L’arte agli inizi del XXI secolo tra autenticità e retorica accademica

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L’arte agli inizi del XXI secolo tra autenticità e retorica accademica

Museum Wormianum, 1655; Paracelso, Tavola da Pronosticatio, 1536

Perdita dello stupore, insidiosa familiarità con l’anomalìa dell’arte, accademia scolastica internazionale: questi sono i limiti che frenano l’arte delle nuove generazioni, minandone forse l’autenticità.
E’ in atto un’impressionante omologazione della creatività che ha un precedente di queste dimensioni solo con il neoclassicismo di inizio Ottocento. Un’omologazione massiva che determina una situazione paradossale, un sentirsi tutti ugualmente protagonisti, dalla quale i giovani artisti e i giovani critici loro coetanei possono uscire sottraendosi all’incanto ipnotico e alla seduzione che questa omologazione alimenta quotidianamente.
E per interrompere questa ipnosi basta riflettere ignorando i luoghi comuni imperanti e adottare un diverso, eccentrico punto di vista.

Questi anni all’inizio del secolo sembrano riproporre le condizioni e i problemi del movimento del Simbolismo nell’intercapedine tra Ottocento e Novecento. Anche allora la comunità dell’arte offriva una suggestiva, malleabile poeticità diffusa e una generosa solidarietà interna allo stesso ambiente dell’arte, un’estrema visibilità, la protezione del collezionismo e delle istituzioni pubbliche, e soprattutto una pianificata giustificazione culturale assicurata da intellettuali che si sentivano vivacemente coinvolti in una febbrile atmosfera creativa. Anni saturi di fertile creatività, durante i quali ogni singolo artista doveva sicuramente sentirsi al centro dell’attenzione.
Eppure di quel periodo sopravvive ben poco, al di là della fascinosa messa in scena figurativa. Restano vive alcune rare opere di Ensor, di Redon, di Moreau, i testi più vitali di Mallarmè e di Corbiere, di Debussy: del Simbolismo sopravvivono nel tempo solamente i segni più intensi dell’ipersensibilità, destinati a nutrire il terreno futuro. Il resto è invecchiato precocemente nello scenario teatrale dell’illustrazione contenutistica.

L’accecamento contenutistico e l’esteriorità epidermica, la facilità, impedivano evidentemente agli artisti stessi di intuire l’intima fragilità di opere sostanzialmente essa inscena, in un tempo storico che era inconsapevolmente schiacciato tra due grandi paradigmi della modernità: quello dell’implosione, dolorosa e solitaria, che l’artista aveva affrontato coraggiosamente nella seconda metà dell’Ottocento con il silenzio di Rimbaud e con la sofferenza psichica di Van Gogh e di Nietzsche, e quello, straordinario, che arriva in prossimità e durante la prima guerra mondiale, nell’epicentro del disastro, con la messa a punto di un antidoto all’eccesso dell’informazione, con l’estrema contrazione lirica delle opere di Duchamp e di Schönberg, di Joyce. Gli artisti entusiasti del Simbolismo europeo sembravano non accorgersi affatto di quanto quella loro ricchezza creativa fosse soprattutto l’effetto della banalizzazione che seguiva (che reagiva) all’intollerabile intensità del paradigma dell’implosione drammatica, e non potevano intuire che la massa prosastica della loro arte era destinata ad essere prestissimo dimenticata in prossimità dell’altro paradigma, quello dell’antidoto strutturale, che avrebbe introdotto per sempre un profondo disagio per l’evidenza colloquiale della figurazione simbolista.

