Opere da studiare

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Opere da studiare

Castelseprio
Una delle opere più interessanti da studiare, in Italia, è indubbiamente il ciclo di Castelseprio.

Il Maestro di Castelseprio è evidentemente un pittore greco attivo in un contesto che approvava pienamente il pittoricismo neo ellenistico di Costantinopoli. Chi ha studiato il ciclo sembra smarrito tra le datazioni più contrastanti, perfino Ragghianti oscillava indeciso con una datazione tra il VII e IX sec, forse VIII in epoca iconoclasta.
Gli affreschi sono stati datati al X secolo, vicino al Rotulo di Giosuè nell’ambito della Rinascenza Macedone, e al tardo VII secolo. Per Toesca erano del a VII sec, per Lazarev VI-VII sec.

Manca a C l’incredibile freschezza gestuale dell’eccezionale Foglio porpureo di Xanten (sec VI c, pergamena, Bruxelles), il magnifico foglio sciolto inserito in un manoscritto carolingio, e non sembra presente la pastosità delle opere più antiche di s M Antiqua.
Se gli affreschi vengono messi a confronto con il magnifico Rotulo di Giosuè, del X secolo della Biblioteca Vaticana appaiono assai meno istericamente stilizzati, anche se il disegno fluido del Rotulo ( ) è legato senza dubbio allo stile pittorico di Castelseprio, come fanno pensare gli scorci e i dettagli architettonici.
Nei riquadri più poetici e di più fresca esecuzione impressionista c’è la stessa grafia nervosa e corsiva dei pittori emigrati a Roma per l’iconoclastia del VIII secolo attivi in s M. Antiqua e in S Saba ( ).

Ho sempre pensato, come tanti, a un pittore greco ospitato, subito dopo l’Iconoclastia, nel fertile e vivace ambiente carolingio all’inizio del IX secolo, il contesto straordinario che ha portato più tardi alle eccezionali miniature del Maestro di Ebo e di Utrech.
Il ciclo di Castelseprio sembra essere l’anello mancante tra la continuità della pittura ellenistica perpetuata da Costantinopoli e la magnifica gestualità delle miniature carolingie, mentre lo stile compassato e rigido del X secolo di Rinascenza Macedone appare piuttosto come il tentativo di continuare questa tradizione di incredibile spontaneità pittorica con forme più stilizzate e schematiche.

Nel ciclo c’è tutta la freschezza descritta da Ragghianti nelle sue bellissime pagine del 1962. Le conclusioni tratte da Andaloro (1993) mi sembrano convincenti: 844 circa, in ambito carolingio. Resta aperto il quesito importante posto da Ragghianti: pittore romano o bizantino? D’altra parte anche il foglio di Xanten pone lo stesso problema, Ragghianti ipotizzava con grande sensibilità che il pittore geniale del riquadro con Salomone e i figli dei Maccabei (649-653) di s Maria Antiqua potesse essere il Maestro di C.
Evidentemente il M di C vive e opera educato da una cultura di altissimo livello qualitativo che si snoda tra i Figli dei M e il Rotulo di Giosué dopo aver assimilato molto bene la lezione della meravigliosa negligenza dei pittori presenti a s Saba e in s M Antiqua del VIII sec.
Che questo pittore purissimo sia romano o greco, non c’è dubbio sul fatto che la sua cultura di fresca continuità ellenistica sia stata alimentata anche dalle miniature bizantine.

Galleria di roccia del santurario rupestre di Yazilikaya, presso Hattusa, 1250-1230 ac
2014. Berlino. Nel Museo del Pergamon, sezione Ittita, è stata ricostruita in copia, in una sala, la Galleria di roccia del santuario rupestre turco di Yazilikaya (1250-1230) presso Hattusa, la più antica capitale Ittita, scoperto e studiato dagli archeologi tedeschi.

