Territori di confine. L’arte infantile

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Territori di confine. L’arte infantile

I testi specialistici di analisi del disegno infantile sono destinati a selezionare (quasi) sempre e solamente i segnali visivi di chi, nei primi anni di vita, deve necessariamente affiancare l’immagine alla parola, e definiscono scarabocchi (?) le prime complesse strutture visive che esplorano acutamente la presenza dell’Io nel mondo.
Dopo i primi sei anni, la burocrazia pedagogica impone la pedante classificazione dei risultati visivi che vengono ottenuti opponendo una griglia selettiva di forme e contenuti alla spontanea registrazione iniziale, una sonda fossilizzata che rileva sempre gli stessi risultati a meno che non scatti l’allarme della devianza e del malessere psichico.

Ma nella realtà non ci sono bambini e adulti, c’è l’Io che cerca incessantemente la sua collocazione nel mondo.
Con le imposizioni pedagogiche vengono quasi sempre oscurati i risultati straordinari di una attività creativa che è capace di registrare come un sismografo i movimenti profondi e meno percepibili dello sciame sismico del corpo vissuto, con una incondizionata verità che non può essere inquinata, come lo è quella dell’attività onirica.
L’artista che riesce poi a cercare e trovare una sua forma autentica è colui che vive inconsapevolmente la nostalgia di questo momento iniziale, di questo ossigeno nascente della creatività.

In questa sede, lasciando agli studiosi specialistici le indagini relative alla psicologia e al comportamento, interessa solamente leggere i risultati dell’arte infantile tenendo conto dell’esperienza concreta che abbiamo dell’arte, e applicare a queste opere gli stessi criteri della critica d’arte interdisciplinare che valgono per qualsiasi altra forma di creatività.

In questo magnifico disegno di F (5 anni) è percepibile nella sua interezza la pura specificità del disegno infantile.
La vocazione fisiologica a registrare con il gesto sismografico la percezione interna del proprio corpo qui si concretizza a un livello altissimo di creatività laddove i segmenti del piano inferiore, ancorati alla linea della visibilità, mostrano la metamorfosi in atto, minuto per minuto, dell’Io che si proietta nel mondo esterno, del corpo vissuto che registra con urgenza se stesso in una incerta terra di confine che si estende tra la malleabile percezione profonda di sé e lo schermo della rigida materia esterna: lo slancio impressionante dell’energia proiettata gestualmente verso l‘alto è l’impaziente reazione ai limiti ristretti di questa terra di confine, una liberazione nello spazio aperto del piano che unifica con la sua emozionata trasparenza la consapevolezza intima della propria energia vitale e l’accettazione incondizionata del mondo.

A questo livello l’estetica infantile vive nel pieno della sua libera creatività e l’unione tra forma e contenuto è perfetta: per raccontare a sé stesso e agli altri l’urgenza irresistibile dell’energia che vuole respirare liberamente, l’autore ha fatto ricorso ad uno slancio che scioglie in una pura gestualità i segmenti sedimentati in basso, con una vibrante registrazioni di intensità sismica, con una freschezza immaginativa che evoca il felice scioglimento della parola cantata in arioso e liberatorio melisma.

Negli altri disegni di questo autore l’energia si mostra in tutte le sue varianti e racconta se stessa attraverso un’irruente morfogenesi: le barriere di segni verticali sono investite dalla deformazione plastica del gesto,

il flusso di energia si contrae per affrontare lo spazio vuoto dopo averlo visualizzato;

e poi deflagra con irruenza, scardina gli schemi architettonici suggeriti da altri, lascia implodere i segni all’interno di un nucleo di parossistica intensità materica,

per approdare infine alla suggestione irresistibile di un vulcano in eruzione trascritto con acuta gestualità.

