L’ossessione caravaggesca

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L’ossessione caravaggesca

I
Un dipinto di Giovanni Battista Caracciolo

Sacra Famiglia con San Giovannino, coll. Privata, NY

https://it.wikipedia.org/wiki/Sacra_famiglia_con_san_Giovanni_Battista#/media/File:Michelangelo_Caravaggio_055.jpg

2001. In una mostra recente, Caravaggio e il genio di Roma, 1592-1623, Palazzo Venezia 2001, la Sacra Famiglia con San Giovannino proveniente da New York, collezione privata, è stata attribuita senza esitazione e forse senza motivo a Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Si legge nella scheda di catalogo, a proposito di questo meraviglioso dipinto, che non è in discussione la sua importanza fondamentale per la comprensione di Caravaggio.

G.B.Caracciolo, Amore dormiente, Palermo, Palazzo Abatellis; G.B.Caracciolo, Sacra famiglia, Cosenza

https://it.wikipedia.org/wiki/Battistello_Caracciolo#/media/File:BattistelloSalome.jpg

Non è in discussione: eppure una diversa ipotesi attributiva è resa legittima e quasi ovvia da poche osservazioni elementari e dalla lettura serena di questo dipinto tutt’altro che meraviglioso di cui vale la pena occuparsi solo per notare la tristezza di un’attribuzione fondata esclusivamente sul nome autorevole degli studiosi che in passato hanno espresso un loro parere positivo: Longhi, Mahon. Marini.
La Sacra Famiglia può essere facilmente attribuita invece a Giovanni Battista Caracciolo (Napoli, 1578-1635), un dignitoso, austero pittore che dopo il passaggio a Napoli di Merisi nel 1607 e nel 1610 ebbe la fermezza di creare un suo coerente, assorto linguaggio pittorico che oggi è perfino inutile e riduttivo definire caravaggesco.

Nelle tele napoletane del 1607 Caravaggio disseminava in piano un vasto mosaico di icone separate tra di loro da profonde crepe di ombra, soprattutto ne Le sette opere di misericordia (Napoli); Caracciolo si difende dall’insidiosa fascinazione dei dipinti caravaggeschi adottando una soluzione costruttiva che nega proprio quello sgretolarsi del magma: nei suoi dipinti plasma una massa sostanzialmente priva di profondità, bidimensionale, e lavora alla sedimentazione di una serena pittura tonale che in realtà non condivide quasi niente con la ricerca caravaggesca.

Nella Sacra famiglia si conferisce unità alla compatta massa epidermica della figurazione modellando un’ingenua catena visiva di giunture: il corpo del bambino si salda pacatamente a quello della madre e le sue mani si annodano compatte sulla sua spalla; in basso questa progressiva catena di giunture scorre con un moto rotatorio, senza interruzioni, con la mano della madre poggiata sulla cornice, un braccio di Giovannino unito ai piedi serrati del bambino e l’altro tenuto stretto da Giuseppe e poi saldato alla mano della madre, più in alto, a concludere un bordo plastico perfettamente circolare e continuo.
Questa suggestiva saldatura epidermica del volume è la stessa che agisce nell’Amore dormiente di Caracciolo (1615-1618) visto recentemente a Roma, un corpo che appare modellato tonalmente come il bambino della Sacra Famiglia e caratterizzato dalle stesse saldature plastiche delle gambe, delle mani e dei piedi che ne sigillano l’intero volume.
Questa soluzione compositiva, questa insistente e intensa saldatura interna che contrae senza pathos le figure in una cripta di lenti trapassi tonali, è visibile anche nella Sacra famiglia di Cosenza, nella Fuga in Egitto di Capodimonte e nel Riposo nella fuga in Egitto di Pitti, opere di Caracciolo segnate anche da un’altra soluzione formale caratteristica del pittore e fondamentale anche per la Sacra Famiglia di New York: le vaste campiture confinanti di rosso e di blu scuro schiacciate in superficie a confermare timbricamente l’impianto tonale dominante.

