estende soprattutto nella crisi afasica della comunicazione.

Ma esistono altri corrosivi interni alla storia dell’arte, sono norme non scritte che dettano con durezza i criteri di riconoscimento del valore estetico.
E’ condannata al silenzio l’opera che non mostra un equilibrato dosaggio di qualità e quantità con un bilanciato programma di grandi temi alternati a pagine intimistiche, come l’attività di Rosso Fiorentino per la quale è impossibile individuare un itinerario e un decorso ragionevole.
Si ignora l’opera disseminata in un vasto mosaico frantumato in tasselli che, nonostante la grande qualità, non confluiscono nella messa a fuoco del capolavoro ben riconoscibile, come accade per autori geniali e appassionati che dialogano tra di loro nel tempo per vasi comunicanti, come Altdorfer e Beuys, oppure come Salviati, che estende una vitalizzante proliferazione di qualità in contesti diversi da quello della pittura, come l’arazzo e l’argento.

Anche lo scarto tra qualità e quantità materiale comporta una inesorabile condanna non dichiarata; la musica di Anton Webern, con la sua lirica rarefazione condotta ai limiti estremi del silenzio, è destinata all’indifferenza.

Autori di grande intensità sono resi quasi invisibili dalla segregazione in contesti considerati minori, come accade per Bonasone e Ghisi che danno all’incisione cinquecentesca una straordinaria autonomia creativa.
Sono quasi invisibili autori che hanno prodotto una sola opera di qualità, come il Cobaert dell’impressionante S.Matteo di S.Trinità dei pellegrini.

Altri soffrono per la vicinanza di figure troppo storicizzate, come accade a Francesco Bassano ritenuto a torto imitatore del padre Jacopo, spinto nell’ombra, in epoca caravaggesca, con Elsheimer e Seghers.
Restano fuori dalla cultura artistica pittori geniali come Hsia Kuei del Duecento cinese dei Sung e il giapponese Sesshu del 1400, uniti dall’estetica Chan-Zen, tendenzialmente confinati nel folclore dell’esotismo.

E poi ci sono artisti affascinanti che hanno operato in una altissima animazione dell’essere, che non esistono perché non hanno un nome: sono i creatori delle maschere Kifuebe del Congo e di quelle della Nuova Irlanda, grandi lirici che pongono guglie estreme di qualità sopra una complessa stratificazione segnica, muovendosi nella scia di interminabili percorsi interni all’immenso respiro della persistenza neolitica, dal mediterraneo fenicio al centro Africa, dall’età del bronzo cinese alle isole oceaniche.

Non sempre ci si rende conto, infine, che l’autore stesso è un’insidia. Se il congegno del successo pubblico funziona bene, nessun artista è talmente accorto da evitare di lavorare contro se stesso: Lucio Fontana ha sminuito la sua creatività cancellando la freschezza della sua prima attività nell’ incredibile ripetizione del segno, e Kandinskj ha cancellato la fertilità del suo acquarello astratto del 1912 abbandonandolo nella stessa fornace della ridondanza.
Chi ha vissuto la creatività con troppa generosità, troppo assorto nell’appassionata ricerca di qualità, ha tramato involontariamente contro la possibilità di avere un posto nell’esperienza degli altri. Alcuni libri sono così densamente implosi nella loro ricchezza di idee da sfidare la comprensione, come lo Zaratustra di Nietzsche, ma anche come Gli strumenti del comunicare di McLuhan, isole rocciose dal difficile approdo.

La cultura dell’omologazione imprigiona facilmente queste opere in una zona neutra di museificazione accademica nella quale i testi paradossalmente sono sviliti, e la stessa monumentalizzazione trascina opere vitali nella sclerosi: l’Amleto di Shakespeare e Gli eroici furori di Giordano Bruno possono liberare idee capaci di rinnovare la percezione estetica se vengono sottratti al sarcofago della celebrazione accademica.

Sentieri in ombra
Il territorio della storia dell’arte è striato di sentieri secondari, visibili solo dall’alto e dimenticati a favore dei grandi percorsi obbligati; sentieri che attraversano tutte le epoche. Alcuni di questi sono resi inagibili dal prepotente fenomeno linguistico del barocco romano, che ci appare oggi come evento di assoluto protagonismo dell’epoca soprattutto a causa della fascinazione immaginativa che allora è stata progettata e ostinatamente perseguita.