Il disegno infantile oltre i confini dell’omologazione forzata

Fortunatamente, accanto ai pedanti testi corporativistici ci sono anche degli studi di grande qualità che riescono a eludere l’insidia dell’interpretazione pedagogica.
Un libro prezioso è quello di Viktor Lowenfeld, La natura dell’attività creatrice (1938, ed.it. 1977), uno studio eccezionale sull’arte dei non vedenti che dimostra il legame profondo che c’è tra l’arte delle culture che sanno vedere il corpo dall’interno (cfr. La persistenza delle forme nell’eterno presente e I luoghi della musica) e quella di chi, come i bambini, e appunto come i non vedenti, plasma delle forme che sono legate alla percezione profonda del proprio corpo perché esentate dall’adesione ai modelli dell’omologazione pedagogica.
Il materiale di questo libro impagabile, i magnifici disegni che l’autore pubblica di ragazzi deboli di vista di 8 anni (KW) e di 10 (LB), permette di cogliere l’evoluzione del disegno infantile esentato dalla drastica cesura costituita dalla prima educazione scolastica, dallo spartiacque che inibisce l’impulso profondo dei primi anni introducendo il filtro della committenza forzata.
I bambini non vedenti descritti da Lowenfeld crescono continuando a coltivare l’autenticità del disegno plasmato dalla pura necessità della forma e sfuggono ai moduli fossilizzati del naturalismo illustrativo.

Per capire profondamente queste opere si deve pensare alla musica aforistica di Anton Webern.
Come in quella musica, qui ogni elemento del reale è contratto in pochi segmenti di estrema densità e l’urgenza della sintesi porta alla costruzione di una struttura rigorosa che non ammette deroghe descrittive.

L’irruente energia creativa dei cinque anni non viene vanificata, in questi ragazzi poco vedenti, e sopravvive come deposito di segni sintetici, aforistici, capaci di evocare la materia con un cenno.

Lo spartito aforistico di questa emozionata creatività permette una scrittura in versi che l’omologazione pedagogica avrebbe negato a favore di una ortodossa, burocratica descrizione in prosa.

L’arte infantile nel territorio dell’esteticità diffusa

I rari documenti che abbiamo del passato dimostrano che il disegno infantile non è stato mai accettato per quello che è, perché quelle forme che oggi possiamo capire e interpretare con la consapevolezza che abbiamo della pittura gestuale e materica, da Turner a Ensor, non venivano percepite come forme estetiche; lo dimostra il noto dipinto di Gianfrancesco Caroto con il Ritratto di fanciullo con disegno infantile (1520 c) dove il disegno non imita affatto un lavoro infantile, ma riproduce lo schema figurativo tradizionale adattando quella che sembra essere la forma popolare di una bambola di legno.
Nella lunga storia dell’illustrazione, anche popolare, non c’è nessuna traccia del disegno infantile.

Nel dipinto di Giacomo Balla del 1902 (Fallimento) i presunti scarabocchi riprodotti sul legno del portone sono del tutto irreali: prima ripetono insensatamente linee curve quasi concentriche e poi mostrano, in basso, due identiche e inverosimili figure radiali che vorrebbero rievocare le figure umane disegnate da un bambino di tre o quattro anni pur essendo immerse in un contesto caotico di linee che è del tutto incoerente con la creatività infantile.
Basta mettere a confronto questo dipinto di Balla con un vero lavoro infantile (a destra) per accorgersi che i movimenti circolari spontanei sono sempre parte integrante di un telaio grafico dinamico che prevede un fluido annodarsi e sciogliersi di segni, mentre i finti scarabocchi di Balla fanno pensare piuttosto all’ottusa e sterile ripetizione meccanica di chi oggi lascia ossessivamente sui muri la propria firma tribale.

Disegni infantili senza indicazione di età pubblicati dal Blaue Reiter (1912)

Perfino nel 1912, nell’almanacco del Blaue Reiter, il disegno infantile continua a essere identificato implicitamente con le forme grafiche di ragazzi di dodici o tredici anni, quelle più vicine alle illustrazioni popolari su vetro che l’almanacco esalta come segno della pura creatività spontanea, e quando in quello stesso anno Kandinskij realizza il suo Acquarello astratto, desunto evidentemente dalle forme infantili ricorrenti nei primi anni di vita, lo immagina proiettato nel contesto della cosmologia visionaria del simbolismo (cfr. Armonici di memoria).

Simpatia strutturale

M, 9 anni

Nei rarissimi casi in cui la creatività infantile riesce a valicare a fatica e provvisoriamente il confine dell’omologazione pedagogica emerge imperiosamente la volontà di continuare a raccontare la lotta dell’Io per la sua collocazione nel mondo, in vista di una disarmante terra di confine che si affaccia nel mondo contraddittorio della creatività riconosciuta e approvata dalla cultura egemone.
Allora può capitare che un’impressionante fasciatura di matita evochi la pittura gestuale più severa degli anni ’50;

Giorgia, 8 anni

che la delicatezza femminile di una tenerissima, sfocata disseminazione tonale sia vicina ai risultati dell’Impressionismo;

E, 10 anni

che l’irruente gestualità materica condivida la sua massività con l’Espressionismo degli inizi.