Chi ha dipinto la Sacra Famiglia ha studiato attentamente la caravaggesca piramide visiva della Madonna del Rosario (1607), ha studiato il descrittivo allineamento dei piedi in basso che corrisponde, in alto, all’annodarsi del corpo del bambino su sé stesso, e ha colto il senso retorico e teatrale della separazione drastica tra il rosso gravitante in alto e le chiazze scure che spaccano il corpo della piramide al centro; però ha sbloccato e trascritto serenamente questi elementi in un suo diverso spartito di modesta prosa colloquiale assicurandone l’unità con l’invenzione di quel recinto di giunture segniche.
Si tratta evidentemente di una soluzione linguistica che è assolutamente estranea alla ricerca di spiritualità pauperistica che condiziona invece l’opera caravaggesca, qui c’è una prosasticità pacata, giustificata semmai dalla tradizione accademica carraccesca, che si addice benissimo a Giovanni Battista Caracciolo negli anni del prudente contatto napoletano con i modelli di Caravaggio.

II
Nicolas Tournier, non Caravaggio

https://www.google.it/search?q=caravaggio+chiamata+di+matteo&hl=it&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwi0sLa1leHXAhUBUhQKHSB2ATgQ_AUICigB&biw=1024&bih=715#imgrc=k6cMlHNpknR_LM:

http://www.arteworld.it/vocazione-santi-pietro-andrea-caravaggio-analisi/

2006. In una mostra dell’Ala Mazzoniana della Stazione Termini è stata presentata una Chiamata di Pietro e Andrea, di proprietà reale inglese, attribuita a Caravaggio da Denis Mahon.
Una bella intuizione di Paola Berardi (‘c’è eleganza francese’) mi ha fatto capire subito che l’autore poteva essere Nicolas Tournier (a Roma tra il 1619 e il 1626, +1657).

http://saladelleasse.it/attivita/visite-guidate/evento-alla-galleria-corsini/ 

Ho messo a confronto il Sinite parvolos della Corsini con la Chiamata e non ho più avuto dubbi: c’è l’identico l’impianto pacatamente ritmico che fluisce da sinistra, dal grigio e oro del pesce e del mantello, del nuovo dipinto, alla sacca grigia argento e della veste dorata del Sinite parvolos, fino alle analoghe modulazioni tonali dei due dipinti, dove una massa di rossi e rosa sono frenati dall’opacità dei colori più freddi.
Identica è la gestualità ‘elegante’ e colloquiale, inconcepibile in Caravaggio. C’è poi un’evidente identità tipologica delle figure, dove le teste barbute sembrano ripetersi identiche nei due dipinti e dove soprattutto si ripete il viso glabro e femmineo del Cristo, che nel dipinto Corsini riappare inquietante all’estrema destra, e anche nel s. Giovanni della Spada, di Tournier, torna questo viso femmineo, anche se meno perturbante di quello della Corsini e della Chiamata.
Impossibile quindi avere dubbi, ed è triste pensare che questa grottesca attribuzione sia stata accolta universalmente solo perché suggerita da un venerando studioso che nessuno osa smentire.

III
Guerrieri non Caravaggio

2016. Antonio Pinelli, che si è spesso battuto contro le cattive attribuzioni, sostiene adesso con un articolo su La Repubblica, che la Giuditta trovata nel 2014 a Tolosa ed esposta attualmente a Brera ( ) sia opera di Caravaggio, ma io penso che sia invece un’opera di Francesco Guerrieri.
Quando ho visto, qualche tempo fa, la prima riproduzione del dipinto, ho pensato subito a Guerrieri: nitida icasticità, perentoria illuminazione destinata al contrasto netto dei volumi, piacere irrefrenabile del racconto naturalistico esentato dal rigore lombardo.
Il machigiano Giovanni Francesco Guerrieri (1657) studia e copia Caravaggio a Roma subendo l’influsso di Grammatica, di Borgianni e di Lanfranco, con esiti prossimi a quelli di Cantarini e di Turchi (cfr. R.Cannatà, scheda biografica, Treccani, 2003).
Pinelli sembra affidare la sua attribuzione a suggestioni del tutto esteriori riscontrabili in qualsiasi altro pittore caravaggesco del tempo, non legge criticamente l’opera e soprattutto non riflette sulla struttura interna che dovrebbe accostarla ad altre opere di C, che sono sempre caratterizzate da una ben riconoscibile ossatura compositiva, da un inconfondibile ductus e dal disegno concreto di inequivocabile matrice lombarda.

