Appunti critici sulla Cecilia di Maderno
Recentemente a Roma è stato possibile osservare in tutta la sua interezza la Cecilia di Stefano Maderno (1600, S. Cecilia in Trastevere), un evento rarissimo ed emozionante. Su questa opera possono ora essere aggiunte altre, diverse riflessioni: nella parte invisibile della scultura affiora un legame anacronistico e suggestivo con le opere medioevali di Arnolfo di Cambio.
Il giovane Maderno nel 1600 è un lirico isolato che vive un’occasione del tutto particolare, e forse è anche l’autore di una sola opera perché la sua Cecilia è il frutto di una tensione culturale inedita, un’opera che può essere sostenuta solamente da un acutissimo interesse per l’arcaico mondo cristiano in un contesto linguistico che giustifica una visionaria concretizzazione del perturbante.
Qui, nella Cecilia, è perturbante ciò che insinua una dolorosa e sfuggente ambiguità, una presenza inquietante che la nitida filigrana dell’apparenza sembra voler negare.
L’intercapedine storica di questi anni attorno al 1600 non è affatto tardomanieristica, come si ripete sterilmente, e non mostra affatto i segni di un’inverosimile anticipazione del Barocco. In questa fascia stilistica di confine non domina più l’energia dolente e contratta del Cinquecento, la volontà coraggiosa e irriducibile di Bruno è violentemente cancellata proprio quell’anno in Campo dei Fiori, e la decontrazione retorica del Barocco non ha ancora imposto il suo incondizionato potere fascinatore.
Qui ha il suo spazio, per pochissimi anni, un lirismo sospeso e acuto che può sollecitare un’incredibile rievocazione di modelli arcaici e spesso la clausura afasica nello schema medioevale della losanga; un lirismo che viene turbato da esplosioni improvvise, come quella sconcertante, convulsa massa espressionista del Matteo di Cobaert (1602) in SS. Trinità dei Pellegrini.
Siamo in uno spazio d’intensa ricerca poetica che poteva essere l’alternativa alla violenta infestazione retorica del polimaterismo barocco, se la poetica del perturbante, in questa ristretta intercapedine stilistica, non fosse stata vanificata e dissolta dalla diversa e opposta strategia barocca.
In quel momento c’era la possibilità, vanificata, di una figurazione struggente e intima che la pittura tonale di Barocci, la pittura compressa e visionaria di Elsheimer, di Scarsellino e di Francesco Bassano avrebbero potuto alimentare, accanto all’anacronistica e materica pittura neocatacombale di Viviani e accanto ai rari esempi di una scultura lirica che era veramente inconciliabile con l’evidenza retorica e con l’esteriorità spettacolare dell’imminente Barocco.
Per ritrovare ancora una tensione così autentica sarà necessario aspettare lo spazio plastico e introverso di Borromini e l’estenuata voce musicale di Giacomo Carissimi.
La superficie della Cecilia è interamente modellata da stigilature lievissime che ne cristallizzano il volume contraendolo all’interno di un’impenetrabile losanga, una fragilissima fossilizzazione materica che scherma questa cripta luminosa con una impercettibile velatura atmosferica.
La testa, dietro, si spezza, si sottrae all’icona figurativa accademica per smottare snodata nell’ombra di una losanga medioevale che è poi ermeticamente sigillata.
Questa scultura era destinata ad essere inserita sotto il tabernacolo di Arnolfo (1293), doveva (poteva) essere un effetto d’eco direttamente captato dall’antichità cristiana, e Maderno sembra tentato da un azzardo irripetibile, rievocare la tensione strutturale con la quale Arnolfo aveva saputo ridare vita al remoto disagio degli etruschi inceneritori costretti a modellare la figura umana nella compostezza dei romani inumatori.
Per questo guarda alle dissonanti figure arnolfiane della Fontana degli assetati di Perugia (1281), ne adotta lo schema strutturale complessivo e i dettagli, soprattutto ne adotta la grafìa segnica delle pieghe irrigidite e astratte; i movimenti snodati e spezzati delle figure arnolfiane suggeriscono la riflessione lirica della testa invisibile e arcaica della Cecilia.
In quegli anni a cavallo dei due secoli c’è un’altra opera preziosa e quasi inosservata che condivide con la Cecilia di Maderno questo azzardo affascinante, il Busto di Antonio Coppola di Pietro Bernini (1612, S. Giovanni dei Fiorentini), una pagina poetica estrema e castissima, mutuata dalle maschere funerarie romane e paragonabile con il suo intaglio raffinato solo a certi delicatissimi ritratti romani, come quella diafana testa di fanciullo dalla Villa di Livia (I sec. a.c) del Museo Barracco.
Pietro Bernini, Antonio Coppola, 1612
Nel busto di Coppola la mano stremata che esce dalla piega dell’abito, come nei ritratti funerari dei sarcofagi tardoantichi, ha la stessa forza perturbante delle due dita di Cecilia che sporgono rovesciate appena fuori dal bordo della lastra per esporsi vulnerabili nello spazio vuoto, unica volontaria frattura in quella crisalide altrimenti impenetrabile.
Il lirismo che culmina in queste opere perturbanti ha i suoi equivalenti nella pittura stremata e rarefatta di Giovanni de Vecchi all’Aracoeli, dal Miracolo di San Diego del 1597-98 alla Processione di papa Gregorio Magno del 1603-4, e nella forma compressa e aniconica, tutta orizzontale, della vasca in portasanta di Jacopo della Porta per Piazza Colonna (1575), estesa come un vasto arredo ligneo e modellata in delicatissimi, trasparenti passaggi tonali.
Subito dopo la Cecilia questo lirismo tenta una generosa sopravvivenza nelle opere di Francesco Mochi, con l’Angelo e con l’Annunziata del duomo di Orvieto del 1605 e del 1608, e poi, più intimamente, con la straordinaria S. Marta del 1610-12 (S. Andrea della Valle), e nell’opera più autentica di Pietro Bernini, il Giovani Battista del 1613-15, tutte sculture posate all’interno di una delicata membrana a forma di crisalide che le contiene e le limita in uno spazio ristretto e imploso, con una pudica contrazione del segno e un’estrema decantazione dei dettagli che le purifica da tutto ciò che può essere banalmente descrittivo.
2002