Alcuni tracciati sono letteralmente assorbiti all’interno di altri, costruiti più solidamente: nell’ambito della numismatica la medaglistica distoglie l’attenzione dallo studio della moneta perché si pensa che la medaglia sia più coinvolta nella creatività, data la sua apparente vicinanza al rilievo scultoreo, ma la moneta attinge la sua qualità in profondità, da un contesto di idee estetiche più forte e più duraturo di quello che condiziona la medaglia, nessuna medaglia avrà mai la freschezza immaginativa e la potente struttura delle inquietanti monete celtiche.

Il cinema sperimentale giace tuttora come un affresco sotto lo scialbo, nell’ombra di un cinema narrativo scritto in prosa, mutuato dal teatro e dal romanzo ottocentesco e considerato a torto erede del cinema più antico.

La memoria di certi percorsi cancellati riaffiora suggestivamente altrove. Nella pittura di Mantegna e di Beato Angelico è registrato un aspetto inedito del giardino storico quattrocentesco; nessuna ricerca d’archivio può offrire le sorprendenti informazioni sul giardino inteso come struttura architettonica viva che sono trasmesse dai dipinti di Mantegna, e non si tratta di semplice documentazione iconografica perché questo giardino mantegnesco costituisce un autentico progetto, inseparabile dal contesto figurativo del tempo.

Nei dipinti antichi non abbiamo solo il ricordo visivo degli oggetti, degli argenti, dei tessuti indossati; i dipinti restituiscono l’insieme nel quale quegli oggetti hanno un senso, una loro orchestrazione complessiva, e pittori come Rosso, Pontormo e Goya interpretano e progettano con una diversa intensità abiti di cui noi possediamo solo banali informazioni esteriori. Può capitare che la storia della musica sia arricchita dalle miniature medioevali che mostrano con i seniori dell’Apocalisse un inedito complesso strumentale per soli archi.

Un intenso sapore anacronistico caratterizza frequentemente questi sentieri poco conosciuti. Si può trovare uno stupefacente stile neoarcaico nelle monete ateniesi del tempo di Fidia e un affascinante neomedioevalismo negli zecchini d’oro della Venezia di Tiziano; la terrosa pittura arpinesca del seicento trascina fino a metà secolo, nelle sale capitoline, una pittura compendiarla, volutamente sciatta e crudamente antibarocca, che può essere giustificata solamente dalla riscoperta pittura catacombale.
Parallelamente al più liberatorio stile gotico coesiste, nel primo trecento italiano, un severo gusto neoromanico vivificato dai pensieri del più avanzato dei filosofi medioevali, Occam. Senza la persistenza neolitica verrebbe meno il flusso potente che scorre nelle arti non europee.
E tale prezioso anacronismo viene facilmente equivocato per attardamento stilistico, che è un processo linguistico diverso e giustificato da tutt’altra intenzionalità creativa.

Specificità del contesto
Si può arginare la deriva dell’autenticità che cancella progressivamente queste situazioni estetiche ridisegnando, dove è possibile, la mappa delle specificità di ogni contesto formale. Fissando questi limiti della specificità si avverte più agevolmente il fertile scambio creativo che anima il territorio dell’esteticità diffusa; un filosofo come Plotino, così prezioso non solamente per la comprensione dell’arte del suo tempo, può essere letto parzialmente in una intercapedine poetica che rende possibile il dialogo tra il territorio della filosofia e quello dell’arte, una fascia di confine abitata da opere di Eraclito, Bruno, Merleau-Ponty.
La musica di Claudio Monteverdi e la coeva architettura di Borromini condividono con tale intensità una profonda affinità strutturale da permettere una lettura critica unificata.

Il disegno infantile, l’arte prodotta dalla malattia psichica, l’arte popolare, sono fossilizzate in recinti sigillati che ne impediscono una lettura critica complessiva, e questo avviene perché vige un’arbitraria separazione tra i contesti; ognuna di queste forme creative ha una riconoscibile connotazione specifica e ospita al suo interno il risultato più intenso di questa specificità, una guglia di caratterizzazione, l’opera più autentica da individuare e mettere in rilievo: lasciando emergere queste opere, come campanili in un paesaggio medioevale, ci troviamo di fronte ad una visione della creatività che non coincide con quella data dalla tradizionale impostazione storica; In una visione del genere il contesto dei fumetti è costretto ad un confronto con quello della miniatura, l’arte oceanica sfida apertamente quella europea del Rinascimento, la fotografia è forzata ad un confronto con la pagina scritta in versi.
Così le gerarchie specialistiche che sono sedimentate dentro ogni contesto espressivo sono allentate e forse destituite di valore: un pittore insignificante come Bachiacca assume la dimensione di delicatissimo protagonista quando lo troviamo nel mondo dell’arazzo. 