Il dipinto di T mostra degli espliciti e occasionali, scontati, riferimenti al precedente caravaggesco della Galleria Barberini: il tessuto rosso in alto, lo schizzo di sangue, la spalla e le mani della vittima, ma la struttura del dipinto è completamernte estranea alla poetica di C, che nella sua Giuditta ripete il suo peculiare schema ellittico che scorre dall’alto a ds, vira bruscamente ai bordi estremi del quadro per tornare indietro con l’allitterazione delle braccia allineate, come avviene anche nella Vocazione di Matteo. Nella G di T invece la struttura prevede una massa compatta calamitata duramente verso il centro del dipinto nel quale si annodano tutti i segni e nel quale implode anche l’impianto luministico, dove la massa di ombra della figura di destra viene saldata per contrasto alla luce fredda che colpisce i due visi delle donne e la spalla di Oloferne; elementi grammaticali che sono inesistenti nell’opera di C e in aperto contrasto con la sua poetica.
Lo schermo, nel dipinto di T, cataloga i dati della realtà allineandoli con energica, ma incolta icasticità: il gozzo della vecchia, il volto pallido di Giuditta, il corpo distorto di Oloferne. Il disegno qui ignora la rigorosa norma caravaggesca, fedelmente lombarda, della densa compattezza del volume, e offre in cambio la bella soluzione plastica del corpo di O deformato e semplificato.

Nelle opere dipinte tra il 1615 e gli anni 30, G ha impiegato spesso la sua struttura compositiva più efficace: comprimere i volumi al centro del dipinto per costringerli ad annodarsi in una reciproca contaminazione di livida e corrusca matericità.
Come nella Giuditta di T, nei dipinti di G i dati illustrativi sono sempre schiacciati e allineati in un rigido piano bidimensionale. Il livore della pelle, di origine lanfranchiana, è il segno rivelatore di una intenzionale volontà narrativa, come lo è il viso della G di T.
La G non è di Caravaggio, evidentemente, ma può essere di Guerrieri, e può essere stata dipinta almeno dieci anni dopo la morte del pittore lombardo, magari durante una delle lunghe permanenze a Roma del marchigiano, ed é proprio l’esplicita e superficiale memoria caravaggesca del dipinto, compreso il viso della vecchia rugosa, che denuncia il segno di un retaggio che in quel momento era ormai entrato nel vocabolario corrente dei pittori eclettici che a metà secolo coniugavano Reni e Borgianni con Lanfranco e Gentileschi.
12.2016

                                                IV
                   Battistello Caracciolo, non Caravaggio

http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/uploads/immagini/zoom/8065a0434251be68e9ecb258ec8fc56c1b3b1724.jpg

 4. 2017. E’ esposto a Roma (Scuderie del Quirinale) un dipinto con Salomé proveniente da Madrid e attribuito impudicamente a Caravaggio, ma è evidente anche solamente dalle fotografie che questo interessante ma modesto dipinto non può essere un’opera di C.
Come ho già osservato nell’attribuzione relativa a Battistello Caracciolo, questo stretto annodarsi privo di spazio dei volumi non riguarda la prassi di C, ed é rivelatrice anche la ripetizione dei più scontati e snaturati etimi caravaggeschi.

https://seieditrice.com/materiali/irc/apostoli/pietro/arte.html

D’altronde, nel capolavoro di Battistello, la Liberazione di s Pietro (1615) ( ), agiscono la stessa logica compositiva, che raccoglie e annoda le forme, e un naturalismo moderato che nutre pacate suggestioni materiche sempre virate verso la delicatezza del grigio, con una addolcita percezione della realtà fenomenica che è molto diversa da quella che porta al plastico e più saldo costruire lombardo di C.

Le opere del Battistello prevedono il confluire delle forme verso il centro per consolidare un blocco serrato e quasi anossico, inconcepibile per la cultura pauperistica del lombardo Caravaggio, che presuppone invece una scena scavata da ampie lacune di vuoto e una composizione che obbliga lo guardo a muoversi nella dorsale di una struttura circolare, ellittica o sbarrata da diagonali.

E anche il dipinto di Londra (NG) con Salomè ( ), che viene citato per avvalorare l’attribuzione del dipinto di Madrid, è del tutto estraneo a Caravaggio: qui è completamente assente la drammaturgia pauperistica, le figure sono serenamente allineate sullo stesso piano e associate da un ritmo lento che le salda in una dimensione del tutto priva di dramma; è un’estetica, questa, di cauto naturalismo descrittivo d’impronta carraccesca che si addice alla maniera napoletana di Battistello.

