Il ritorno della figurazione
Il fenomeno del prepotente recupero della figurazione tradizionale, che ormai caratterizza i primi decenni del XXI secolo come reazione al triste disfacimento del manierismo tardo concettuale, è disseminato nei vari capitoli di Principi e non è quindi necessario riproporlo:
Vitalità del pensiero poetante, 2016; Le forme dell’Illustrazione, 2009-2014; Quaderno interdisciplinare (Arte contemporanea, Musica, Illustrazione del XXI secolo, Street Art, Narrativa).
Le schede che seguono, su Freud, Kiefer e Kentridge, mostrano il pesante debito contratto nei confronti dei modelli del passato dai protagonisti di questo incerto processo di recupero della tradizione che coinvolge anche la narrativa, la musica, il cinema, il teatro e l’insieme dell’arte popolare contemporanea.
2016
Lucian Freud
Lucian Freud (2011) è stato esaltato dal mercato e dalla cultura egemone forse anche come correttivo fisiologico degli eccessi tardo concettuali che ancora oggi dominano gli anni tra la fine del Novecento e l’inizio del XXI secolo, ma la sua qualità viene ridimensionata se si mette a confronto diretto la sua opera con quella del geniale e sanguigno pittore tedesco Lovis Corinth (1858-1925) con il quale Freud mostra una innegabile simpatia strutturale ed una imbarazzante imitazione esteriore che avrebbe forse attirato l’attenzione del nonno.
Corinth, Nudo, 1907; Freud, Nudo, 1992
D’altra parte un legame così stretto tra un pittore neofigurativo del tardo Novecento e un autore passionale e istintivo che un secolo prima ha trascinato l’irrequieto e scomposto naturalismo tardo ottocentesco ai confini dell’Espressionismo non deve stupire, perchè tutta la ripresa della figurazione di impianto tradizionale che è stata avviata in questi primi decenni del XXI secolo presuppone necessariamente il dragaggio sistematico delle falde storiche della pittura descrittiva e dell’illustrazione; ciò che invece fa riflettere è l’ostinata cecità (o la mala fede) degli studiosi di Freud che sembrano non accorgersi dell’incredibile appropriazione indebita che questi ha condotto senza pudore del lascito altrui (1).
Corinth, Gruppo di donne, 1904; Freud, Nudo, 1980
Le pose eccentriche dei nudi di Freud sono mutuate evidentemente da quelle di Corinth ed hanno la stessa funzione, esasperare la smania che disarticola il corpo estendendone le membra nello spazio circostante con un impianto teatrale che viene assecondato da un ductus pastoso e terragno. Ma se le pose inquiete dei modelli di Corinth rispecchiano gli anni delle prime radicali indagini psicologiche, quelle dipinte da Freud sono invece il frutto di uno stanco manierismo privo di vera necessità (2).
Corinth, Nudo; Freud, Nudo
Freud ha rilevato l’intera struttura formale dei dipinti del pittore tedesco, dalla perentoria infestazione che la figura umana esercita sullo spazio alla disarmata visceralità del corpo che qui si trasmuta in epidermica matericità pittorica, monocroma e sabbiosa, a suggerire una desolata e insensata osmosi tra corpo e spazio.
Freud, Ritratto, 1940/50; Christian Schad, ritratto del Dr. Haustein, 1928
Con i suoi deludenti inizi, negli anni ’40 -’50, Freud si era dedicato ad una mediocre ripresa illustrativa della già insignificante pittura degli autori della Nuova Oggettività degli anni ’20, soprattutto di C. Schad, ma l’incontro con Bacon evidentemente lo ha sollecitato a cercare una diversa soluzione costringendolo a passare da una miope imitazione della rigidezza plastica di Schad ad una altrettanto e più grave miope imitazione del ductus materico di Corinth.
Rembrandt, Bue squartato, 1655; Corinth, Bue,1905
Corinth ha una percezione estremamente vivida dell’esplorazione materica del corpo, studia il bue squartato di Rembrandt con acume straordinario; è un istintivo, però avverte con forza l’energia perturbante del corpo indifeso, e Freud, non sappiamo se e quanto condizionato dalla sua storia familiare, non può fare a meno di seguirne (involontariamente?) le tracce.
Corinth, Nudo, 1911; Freud, particolare.
Una volta adottato, il linguaggio passionale di Corinth non può essere mediato, e l’adesione di Freud si spinge fino ad imitare anche gli aspetti esteriori del comportamento del suo predecessore.