Oggi, in una situazione molto vicina a quella degli anni euforici del Simbolismo, le forme ormai musealizzate dell’avanguardia storica, in gran parte invecchiate precocemente e svuotate, sono la materia di base scolastica del lavoro creativo dei giovani artisti in tutto il mondo e basta sfogliare l’antologia della Taschen, Arte tra secondo e terzo millennio (1999) per avere un’immediata verifica di questa realtà.
Questo invecchiamento precoce dell’avanguardia è il risultato del fenomeno di rigetto più straordinario che la Storia dell’arte abbia mai registrato. Invece di respingere nell’ombra le opere più vitali che lo contrastano, il sistema dell’eccesso dell’informazione ne ha permesso l’assimilazione con un violento processo di svuotamento formale e di drastico depauperamento: esponendole in piena luce ha cercando di annullarle nella fornace della ridondanza, alimentando una proliferazione senza limiti.  E l’incredibile abbondanza delle opere prodotte da questa frenetica proliferazione ha portato inevitabilmente ad una drammatica superficialità e quindi all’invecchiamento precoce di un’immensa quantità di lavori che oggi appaiono vuoti esercizi scolastici.

Adesso, se guardiamo con attenzione lungo il confine che separa lo spazio dell’intensità poetica da quello dell’estensione e della banalizzazione prosastica, non è poi così difficile individuare gli snodi di questo deragliamento della creatività contemporanea. C’è un processo di irresistibile ridondanza che traduce in prosa discorsiva e contenutistica gli oggetti poetici nati come antidoto all’eccesso di informazione prosastica, una versione che seduce irresistibilmente l’immaginazione perché dispiega e trasforma in racconto lineare tutto ciò che all’origine è invece interruzione lirica e difficile pausa interiore.  

Così la voce intima dell’Ulisse di Joyce, già tradita dalla triste retorica del teatro di Beckett, viene poi trascinata ovunque in una pesante, teatrale declamazione esteriore che sa pensarla solo come suggestivo flusso di coscienza; l’opera complessiva di Duchamp, caratterizzata dall’assoluta, irreversibile unicità di ogni evento, viene interpretata in formule aride da Man Ray che la rende disponibile alla successiva banalizzazione accademica di Fluxus, e proprio il caso della Fontana di Duchamp è rivelatore della cecità e dell’ipocrisia di questa patetica, deteriore normalizzazione accademica: la Fontana è un trasparente e lievissimo riferimento al vaso rovesciato dello Zen, una straordinaria trasposizione dell’oggetto fossile esterno (il contenitore) in oggetto interno (le ossa del bacino), un pensiero affascinante e antico che rivive in tutta l’opera di Duchamp; ma si continua ciecamente a definire orinatoio qualcosa che può essere decifrabile solo nell’insieme essa inscenae dell’opera di Duchamp.
Una ridicola deformazione della realtà dell’opera che ha coinvolto anche le delicatissime opere di Piero Manzoni, che possono essere interpretate solamente nel loro insieme. Anche la delicatezza estrema della musica di Cage, mutuata da Debussy e da Satie, è equivocata in una inverosimile volontà di stupire e scandalizzare: ci si accorge dei rumori di Cage e si dimentica quel prezioso, duraturo capolavoro che è Cheap imitation per pianoforte (non preparato).

Ed è in questo modo che si è imposta con forza demagogica la triste mitologia di un progresso formale che sarebbe spinto in avanti da un risibile rifiuto del gusto borghese e popolare e da un presunto superamento delle forme tradizionali dell’arte.

E’ necessario ricordare che c’è stato un momento particolare, nel secondo dopoguerra, negli anni ’70, subito dopo la cuspide più acuta della deformazione scolastica dell’avanguardia imposta dalla sterile euforia degli anni ’60, nel quale poteva anche affermarsi un’arte immunizzata dalla propria musealizzazione, e quella poteva davvero essere l’arte nell’epoca della sua irriproducibilità tecnica, con la performance, interamente versata e sprecata nel tempo reale, con la body art, spinta fino alla possibilità di morire davvero, con certe forme di land art, con alcuni episodi di arte concettuale. Forme estreme di continuità del paradigma dell’antidoto che non potevano però andare oltre, perché l’enfatizzazione emozionale del corpo e della sua vulnerabilità finisce comunque per ridurre a ipocrita racconto la sofferenza reale e l’antidoto concettuale agisce con freschezza nell’organismo della percezione finchè dura l’assedio abnorme dell’informazione prosastica.
D’altra parte l’eclisse dell’autenticità della performance e della body art coincide con l’eclisse dell’interesse per l’antropologia e con l’irruzione nel mondo del terrorismo, con la consapevolezza che corpo e violenza non potevano più essere argomenti scolastici ma durissima realtà, mentre l’eclisse dell’arte concettuale coincide evidentemente con l’attenuarsi dello scontro tra la filosofia insulare anglosassone e la filosofia continentale dell’ermeneutica risolto a favore della filosofia della diversità di Deleuze, del decostruttivismo di Derrida e del postmoderno di Lyotard.