L’esteticità diffusa e l’incanto ipnotico
Un mondo delle arti applicate non esiste, naturalmente, esiste l’esteticità diffusa, lo spazio della creatività nel quale si snodano senza tregua le articolazioni del linguaggio, in una modulazione infinita tra l’affresco più vasto e l’appunto grafico più minuto, tra l’assetto urbano e un argento, tra il perturbante retaggio arcaico e la visualizzazione animata che si crede destinata ai bambini.
Lo specialismo riesce efficacemente a cristallizzare questo spazio dell’esteticità diffusa, e può risultare più arduo decifrare un mobile antico che una criptica operazione concettuale contemporanea.
Non c’è nessuna discontinuità tra ciò che si conserva in questo spazio dell’esteticità diffusa e la mole gigantesca di materiale creativo prodotto dalla contemporaneità con una presunta destinazione di massa: può sconcertare l’aggancio che questi segni mostrano con le icone dell’antichità, nell’eterno presente indicato da Gideon, ma questo fenomeno lascia perplessi solo perché interferisce con la condizione di incanto ipnotico che domina incontrastata la fruizione della figurazione popolare contemporanea.

In realtà le icone della modernità, così ipnotiche e sempre tanto fortemente agganciate alla macchina percettiva, possiedono una fissità sconcertante ed è impossibile avere familiarità anche per una sola di esse; sono icone indecifrabili sottoposte al logorìo incessante dello sguardo, icone che aspettano solo di riprendere il loro posto in uno scenario talmente esteso da essere confusamente percepibile.
Questi segni vengono liberati dall’incanto ipnotico, con il quale sono guardati senza essere visti, adottando una lettura azzardata, un comportamento critico capace di contrastare le deprimenti interpretazioni sociologiche.
Non c’è un segno consueto della quotidianità che non mostri in trasparenza una paradossale doppia esistenza. L’abito più comune, quello della parossistica omologazione internazionale, è la prefigurazione dell’interno del corpo, ne vediamo lo sterno (la cravatta), i muscoli volontari e involontari; il grigio reagisce ai colori brillanti che hanno caratterizzato l’abbigliamento maschile in tante epoche, un uomo di mille anni fa si stupirebbe per questo incredibile riferimento alla morte fossilizzato nell’ossessiva ripetizione, per questa icona sconcertante affogata in una ridondanza che non riesce a corroderla.

L’impudica ripetizione decorativa dell’immagine televisiva e pubblicitaria perpetua un grandioso meccanismo barocco, mette a dimora nel tempo il congegno retorico che unifica all’infinito la dimensione drammatica della cronaca e la dimensione effimera del gioco, facilitando lo smottamento del reale nel verosimile.

Certa fotografia occasionale, priva di consapevole intenzionalità estetica, proprio per la sua condizione di estrema precarietà è materiata della visibilità pura delle origini, di Niepce, e si sottrae alla stilizzazione quasi invincibile che sterilizza invece gran parte della fotografia creativa
Delle straordinarie opere d’arte sono state create senza un’esplicita volontà creativa da scienziati dotati di grande sensibilità e attivi in un contesto estetico eccezionalmente fertile: Etienne-Jules Marey, Eadweard Muybridge, Birt Acres, Wilbur e Orville Wright.

Gli studiosi del fumetto continuano pedantemente a cercare la qualità in quei disegnatori che hanno guardato con astuzia alla pittura invece di ridimensionare un fenomeno che ha una guglia di grande intensità solamente con l’opera ottocentesca di Busch.
E paradossalmente tutto ciò che virtualmente si oppone alla banalizzazione della contemporaneità concorre ad accentuare l’incanto ipnotico che ne acceca il senso più segreto: il Design e la Moda, nonostante la forza del progetto che li sostiene sono troppo deboli per scalfire la durezza arcaica dei segni più ripetitivi e apparentemente insignificanti che sopravvivono ai margini del loro confine con una perturbante fascinazione che è dovuta alla radicale autenticità che li caratterizza.