Corinth, Autoritratto, 1907: Freud, Autoritratto
Si ritrae nudo, come ha fatto Corinth,
Corinth, Autoritratto con una modella, 1903; Freud con una modella, 2004
e ripete letteralmente la scena del gesto di adorazione della modella verso il pittore, con una foto del 2004 che poi traduce in pittura.
1) Questi appunti critici sono state scritti prima di verificare se l’inequivocabile vicinanza dei due pittori fosse stata notata anche da altri. E’ impensabile che in area tedesca non ci siano studi su questo legame, ma per quanto riguarda i testi leggibili in italiano è interessante notare che William Feaver, nel lungo e dettagliato saggio di introduzione al catalogo della grande mostra veneziana di Freud (2005), non cita Corith, e il pittore tedesco non viene nominato neanche da Angela Vettese nell’articolo pubblicato sul dominicale de IlSole24Ore in occasione della morte del pittore (2011).
In rete sono reperibili solo accenni occasionali: B. Buscaroli, a proposito della mostra veneziana di Freud del 2005 scrive che ci sono ‘notevoli analogie’ tra i ritratti di Freud e il ritratto di von Keyserling del ‘talentuoso ritrattista tedesco’ Corinth.
A. Camia, forse più sensibile al problema, commentando una mostra di Corinth del 2008, nota che ‘il bel nudo sdraiato del 1899 ( ) è prodromico ai nudi che saranno poi dipinti da Lucian Freud’.
Aggiornamento Ottobre 2013: il Giornale dell’arte pubblica un lungo articolo di Pierre Rosenberg, ‘Perchè un pittore copia altri pittori. Il caso Freud: le repliche di Watteau e Chardin’ nel quale Corinth è del tutto ignorato.
2) Nel 1887 il neurologo Jean-Martin Charcot pubblica, in collaborazione con il suo allievo Paul Richer, un interessante saggio su Le indemoniate nell’arte (traduzione it. 1980) che raccoglie tutte le immagini, pittoriche e cliniche, relative alle contorsioni patologiche provocate dall’isteria; un libro che fu apprezzato da Freud, discepolo di Charcot.
2011
Ansel Kiefer e Courbet
Gustave Courbet, Marina, 1865
L’impressionante Marina di Courbet, dipinta nel 1865 potrebbe essere un’opera di Ansel Kiefer: c’è la stessa pasta materica, stesa sul piano dibimensionale privo di profondità, con grumi rappresi e incrostature, con spessori, con pieghe che corrugano la superficie epidermicamente e cancellano ogni dettaglio naturalistico.
Non c’è dubbio che Kiefer abbia tenuto presente questa matericità corrusca plasmata da Courbet con un magma terragno che si ripiega su se stesso seccandosi: queste opere dipinte da Courbet attorno alla metà dell’Ottocento mostrano una intenzionale indagine materica attuata per sottrazione dell’aria, per essiccamento, per onossia. Turbano questi dipinti di Courbet dove il mare è fangoso e oscuro, fossilizzato in masse granulose di fango rappreso. Una percezione opaca della materia che è molto lontana dalla trasparenza degli Impressionisti.
Kiefer non può aver ignorato, dipingendo i suoi quadri vastissimi, quella parete incredibile e infinita che si spalanca e si estende sopra lo scenario dello Studio di Courbet.
Kiefer, 1997
Nei dipinti di Kiefer la forte tentazione illustrativa è frenata (e non sempre efficacemente) dalle dimensioni stesse e dalla rarefazione visiva dello schermo materico;
Ebbene, è Courbet che ha lasciato dei modelli eccezionali di un possibile superamento dell’illustrazione a favore di una percezione inquietante della materia disseccata e disabitata che si avvale di un ductus consapevolmente abbreviato e scostante, mai legato alla descrizione nitida di un qualsiasi dettaglio. Una pittura cupa che non può separarsi dalla coeva poesia di Baudelaire.
Ma Kiefer ha fatto ricorso (quanto inconsapevolmente?) anche ad altri due modelli irresistibili: i dipinti di fine Ottocento di August Strindberg e quelli più remoti di Caspar Friedrich.
Kiefer, 1997
Strindberg, una Celestografia (1894) e un dipinto del 1894 c.
Nel vasto dipinto del 1997, dove la figura (così rara in Kiefer) giace inerte, emerge con prepotenza il ricordo delle celestografie realizzate nel 1894 da Strindberg esponendo un supporto fotografico di notte. E questo legame è significativo, perché come fece Strindberg anche Kiefer si riferisce adesso all’alchimia per giustificare il suo lavoro. D’altra parte i dipinti più densi di Kiefer rievocano anche la pasta caotica e addensata in superficie del dramamtrurgo svedese.