Così l’opera tornava tristemente ad essere l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, con le patetiche foto illustrative degli eventi e con i deprimenti video d’artista, in attesa che il Web riproponga oggi la sfida di un’opera estesa nel tempo e forse nella memoria.

E adesso è ormai quasi impossibile alla critica ridimensionare l’attività accademica di una corporazione austera e seriosa che impone con durezza, con la protezione del grande collezionismo, una retorica pretesa di educazione etica del mondo.
Le affermazioni imbarazzanti di Yves Klein e di Lucio Fontana a proposito di una inverosimile conoscenza della realtà, così contraddittorie con la delicatezza lirica della parte più duratura e meno retorica della loro opera, sono prese sul serio perché contribuiscono a costruire una rigida, monumentale accademia della modernità proprio nel momento in cui il pensiero filosofico renderebbe invece disponibile un’inedita libertà concettuale svincolata dalla fossilizzazione dogmatica. Il segno più evidente dell’insidiosa infestazione accademica alla quale adesso sembra così difficile opporsi è proprio quello dell’impudica giustificazione retorica che viene data immediatamente alle tante opere scolastiche e prosastiche, ed è inutile citare anche un solo esempio delle innumerevoli, imbarazzanti dichiarazioni moralistiche che giustificano quasi ogni opera d’arte dal dopoguerra ad oggi.  

L’involontaria sacralità che traspare dalle dichiarazioni di Fontana sullo spazio infinito, o addirittura sull’immortalità di De Dominicis, è sigillata dalla volontaria ricerca dell’effetto provocatorio del ridicolo. La sfida al senso del ridicolo che le opere degli ultimi decenni hanno scatenato senza pudore sembra non turbare più nessuno, e c’è un motivo per questa sorprendente assuefazione pubblica alla provocazione: questa apparenza di ridicolo, di inutilità, di spreco, non è altro che il ritorno di un progetto barocco tutt’altro che effimero e non certo confinato storicamente nel Seicento. Oggi la retorica aristotelica barocca ci mette di fronte ancora una volta ad un enigma: questa cosa ridicola, questo down seduto in una sala della biennale, questo orientale in bilico su una palla per venti minuti, questa tela bucata, sono una cosa seria? Devo accettare la tautologia e l’apparenza di ciò che vedo o devo chiedermi cosa si nasconde dietro questa essa inscena?

La trappola barocca scatta sempre con efficacia quando si tratta di declinare in spettacolo collettivo l’inquietudine, il pensiero, e dietro il segno umile (ridicolo) delle apparenze, dietro il gioco crudele della simulazione, si nasconde la minaccia di chi svolge la funzione di un rito.
Questa sottile, minacciosa sfida a sorridere dell’effimero e dell’inverosimile domina da sempre il fanatismo di ogni rituale religioso, ed è questa la matrice storica che oggi, nell’apparente eclisse del rituale nell’area occidentale, giustifica in profondità una grandissima parte della creatività contemporanea. E’ questa matrice storica che suggella tante opere attuali con la stigmate odiosa della retorica moralistica.
E lo spazio ideale per questa trappola barocca, per questa sleale sacralizzazione dell’effimero, sono proprio i territori di confine destinati alle attività apparentemente esentate dalla sopravvivenza materiale: la pubblicità, la televisione, la c.d. arte d’avanguardia. 