La percezione frenata
L’ipertrofia della comunicazione estetica induce un grande torpore nella macchina percettiva, che è comunque uno strumento ottocentesco di registrazione più adatto alla paziente decifrazione del racconto che al coinvolgimento globale nella complessità dell’opera d’arte.
Però un congegno percettivo rivitalizzato è una macchina per capire che si libra nello spazio estetico calibrando il suo occhio sulle materie che intercetta, e riesce a tradurre le forme se ne assume momentaneamente l’assetto strutturale rispecchiandolo.
Se questo scandaglio sempre in movimento rende disponibili a una continua, intensa messa a fuoco, la lettura critica si adegua senza trasformazioni alle forme più diverse, a una performance di Beuys come ad un dipinto di Magnasco, e capta con naturalezza l’affinità strutturale che unisce tra di loro opere radicate in contesti formali diversi ma partecipi di una stessa cultura, come un brano di musica trovadorica e uno smalto di Limoges.
Si possono recuperare così la lentezza e la gradualità che sono all’origine della stessa capacità di percezione, l’opera d’arte si snoda davanti a noi con i suoi diversi strati da attraversare, soglie progressive da valicare, dislocate anche nel futuro.
E anche la percezione è frenata da stereotipi che contraddicono l’esperienza concreta dell’arte: si crede che un ductus animato sia più vitale della materia inerte e fredda, dimenticando che lo straordinario tratto di Guardi ha un valore diverso da quello artificioso di Vedova, e ignorando forse che nelle superfici sfuggenti della scultura neoclassica può annidarsi il perturbante.

Si percepisce confusamente l’osmosi tra materia organica e inorganica che coinvolge tanta figuratività; il realismo illusivo provoca una forma di superstizione che impedisce di coglierne l’aspetto paradossale, così evidente nelle icone caravaggesche, mentre si stenta ad accettare come autentica, emozionata percezione del reale un dipinto come la Rue Saint-Denis imbandierata di Monet.

Ridare freschezza alla capacità di vedere permette di accorgersi di cose che sono sotto gli occhi di tutti, come l’inarrestabile invecchiamento precoce dell’arte contemporanea, che svuota finalmente la triste mitologia dell’artista provocatore e lascia intravedere quella magnifica linea poetica che ha coltivato un estremo assottigliarsi del segno in forma di correttivo e di antidoto dell’eccesso di informazione contemporanea, da Duchamp a Beuys.

Oggi, sapendo che l’artista è a volte il medium della sua stessa creatività, il primo stupito fruitore della propria opera, si può indagare più liberamente il fenomeno del riverbero di memoria, la prepotente emulsione di segni altrui e del passato che a volte porta nell’opera uno splendore inaspettato, anche non voluto dallo stesso autore, come è il caso del saio francescano conservato ad Assisi come reliquia che traspare nei sacchi di Burri.

Noi siamo educati a vedere dall’opera stessa, che detta le sue condizioni percettive. Lo spazio di Borromini con il suo ritmo di diastole e sistole attira in una fruizione in movimento degli incavi; ci si abitua a muoversi dentro lo spazio architettonico e attorno allo spazio scultoreo, sentendone animarsi i volumi, come ci si abitua a sostare dentro la musica di Brahms al centro di una dimensione sferica nella quale non stiamo entrando né uscendo.
Il Quintetto di fiati di Schönberg e il Vampyr di Drejer sostituiscono una forma di bellezza duratura, amara e intima, alla spettacolarità esteriore priva di una struttura interna forte. Cheap imitation di John Cage permette di corrodere l’impazienza della noia liberando un’inattesa tenerezza rivolta verso sé stessi.

Nel vasto e complesso panorama della creatività contemporanea, in questi primi decenni del XXI secolo, è possibile individuare chiaramente le rare, emozionanti opere autentiche, esplorando incessantemente il fronte più avanzato della ricerca senza lasciarsi intimidire dalle imposizioni autoritarie della critica accademica e del mercato.

E’ la poesia, il laboratorio ideale per l’arricchimento della sensibilità; non solo la lettura della poesia, ma l’adozione profonda e irreversibile dei suoi modi e dei suoi tempi, l’adozione di un modello di comportamento creativo che la poesia di Rimbaud e di Amelia Rosselli legittimano con il loro inquietante sfasamento.
La poesia convince a un graduale abbandono della familiarità col mondo, verso un disincanto liberatorio dall’ipnosi, come l’anticonformismo di Thoreau educa al disagio e all’entusiasmo per la propria individualità.

Se Ragghianti educa all’interdisciplinarietà, Zevi alla più rigorosa lettura critica e Freud alla decantazione dei dettagli minuti nella scomposizione del mosaico ipnotico, l’Ulisse di Joyce nutre la disponibilità ad avvertire l’insieme illimitato e continuo, a guardare la vita senza sgomento.
2001-2010