G, 9 anni

Può capitare che la densità timbrica, con l’impatto crudo del caldo e del freddo (del giallo e rosso con il blu, il verde e il viola), rievochi l’aggressiva energia emotiva dei Fauves.

S, 9 anni

Che il violento incastro delle forme coniugato all’asprezza degli accordi timbrici evochi i dipinti di Nolde.

Oppure che la massività timbrica e tonale dell’impasto sia accostabile ai risultati di Bonnard;

E, 8 anni

che la visione in pianta di una strada, in contraddizione prospettica con la visione frontale di un cieco immobile ai suoi confini, sia vicina alla pittura dell’astrazione concettuale.

L, 9 anni

Può capitare che la massività di un piano anossico interamente colonizzato dal segno sia vicina alla pittura del più fresco naturalismo materico,

G. 10 anni

e che la disgregazione dissonante del piano in lacerti dolorosamente erratici rievochi la crudezza dell’Espressionismo più tardo.

7 anni

Può capitare che certe soluzioni di poetica rarefazione del volume siano vicine ai più delicati paesaggi di Morandi

e a quelli più austeri, più giotteschi, di Carrà.
1989-2012

Territori di confine. L’arte della sofferenza psichica

Dipinti di Bruna M. degente del S. Lazzaro di  Reggio Emilia

L’esito della sofferenza psichica più profonda, lo sappiamo, è il silenzio.
Chi soffre ricorre alla creatività solamente per mantenere in vita un ultimo doloroso legame con la società, e lo fa usando i lacerti di forme che quella società dimostra di accettare.
Il mito della creatività deviante è una colpa che il manierismo novecentesco non ha ancora voluto o saputo riconoscere, e si capisce il perché di questa amnesia: tutte le forme dissonanti che oggi associamo alle forme dell’infestante manierismo novecentesco, dall’Espressionismo alla Body art, sono la memoria inconsapevole (?) di quell’immensa, occultata spianata temporale nella quale si è depositata per secoli la creatività materiata di malessere psichico.
Le immagini scomposte sintatticamente come quelle di questo cane (nelle foto), dipinte da Bruna M., ex studentessa di arte, sono sempre state sotto gli occhi di tutti molti secoli prima dell’Espressionismo e del Cubismo, anche se la cultura occidentale ha preferito confinare questa grammatica della scissione dell’Io nel limbo della cultura popolare e oggi nella stupida segregazione del mito della devianza. 

Che le forme dissonanti prodotte dal malessere psichico siano sempre esistite nel territorio della creatività lo sappiamo dalla grande arte oceanica e africana.

Quanto vediamo in tanta pittura e scultura del Novecento è il frutto della memoria dissepolta delle forme dissonanti e frammentarie prodotte dal dolore psichico, dai rituali popolari e dai vasti periodi storici segnati dall’ossessione del corpo, e sappiamo che nella cultura europea queste forme sono state negate e confinate nello spazio della tradizione popolare assieme alla perturbante memoria dei più cruenti riti arcaici; però nella grande arte oceanica e africana l’esperienza sconvolgente della dissociazione mentale, vissuta come evento drammatico da integrare e radicare nella cultura stessa, ha portato a opere di estrema purezza e di altissimo livello creativo, come si vede in questa straordinaria opera della Melanesia, dove l’icona attesta l’esperienza dell’Io scisso che avverte ogni dettaglio del proprio corpo come segmento autonomo.

D’altronde le forme estreme della più antica arte mesopotamica (sn), dell’arte africana più radicale (al centro), e dell’arte popolare europea di matrice neolitica (ds), attestano senza possibilità di equivoci, grazie alla simpatia strutturale che stabiliscono con le opere d’arte del disagio psichico, che il malessere della psiche ha sempre trovato la sua integrazione nelle forme di cultura più inclusive.

E non ci sono forme della letteratura, dalla poesia più ermetica alla narrativa più complessa, che non abbiano attinto dalle forme apparentemente caotiche dell’attività onirica, la perenne matrice profonda di ogni sperimentazione del linguaggio, l’unico sconfinato territorio confinante con l’Io diviso.
1995-2016