V
Mediocre imitatore di metà Seicento, non Caravaggio

Ottobre 2017. In occasione di una mostra milanese su Caravaggio si riparla di un mediocre dipinto con una Maddalena che viene attribuito da MG al pittore.
L’inconsistenza di questa attribuzione emerge dal semplice confronto con le opere di C che possono aver suggerito qualcosa al modestissimo autore: in C i visi della Madonna morta e dell’Eros dormiente sono densi e plastici, concreti, mentre il viso della Maddalena è del tutto privo di spessore; l’autore della M è ignaro della poetica di C, la collocazione della figura nello spazio è priva di senso, l’incapacità di modellare il corpo denota l’ignoranza delle basi più elementari della pittura e dell’anatomia: le mani e il collo sono privi di ossa interne, il modellato della veste è inconsistente, il chiaroscuro della testa è dilettantesco e imbarazzante, fa sorridere se messo a confronto con i dettagli caravaggeschi analoghi che evidentemente lo hanno suggerito all’ingenuo esecutore.
Il dipinto può essere attribuito genericamente a un modesto e impreparato, tardo imitatore di Caravaggio e di Gentileschi, un mestierante che può essere stato influenzato, nella sua scelta, a metà Seicento, dagli esempi della cerchia di Guido Cagnacci, come quella goffa Morte di Cleopatra ( ) ascritta senza motivo al pittore, un dipinto troppo inferiore per qualità alle carnali opere virtuosistiche del maestro (nella foto: Estasi di S Maddalena, metà Seicento)
Il tema del corpo curvato, così banale e innaturale nella Maddalena, è portato alle estreme conseguenze teatrali dal geniale e sensuale Cairo, che opera a sua volta in una cultura molto diversa da quella che ha nutrito a suo tempo Caravaggio.

VI
Spadarino

2010. Ci sono state di recente delle sterili polemiche sull’autografia del Narciso di Caravaggio. Le fuorvianti suggestioni epidermiche hanno fatto pensare senza motivo a un’opera dello Spadarino, che del Narciso ha fatto consapevolmente il suo normativo modello strutturale.

Nel Narciso caravaggesco (1599 c) il ductus compatto plasma senza esitazioni un chiasmo, con una rigorosa divisione simmetrica orizzontale, che impone un’immagine eidetica di ipnotica fissità. Questa risoluta icasticità denuncia un progetto culturale che trascende la singola opera, che qui è pensata come tassello di un mosaico più esteso.
Nell’Angelo custode (Rieti, S Ruffo, 1610-1618) dello Spadarino (Giovanni Antonio Galli) il ductus è invece friabile e sabbioso perchè segue lo smottare dall’alto verso il basso di una materia esclusivamente devoluta allo schermo bidimensionale di un piano tonale, in un registro delicato di sfumature che, diversamente da quanto accade con il N, allentano progressivamente la presa dell’icona sulla retina.

Nel N c’è un’icona seduttiva che costringe a una percezione indelebile dell’evento, nell’A l’immagine non è imposta allo sguardo da un analogo rigoroso congegno retorico (il chiasmo), ma delicatamente proposta nel suo fragile annodarsi di segni nel nucleo centrale che poi si dipana in basso nell’apertura suggerita dall’arioso divaricarsi delle ali in alto.

Come nel N, anche nel Martirio di Matteo la figura del carnefice si curva chiudendosi per obbligare lo sguardo a una forzata e intensificata focalizzazione dell’evento, e fra i due sguardi allineati verticalmente, dell’angelo e dell’uomo a terra, si insinua la cruenta frattura del braccio nudo del carnefice.
Diversamente, nell’A lo scendere dei due sguardi verso il basso si salda a ridosso del baricentro che sale verticalmente dal piede sinistro alla testa dell’a passando per la sua mano destra, e ciò che nel M è teatralmente separato, nell’A è poeticamente temperato e trascritto in versi.