L’aspetto più insidioso di questa sleale macchina barocca è come sempre nella sua violenta fagocitazione delle cose. Le più sottili invenzioni poetiche sono attirate nel vortice della deformazione retorica affinchè sia impossibile distinguere tra ciò che è autentico, profondamente radicato in un contesto più ampio, nel pensiero filosofico del tempo, e ciò che è invece solo il frutto di una astuta strategia che reclama un prevedibile successo pubblico.
Di fronte a questa minaccia è inadeguata la reazione di chi cede ingenuamente all’impulso di ribellarsi contro l’apparente idiozia dell’opera e ancora di più lo è la reazione impaurita di chi accetta di familiarizzare il prima possibile con l’anomalìa dell’opera per sottrarsi alla sfida.
Per quanto possa sembrare sconcertante, ciò che all’inizio del Novecento con Duchamp era enigmatico oggi è retoricamente accettabile in senso barocco; si accetta che un artista investito arbitrariamente di autorità spirituale formuli delle espressioni apparentemente ridicole perché in filigrana traspare il monito minaccioso del potere religioso.

E riemerge paradossalmente nell’uso troppo diffuso e facile dell’installazione il retaggio di forme allegoriche antiche: L’illustrazione della camera delle meraviglie del Museo Wormiano e la visione del mondo disgregato in frammenti erratici dell’illustrazione da Paracelo sembrano essere il doppio modello concettuale che giustifica il perentorio atteggiamento didattico adottato senza remore dalle nuove generazioni di artisti: l’installazione, con il suo mosaico di oggetti sgranato ed esposto frontalmente, ha ripercorso a ritroso, allontanandosi dagli incunaboli delle origini, la strada che la riporta alla messa in scena allegorica, alla rappresentazione enigmatica che viene decifrata con un codice controllato da altri e sempre corrispondente a norme retoriche rivolte ad una educazione collettiva che è imposta senza essere mai stata richiesta. In questo caso l’opera non è più frutto di un’implosione lirica di segni già esistenti ma è, al contrario, una paziente, accademica illustrazione di insulse formule educative.
Qui siamo al punto d’arrivo conclusivo di un estenuante processo di corrosione prosastica delle scarne pagine liriche degli inizi, nella vasta spianata della ridondanza che rende difficile distinguere l’autenticità dall’inautenticità, soprattutto per i giovani che non hanno vissuto gli anni cruciali di questa metamorfosi, e le rare opere autentiche che riescono a respirare pienamente la loro creatività rischiano di restare invisibili nell’ombra.  

Questo alleggerimento e questo scioglimento della tensione nell’installazione è stato facilitato anche dal setaccio formale compiuto della scenografia teatrale degli anni ’70; l’animazione scenica del Living si è presto raffreddata in forme accademiche e figurative, ed ha permesso il confluire nel teatro di lentezze da performance, coinvolgendo gli oggetti in una decantazione inoffensiva e illustrativa. Dopo il magnifico, parossistico The brig del 1964, filmato da Jonas Mekas, il Living e il teatro derivato dal Living sono entrati nella zona in ombra della retorica antropologica, rinunciando a quella insostenibile tensione che divorava se stessa nel concretizzare la crudeltà estrema prevista da Artaud. Da allora una delle rare possibilità per un teatro intensamente autentico e non fossilizzato è stata sicuramente quella offerta da Memè Perlini, un’esperienza magnifica degna di continuità.
Anche attraverso questo depurante passaggio attraverso il filtro del teatro retorico l’installazione delle origini è stata consapevolmente snaturata in descrizione educativa e celebrativa. Ed è proprio a causa di questo generalizzato rifiuto dell’intensità lirica che il grande cetaceo solitario dello splendido cinema d’avanguardia di Mekas e di tanti altri cineasti poeti si è inabissato da tempo e resta tuttora invisibile alle nuove generazioni.