Avevo già trovato le foto del santuario in rete e nei libri di Lucienne Laroche Dai sumeri ai sassanidi 1971 e di Kurt Bittel, Ittiti, 1976 (it.1977).
Gli studiosi sono concordi nel definire Dio spada l’incredibile dettaglio di quello che a prima vista sembra una panoplia, un trofeo di armi che ha subito attirato la mia attenzione per la sua forma complessa; io dubito che si tratti di una divinità, Bittel pubblica la foto di una spada votiva con due leoni pendendi di lato analoghi a quelli visibili nel monumento, e questo non prova affatto che nel rilievo ci sia un Dio-spada, prova solamente che le armi del tempo erano fatte così.
Io penso che si tratti invece di un’arcaica, magnifica panoplia di armi, un trofeo reale costituito dall‘armatura sorretta da un perno monumentale, con l’elmo in alto e con i due leoni sconfitti, una glorificazione del sovrano guerriero. Forse questa è la prima panoplia di armi conosciuta, ideata per una sepoltura reale, e mi sorprende che nessuno nelle pubblicazioni che ho consultato finora accenni anche solo ipoteticamente a questa possibilità.

Il busto del presunto leone alato di piazza s Marco, un bronzo affascinante, sembra essere stata aggiunto ad un collage maldestro di frammenti che hanno trasformato una scultura più antica, verosimilmente una chimera, in una figura di leone alato d’impronta naturalistica e rinascimentale.
L’unica ipotesi che circola, per adesso, è appunto che il bronzo fosse una chimera, eppure non si parla di iconografia orientale, ma incongruamente di originale greco antico (?).
La testa è chiaramente una bella opera medioevale, magari di area Sasanide e desunta da un modello cinese, se non è addirittura un frammento cinese originale importato a Venezia e poi saldato goffamente ai frammenti successivi. Questa larga testa è confrontabile con quelle del Fo cinese protettore dei templi e soprattutto delle chimere alate cinesi.

2006. L’attr. più interessante di questi ultimi anni è certamente quella della Lupa capitolina, adesso ritenuta medioevale e non più etrusco-romana.
L’ho sempre considerata un’opera di altissimo livello, però mi convince l’idea che possa essere un magnifico bronzo medioevale, indipendentemente dal tipo di indagine tecnica specialistica che lo proverebbe e che non può mai sostituire la lettura critica.
A. La Regina ha riepilogato intelligentemente in un breve articolo su La Repubblica (2006) la vicenda della Lupa bronzea. Nel XIX secolo qualcuno aveva già ipotizzato che potesse essere medioevale e nel 1934 uno studioso escluse l’antichità etrusco romana per motivi formali. Non c’era bisogno quindi di aspettare la datazione al carbonio e le osservazioni di una restauratrice sulla tecnica di fusione delle campane medioevali.
2012. A Firenze ho rivisto dopo tanti anni nel Museo archeologico la Chimera di Arezzo per confrontarla mentalmente con la Lupa, poi (6.12) ho osservato bene la Lupa con l’illuminazione che adesso è resa possibile dalla grande aula che la ospita, accanto al Marco Aurelio, dove il bronzo può essere osservato senza la suggestiva penombra che lo ha sempre protetto. L’attribuzione al Medioevo è più che giustificata.

2012. Nella Mostra annuale dell’Antiquariato in PV un bel dipinto attribuito a Tintoretto ( ) mi ha fatto pensare subito a un autore fiammingo. Il disegno della figura centrale è fluido e slegato dal terreno, l’anatomia è sfuggente e diafana; segni di una febbrile sensibilità epidermica. Potrebbe essere opera del fiammingo Franck Pauwels, Paolo Fiammingo (Anversa (?),Venezia 1596), allievo e stretto collaboratore di Tintoretto a Venezia, dove arriva nel 1578.
Nel catalogo della collezione Patrizi (A.M.Pedrocchi, Le stanze del tesoriere, 2000) è riprodotto un magnifico dipinto che l’autrice ritiene di collaborazione tra Tintoretto e Pauwels (Allegoria con l’Incoronazione della Vergine), dove si nota lo stesso impasto inquietante di materia bruna e disegno sfuggente che domina anche nel dipinto visto a PV.
Ho pensato anche all’olandese Lambert Sustris, presente a Venezia, fino alla morte nel 1584, accanto a Tiziano e Tintoretto. Nella sua affascinante Venere del Louvre S ha sciolto un volume traslucido e fragile in superficie contro uno sfondo macerato e denso di dettagli veneti.
Il dipinto esposto a PV potrebbe essere un’opera di grande qualità frutto della collaborazione di Tintoretto con Paolo Fiammingo oppure un inedito di Sustris fortemente condizionato dalla sua profonda educazione veneta. Comunque il dipinto di Tintoretto più vicino a questo di PV è sicuramente il Caino e Abele (1550-1553) della Galleria dell’Accademia.