Kiefer salda la matericità di Courbet, che nelle marine di metà secolo è volutamente scabrosa e sgrammaticata, ottusa, con la suggestione che faceva credere a Strindberg di essere guidato esotericamente da forze oscure e di poter vedere distintamente un paesaggio nelle incrostature di zingo di una parete fatiscente.
Friedrich, 1810
Da Friedrich, invece, Kiefer prende la struttura narrativa: lo spazio deserto disabitato,
la solitudine attonita,
lo sgomento di fronte alla disastrosa frana disgregante della materia,
Friedrich, 1824
il senso vertiginoso del baratro,
lo stupore per il mondo disabitato e lontano.
E perfino le sue Torri rievocano la forma scarnificata e precaria delle rovine dipinte da Friedrich.
L’aspetto più illustrativo, presente spesso in Kiefer, è desunto invece probabilmente da film di grande energia visiva come Stalker (1979) di Tarkovskij.
6.6.2016
Kentridge. Una poetica dell’effimero
K. Triumphs and laments,2016
F. Goya, I disastri della guerra, 1810-1811
Il sudafricano William Kentridge cerca nel passato modelli di grande qualità che possano giustificare a distanza la sua poetica dell’effimero basata sulla grafia apparentemente sciatta e negligente, volutamente sgrammaticata e sempre legata alla materia cartacea, alla stampa e all’incisione.
La sua è una poetica della radicale precarietà del segno che gli permette di fermarsi in tempo sul limite rischioso della mera illustrazione, della banalità didascalica e della leggerezza della Street art.
Uno dei grandi dettagli del fregio sul Tevere (2016) non lascia dubbi: K ha guardato al Goya più introverso e amaro, declinandone le forme con grande umiltà.
La grafia ansiosa di K è giustificata anche da quella sperimentata genialmente da Piranesi, l’autore che lo stesso Goya ha sicuramente studiato con estrema attenzione.
K esalta la presenza anomala degli oggetti comuni dilatandone la scala, e in questo fa pensare a quei dettagli da incubo, come le grandi teste di schiavi, che funestano le Prigioni.
Nelle Prigioni il segno disgregato impone una contaminazione affascinante tra organico e inorganico, in un caos percettivo che non ha freno. K non può avere evitato questa inquietante fascinazione, ma è troppo intelligente e sensibile per citare esplicitamente Piranesi, sa che quelle opere estreme convivono nell’eterno presente delle forme e preferisce imparare con ammirevole umiltà da quel meraviglioso segno stremato.
Le figure ritagliate e frenetiche che K utilizza per le sue animazioni e scenografie, ma anche gli oggetti isolati,
derivano dalle presenze umane sconvolte e dilavate di materia che in Piranesi si aggirano deliranti dentro le Prigioni e attorno alle rovine antiche.
Le sequenze di movimento derivano evidentemente da Muybridge,
ma anche dalle frenetiche, angustiate figure di Callot.
Mantenendo sempre un ostinato, tenerissimo registro dell’effimero cartaceo.
La bellissima pagina realizzata nel 2007 per IlSole24Ore attesta una consapevole volontà di legare la sua opera alla materia effimera del giornale cartaceo, un antidoto all’infestante culturale digitale.
La poetica della fragilità epidermica del segno cartaceo permette a K di sconfinare nella vasta esteticità diffusa che oggi si è ulteriormente dilatata con la crisi delle installazioni di oggetti del gusto postconcettuale, ormai obsoleto e sterile.
K si affida anche a certe soluzioni grottesche del teatro politico, che lo costringono a specchiare la contemporaneità, ma non rinuncia mai al segno macerato e sfibrato con il quale coltiva un esplicito anacronismo figurativo legato alle incisioni più amare dell’Espressionismo;
e ripensa sicuramente, anche in questo caso con grande e consapevole umiltà, alle masse opache della pittura compendiaria catacombale del III secolo.
Traduce a volte le violente incisioni di Kathe Kollwitz (a sn) in segni scomposti e tumefatti (a ds).
Le sue pagine più intime sono prive di figure, e permettono al segno di conservare una rara freschezza compendiaria. Sporcarle con un po’ di colore occasionale significa attestarne la provvisorietà evocando l’arbitrio di chi scarabocchia una pagina di giornale.
9.6.2016