Oggi (2003) la stessa spettacolarità del successo pubblico di artisti come Jeff koons e Maurizio Cattelan, di Hirst, di Gehry, mostra scopertamente il riproporsi di un modello barocco nei contenuti, nelle forme e nelle modalità percettive. L’impudico splendore barocco con il quale le opere di Koons e Cattelan vengono esposte e accettate è quello dei Salons accademici della Francia ottocentesca. E la risposta a questi ipnotici Salons ufficiali è data ancora una volta da un’invisibile Salon des refusèe dove si raccoglie l’alternativa poetica ad una arrogante, autoritaria padronanza del mondo, un Salon fatto di fenomeni estetici vitali che non sempre sono classificabili con i criteri critici tradizionali, come non lo erano allora la scabrosa pittura di Cezanne o più tardi l’inquietante musica di Satie.

Lo sconcerto che provocava (che provoca tuttora) una tela di Cezanne oggi lo si avverte nello scoprire che uno straordinario impressionismo sopravvive in fenomeni invisibili come quello ancora inesplorato della fotografia occasionale; che il cinema sperimentale insegretito e la video art non musealizzata sopravvivono in capolavori inaspettati e spontanei come The Blair Witch project; che l’architettura contemporanea fertile non può essere quella pesantemente barocca di Gehry, che condivide l’incredibile fasto della più grottesca architettura internazionale, ma quella molto meno appariscente, intelligente e strutturalmente elastica, disponibile a infinite varianti morfologiche, di architetti come Tschumi. E paradossalmente l’opera più importante che viene esposta permanentemente in questo ideale Salon des refusèe è quella degli autori che nonostante la sterile e ostile monumentalizzazione accademica aspettano ancora di essere lentamente attraversati e adottati intimamente dalla sensibilità come se non fossero mai esistiti: Rimbaud, Mallarmè, Duchamp, Picabia, Schönberg, Webern, Joyce, Cage, Beuys.  

Opere, queste di Duchamp, di Cage, di Beuys, che durano ancora quasi inosservate nonostante siano investite dal pesante processo di musealizzazione in atto che è comunque incapace di sigillarle veramente e di cancellarne davvero l’intensità. Queste rare opere autentiche mostrano una durata lentissima per la quale sono richiesti incalcolabili tempi di assimilazione percettiva, come è il caso dello Zaratustra di Nietzsche, dell’Ulisse di Joyce, della musica di Schönberg, dell’opera complessiva di Duchamp e dell’opera complessiva di Beuys. E come è il caso del lavoro di John Cage, per il quale si deve cercare la chiave in Debussy e in Thoreau piuttosto che nella facile divulgazione occidentale dello Zen. Una durata lenta e quasi impercettibile che contrasta con l’invecchiamento precoce di una grandissima parte della produzione artistica contemporanea. Sono opere che durano con immensa lentezza nel futuro, come la pittura di Cezanne continua letteralmente a sedimentarsi dall’inizio del Novecento nonostante l’ottusa formalizzazione scolastica picassiana, per essere ancora oggi quasi inedita e vibrante, quasi inassimilabile, come lo è la musica di Schönberg nonostante l’avanguardia musicale postweberniana che non ne ha decretato affatto il superamento.

I giovani artisti e i giovani critici di questa generazione possono trovare il coraggio e la freschezza immaginativa per ridimensionare drasticamente tutto ciò che si trovano di fronte, con la consapevolezza che le loro opere più autentiche, quelle scritte in versi, pudicamente esenti dalla demagogia e dalla fanatica retorica moralistica, possono essere destinate ad essere poco visibili e segregate nell’ombra.
Se può essere d’aiuto, c’è uno splendido pensiero di John Cage che riguarda l’arte abitata come esperienza contrapposta all’arte vissuta come celebrazione retorica di qualcosa:
Modificazione di sé e non espressione di sé, ecco che cosa può essere l’arte.
Gennaio 2003