L’A desume dal modello del N una materia tonale predisposta alla sintesi plastica, però vira verso un pudico silenzio, mentre il N scioglie e contraddice la sua apparente dolcezza nella vibrante deformazione del riflesso nell’acqua, un trauma inatteso che disattende l’iniziale suggestione di pacatezza; e chi ha dipinto l’A ha scelto consapevolmente l’adozione degli elementi di apparente dolcezza del N per poi declinarli in un insieme che è invece materiato per intero da quella dolcezza, per spostarli e decantarli in un registro di confortante, epidermica serenità, frutto esplicito di una cultura che evidentemente non voleva e non poteva condividere la densità tormentosa del pensiero pauperistico di chi ha dipinto il contraddittorio N.

L’autore dell’A cita letteralmente la capigliatura del N, la copia diligentemente per sottolineare il suo intenzionale lavoro di declinazione in versi del modello, ed è proprio questo un dettaglio che allontana i due autori, perchè nessuno dei due ha mai ripetuto uno stesso dettaglio più volte. Come capita sempre in questi casi, proprio la coincidenza letterale dei dettagli è la spia che denuncia non l’autografia di un autore ma, al contrario, l’evidente presenza di un altro e diverso interprete che copia i singoli sintagmi senza mutuare anche la struttura concettuale del modello, per declinare il testo in altri termini e in altro contesto culturale.

C’è un segno rivelatore, nel N, che permette di vedere con chiarezza ciò che distingue i due diversi contesti figurativi dell’A e del N, ed è quella perturbante, dolorosa linea sottile appena percettibile che indica il bordo dello stagno.
Ebbene, quella linea sottile è la chiave che permette di accorgersi che in tutte le opere dell’autore del N domina un’inflessibile frattura orizzontale che vanifica il dialogo (che vanifica gli sguardi): la linea taglia il chiasmo della Chiamata, allinea e separa il teschio e la testa del Girolamo, e taglia in due lo spazio della Crocefissione di Pietro, cancellando i volti con altre linee rette (la fune, il bordo della croce).
La composizione assiale incrociata che nella C. di Pietro disarticola bruscamente il baricentro e contrae rabbiosamente i corpi verso il nodo centrale, nell’A consolida e rende omogenea una materia decantata che altrimenti sarebbe logorata nella periferia di un profilo troppo prevedibile e troppo vulnerabile.

Nelle opere dell’autore dell’A, al contrario, il dialogo intimo a due non è mai interrotto e drammatizzato, ma è invece sempre intensificato e giustificato da una drastica riduzione materica che semplifica e favorisce la percezione visiva dell’aderenza di quel pudico avvicinarsi dei corpi: è un dialogo essenziale ed esclusivo che agisce tra due frammenti di materia, dove il bianco luminoso indica sempre e solamente l’interlocutore privilegiato (come le grandi ali candide).

Se c’è un pittore che può essere accostato all’autore dell’A (lo Spadarino) è il toscano Orazio Gentileschi che ha dipinto la Madonna col Bambino della Corsini: anche in quel dipinto domina un analogo impianto tonale esentato dal rigore concettuale del pauperismo di Borromeo e di Filippo Neri, anche qui si coltiva un dialogo confidenziale e pacato tra due corpi privi di pathos, come lo sono quelli di chi ha dipinto l’A di Rieti.

Altri caravaggeschi
La profonda distanza strutturale e concettuale che c’è tra l’A e il N è la stessa che separa la cultura icastica dell’autore della Cena di Londra da quello della Cena di Brera.
Il primo (Caravaggio) pensa in termini di cruenta icasticità e fissa come sempre un grumo concettuale di luce e ombra (a destra), seduce lo sguardo con lo scorcio virtuosistico che scherma gli oggetti del mondo visibile e poi tradisce le attese di racconto discorsivo con la cecità ostile e scostante delle figure.
Il secondo non segue un progetto culturale di altri, non si sente parte di una strategia culturale di vasta portata, si limita a dipingere con modestia il suo non esaltante rilievo tonale equivocando ingenuamente dal forte modello di Londra gli elementi descrittivi e normalizzando ciò che a Londra è esasperato; privo della confortante delicatezza poetica del pittore dell’Angelo custode, l’autore della C. di Brera ignora, anche per evidente mancanza di cultura letteraria, le angosce del tormentoso pensiero pauperistico, e crede davvero, ingenuamente, che la realtà del mondo sia in quella debole riproposizione epidermica e svuotata delle effimere sensazioni visive.