I due magnifici Suonatori della Borghese aspettano da anni un’attr. Io penso da sempre a un gruppo che comprende anche il Musicista della Spada, attr. a Tiziano, e al ritratto di ‘anonimo giorgionesco della Alte P. di Monaco.

2000. Nella sala che precede la Sacrestia del Gesù c’è un grande, bellissimo dipinto con una storia biblica che potrebbe essere di Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto (Genova, 1619-1665), una densa massa pittorica plasmata con vigore che fa pensare alla pittura del seicento ligure e alla maniera di Maffei.

Nel cortile di Palazzo Venezia è conservato, purtroppo esposto alle intemperie, un bellissimo Bollettino di guerra del 1918.
Nella lastra di pietra incisa è inserito un notevole rilievo in bronzo, un’aquila che stringe una spada, modellato sicuramente da un ottimo scultore del tempo (Il catalogo delle sculture di PV, edito nel 2008, non lo cita neanche nella scheda relativa al Bollettino di guerra).
Mi fa pensare ai fregi incisi da Duilio Cambellotti per l’Istituto editoriale italiano negli anni ’20, ma l’ideazione del gruppo è più intensa e creativa, si tratta di uno scultore di più forte personalità e cultura che condivide però con C il simbolismo permeato da un sobrio naturalismo unito ad una violenta gestualità espressionista.

In un articolo dedicato ai disegni di bambini relativi alla guerra, il Venerdi ha pubblicato un disegno acquarellato che mostra una scena della guerra civile spagnola. L’autore parla genericamente di un ‘giovane artista anonimo’ mentre per tutti gli altri disegni vengono citati il nome e l’età del bambino. Quando ho visto questa foto ho pensato subito al disegno volutamente infantile di Kokoschka per Guernica.

Sono da capire bene i rilievi anomali scoperti a Gobekli Tepe, in Anatolia, e datati a 11 mila anni fa (cfr. Lara Ricci IlSole24Ore, recensione del libro di K Schmidt, Costruirono i primi templi). Io non credo a questa datazione assurda.

Il tempio anatolico di Gobekli Tepe

2011. Due brevi recensioni (Il Venerdi, IlSole24Ore) del libro di Klauss Schmidt, dell’Istituto di Archeologia di Berlino, Costruirono i primi templi (2011), relativo ai ritrovamenti del sito anatolico di Gobekli Tepe (1994), impongono una prima riflessione a caldo anche solamente guardando le foto a colori dei due articoli.
Il sito, individuato attorno al 1963, sarebbe stato datato con il carbonio a 11 mila anni fa.

Secondo i redattori, i resti architettonici del tempio sarebbero databili a 11 mila anni fa e il sito sarebbe il ‘capostipite di tutti i luoghi di culto dell’umanità’. I resti di Gobekli Tepe sarebbero ‘I primissimi templi dell’homo sapiens’, con rilievi ‘di stupefacente bellezza.
La tesi che viene sintetizzata negli articoli è davvero grottesca: l’agricoltura neolitica sarebbe nata in occasione di questa costruzione per ‘sfamare gli operai’ (?).
Negli articoli viene pubblicata la modesta ‘statua di Urfa, presentata come ‘la più antica scultura a grandezza naturale della storia dell’umanità’, ed è evidente l’intenzione di consolidare l’idea che il sito anatolico, nelle vicinanze di Ufa, sia stato il luogo di un inizio straordinario.

Lo scenario è sconcertante e involontariamente ridicolo. I ‘raccoglitori e i cacciatori preistorici (?) si sarebbero evoluti improvvisamente costruendo un tempio in pietra prima ancora di aver scoperto la tecnica neolitica dell’agricoltura, un’assurdità, dato che sappiamo che ogni monumento in pietra è la forma raggelata di innumerevoli precedenti costruzioni in legno predisposte per studiare nel tempo l’orientamento dei volumi che non può mai essere casuale e tanto meno improvvisato.

Non sono un archeologo e naturalmente posso sbagliare, ma già da una prima osservazione basata sulle pochissime notizie e sulle poche foto annoto delle importanti contraddizioni.
I monoliti del sito riproducono la forma del’architettura megalitica con una goffa stilizzazione che rievoca debolmente il dominante rapporto tra verticale e orizzontale presente a Stonehenge (4500 c) e altrove, una stilizzazione svitalizzata e arida che condiziona anche tutte le altre forme, dai volumi ai rilievi.

Ci sono ingenue pretese iconografiche prive di senso, come la grottesca fascia a rilievo che scende dall’alto, un segno dell’interpretazione illogica di modelli troppo colti per essere capiti dai rozzi esecutori del sito anatolico.

Mi è sembrata immediatamente rivelatrice la foto di un alto pilastro con un presunto perizoma. Ho pensato subito alle forme eccentriche del periodo predinastico egiziano (3000 ac), le uniche in grado di giustificare lo stile del sito anatolico, forme raffinate e complesse che non possono essere a loro volta la derivazione di questi rilievi banali e privi di un ordine logico.

L’accenno delle due mani sul ventre, in questa stele, è comune a tutte le forme neolitiche e a tutte le loro più tarde derivazioni manieristiche, e la si trova identica appunto nella statua di Urfa, nei pressi del sito, un’opera che viene collegata a questo luogo, ma dalla datazione incerta e non certo riferibile a 10 mila anni fa.

Le sgradevoli figure di animali dei rilievi mostrano abbreviazioni manieristiche che presuppongono l’effetto d’eco di una lunga tradizione precedente; la ripetitiva scansione ritmica del gruppo di volatili, per esempio, è il segno di un viziato e miope manierismo.
E’ evidente che queste forme nascono come greve stilizzazione di forme precedenti, basta metterle a confronto con le tantissime forme fresche e vivide dell’arte magdaleniana per avvertire la pesantezza di uno stile popolare e inaridito, se questi rilievi fossero davvero forme iniziali avrebbero la stessa immediatezza dei rilievi magdaleniani, sarebbero il frutto di una visualizzazione necessaria e urgente, energica, di un racconto articolato e comprensibile.
Le figure sono invece proiettate disordinatamente contro un piano vuoto, in aperta contraddizione con le loro annotazioni realistiche; la confusione compositiva è incoerente con tutte le forme più antiche che conosciamo, che mostrano sempre un controllo logico su ciò che viene rappresentato.
L’esperienza della critica d’arte suggerisce la lettura di queste forme nel contesto di una debole e immotivata ripresa di segni già noti e molto più antichi.

Quella forma deformata che si estende verso il basso rievoca subito la mano allungata di Nut dell’arte egiziana, la forma dilatata del suo corpo con il braccio allungato che più tardi raffigura il sole che distende i suoi raggi anche nella forma verticale dell’obelisco. Nei rilievi più tardi di Akhenaton il sole allunga le sue braccia verso il basso, e i rilievi predinastici del 3000 ac esibiscono continuamente queste forme di corpi elasticamente allungati.

I goffi rilievi anatolici sono accostabili solamente alle tavolette predinastiche del 3000, troppo raffinate per essere a loro volta l’esito delle stilizzate banalità di quelle turche, che mostrano invece con evidenza a quali forme creative i rozzi esecutori del tempio anatolico potevano guardare, dopo il 3000, quindi, e non 11000 anni fa.

Nelle tavolette predinastiche (v W. Westemdorf, L’arte egiziana, 1968, it 1969) ci sono tutti gli elementi stilistici che nei rilievi anatolici appaiono devitalizzati e spenti, sostanzialmente equivocati.
Nella tavoletta in scisto del Louvre si vedono le incredibili mani allungate, le figure plastiche occupano uno spazio vuoto, nelle corde è esaltato un forte realismo privo di sfondo; in quella di Oxford al realismo, le costole visibili degli aninali, si associa la deformazione visionaria dei corpi e la stilizzazione estrema dei volumi.
Anche le tavolette successive, della I dinastia (2950 c, cfr. W, 1968) mostrano la stessa dislocazione nel vuoto e la stilizzazione deformante (cfr. v A.Cartocci, G. Rosati, L’Arte Egizia, 2005, pag. 23-26, e pag. 12 per l’impressionante tavoletta del Louvre).

Nei rilievi egizi più antichi la ripetizione ritmica è frequente, soprattutto nella registrazione del mondo animale. Una tavoletta a Il Cairo mostra i piccoli animali guidati da un ritmo ripetitivo analoghi a quelli che si vedono in basso nel pilastro anatolico (cfr A.Cartocci, 2005).

Le forme decorative e le icastiche semplificazioni plastiche fanno pensare quindi a uno sviluppo analogo a quello dell’arte Ittita, che stilizza i segni egiziani più antichi.
Il leone del sito anatolico è identico a quello di una lastra ittita (1200 ac), e basterebbe questo confronto per capire quanto i rilievi del sito siano verosimilmente successivi e non precedenti a degli stili locali evoluti. Le forme del leone ‘anatolico’ sono così sinuose e naturalistiche perché cercano di ripetere senza capirla la solida volumetria del leone ittita, se fossero la matrice arcaica del leone ittita avrebbero la stessa intensità aurorale della grande arte neolitica, che invece è del tutto assente in questa negligente e stanca ripetizione di schemi già invecchiati.

Tra le pretese iconografiche prive di senso c’è la grottesca fascia che scende dall’alto, illogica e ridicola ripresa di modelli troppo colti che fa pensare subito alla cintura visibile nel Re Idrimi di Alalakh (Turchia) del 1500 ac (Londra, British Museum).

La goffa incisione di ideogrammi trovata nel sito anatolico ( ), inoltre, mostrerebbe, secondo dei commenti avventati, un ‘incredibile’ legame con quelli egizi (?), mentre, al contrario, sembra confermare l’assurdità della datazione a favore di una derivazione egizio-ittita tarda e corrotta dal più stanco manierismo, e fa sorridere se confrontata con la raffinatezza estrema della tavolette mesopotamiche cuneiformi più antiche (v l’iscrizione Ittita del IX-VIII sec.).

Il menhir di Saint-Sernin, databile a 3.000-2.000 ac, tardo neolitico, è evidentemente il più remoto modello formale per l’orribile stele e per la mediocre scultura anatolica: la riduzione schematica dei segni isola e scandisce, destoricizza, le fasi descrittive; il busto, con la sua peculiare fissità astorica che viene ripetuta nell’universo neolitico in ogni parte del mondo, costituisce un bagaglio concettuale comune; ricorrono la semplificazione della veste all’altezza del collo e soprattutto le due mani sul ventre; nella stele anatolica la forte cintura ai fianchi sembra equivocata come inverosimile perizoma, frutto di una irrazionale sovrapposizione tra la matrice tardo neolitica esemplificata dal menhir francese e le forme egiziane predinastiche ossessionate dalla elastica estensione dei volumi.

L’aspetto più incredibile di questa vicenda è nella cecità dimostrata implicitamente verso l’arte paleolitica, che in questa prospettiva appare come espressione confusa e remota di ignari raccoglitori e di cacciatori seminudi. Si ignora che il presunto forte realismo debolmente presente in Anatolia è evidentemente la stanca derivazione stilizzata di volumi già magnificamente padroni dello spazio in un’epoca, quella della cultura Magdaleniana, che nella sua fase più fertile viene datata tra i 18 mila e i 10 mila anni.
Basti pensare ai capolavori straordinari della splendida cultura Magdaleniana (18.000-10.000) al Bisonte che si gira, al Cavallo in avorio da Les Espéluguers (Lourdes), al Cavallo che salta, al Bastone con rilievo di gallo, alla Dame di Sireuil, (v Walter Torbrugge, L’arte europea delle origini, 1968, It. 1969), senza dimenticare che esistevano già da millenni, accanto alla pittura naturalistica dei siti rupestri, le incredibili veneri paleolitiche.

Ovunque si guardi alle tantissime forme, anche periferiche, dell’arte magdaleniana e neolitica, troviamo sempre una freschezza stupefacente, una percezione acuta della realtà vivente e in movimento, le stilizzazioni vengono dopo, in un contesto culturale del tutto diverso che presuppone la dislocazione delle forme in una vasta articolazione, di spazi, di oggetti e di figure, che prevede il dialogo tra gli elementi, ed è per questo che i singoli elementi cedono freschezza a favore di una condivisione di segni stilizzati e abbreviati.

Attribuire questi patetici rilievi anatolici a 11 mila anni fa significa ignorare del tutto la grammatica delle forme.
Il banale e insensato, spento ritmo ripetitivo, è quello dell’arte Ittita più stilizzata e impoverita.

Io credo, quindi, che per quanto riguarda Gobekli Tepe, si tratti di un modestissimo e freddo monumento creato molto dopo il 3000 ac e debitore dello stile predinastico egiziano e della locale, rozza maniera Ittita (1200 c), e penso che le foto pubblicate dai due articoli siano già un materiale più che sufficiente per considerare l’ipotesi dell’archeologo tedesco un’assurdità priva di fondamento (a quanto pare una precedente visita di archeologi americani aveva parlato di cimitero medioevale).
Non mi risulta che ci sia nessuna voce dissidente, GT è considerato il sito archeologico più importante della storia, mai io non ci credo. Sbaglierò.
2011-2014

7.2016. In una intervista (Il Venerdi), Galasso, che è un colto appassionato di archeologia, si riferisce al sito anatolico ripetendo le incredibili notizie già note e accettando quindi per buona la tesi della sua antichità approfittando dell’occasione per polemizzare implicitamente con le tesi tradizionali del passaggio storico dalla preistoria alla cultura neolitica che per motivi oscuri lo infastidiscono.

30. 7. 2016. Ripeto, il consenso, almeno da quanto leggo in rete, è universale e incondizionato e proviene dagli ambienti scientifici tedeschi, i più qualificati e seri.
Se si trattasse di un errore sarebbe davvero uno scandalo, perché dimostrerebbe la forza negativa che spinge a trovare per forza qualcosa di nuovo invece di studiare ciò che già conosciamo, e soprattutto dimostrerebbe che l’evidenza della critica d’arte non vale contro i calcoli accademici e le datazioni da laboratorio.
Se invece il tempo confermerà l’autenticità di questo sito anatolico avrò sbagliato e lo ammetterò, con la soddisfazione però di aver dato comunque la precedenza alla lettura critica e soprattutto di aver cercato serenamente delle conferme puntuali alla mia opinione, che si è formata immediatamente e senza esitazioni nonostante l’autorevolezza professionale degli studiosi coinvolti.

4.2017. Continua a consolidarsi la credenza paradossale che il sito anatolico sia importante: ’il più antico osservatorio astronomico dell’umanità’ sarebbe in grado di documentare un evento catastrofico datato a 11 mila anni fa (V. S, 4.2017, articolo in rete), come sostiene un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo. Continuando a trascurare l’eccezionalità del livello raggiunto dalla cultura magdaleniana, si ipotizza che una civiltà superiore (?) sarebbe stata spazzata via da meteoriti, come attesterebbero i rudimentali e patetici rilievi del sito. Grottesco.

Mi chiedo quando un archeologo serio vorrà intervenire per definire tutta questa vicenda una grossolana idiozia.