Un inedito di Francesco Cavallini
Il monumento funebre di Carlo di Montecatini (+1699) in S. Maria in Aquiro è stato attribuito nel 1997 a Domenico Guidi e successivamente, con una monografia del 2011, confermato a questo autore grazie al ritrovamento di un pagamento. Nel 1999, in una importante pubblicazione sulla scultura del Seicento romano, l’opera è stata assegnata invece a Lorenzo Ottoni.
Nel 1997 ho attribuito il monumento Montecatini a Francesco Cavallini (Carrara, documentato a Roma dal 1672 al 1692), mentre seguivo una tesi di laurea monografica su questo autore.
Il Carlo di Montecatini è un’opera strutturalmente modesta e drasticamente semplificata e non è assolutamente pensabile che sia opera di uno scultore come Guidi, che soprattutto negli anni ’90 celebrava il suo potente protagonismo nel contesto post berniniano con opere di grande rilievo, dalle commissioni per Luigi XIV al progetto per S. Pietro. Il linguaggio formale di Guidi, al contrario di quanto si può osservare con chiarezza in questo monumento, porta alla estreme conseguenze la sovrapposizione virtuosistica degli strati, con esiti di esibizionistico intreccio tra materia organica e inorganica e ancorando spesso l’opera ad un drammatico asse oscillante; nell’esercizio di una sapiente, coltivatissima contestualizzazione nello spazio che è ignota a Cavallini e assente più che mai nella scultura di S. Maria in Aquiro.
Il riferimento che viene fatto al monumento Imperiali di Guidi in S. Agostino (1674) non prova nulla, naturalmente, al di là delle superficiali e inevitabili somiglianze. Guidi in S. Agostino guarda esplicitamente al prototipo berniniano in S. Pietro, all’Alessandro VII concluso nel 1678 ma già noto dal 1672 col modello in terracotta, e anche Cavallini con il suo Giorgio Bolognetti, e con questo Carlo di Montecatini, ha dovuto necessariamente studiare sia il prototipo berniniano che l’impegnativa variante di Guidi.
D’altra parte l’ideazione del Montecatini ha presupposti completamente diversi da quelli dell’ Imperiali: la figura in Guidi è modellata con una espansa larghezza algardiana, il corpo, memore delle scenografie berniniane, è libero nello spazio; l’icona di Cavallini è ingabbiata invece in uno telaio di rigide ortogonali, le linee cadono a piombo all’interno del profilo fossilizzato dello sfondo piramidale. Il corpo di Lorenzo è scansionato in corpose ondate di materia ascendente, quello di Carlo è scisso irrazionalmente in una zona decontratta e svuotata, in basso, e in una zona alta di incerto controllo dell’icona.
La stupefacente complessità compositiva del gruppo Imperiali è quella che viene poi ulteriormente radicalizzata da Guidi nel monumento Del Corno (1680) in Gesù e Maria, dove Cavallini lavora ai monumenti Bolognetti attorno al 1686, ed è il segno di una elaborazione concettuale del tutto estranea alla modesta preparazione culturale di uno scultore istintivo e ipersensibile come Francesco.
Cavallini si era formato nell’ambiente rainaldiano, nel quale tutti gli elementi concorrono all’insieme spaziale come tasselli di un mosaico: dalle sculture ai marmi e ai dipinti di Giacinto Brandi, tutto implode in un incavo che si chiude su se stesso con una sorda forza centripeta che contraddice il dettato teorico della cultura berniniana che prevedeva invece una continua espansione centrifuga.
Guidi, al contrario, è maturato nel contesto del classicismo barocco, che arginava la poetica berniniana dell’espansione polimaterica solamente per esaltarne la potente disponibilità di energia repressa in un plateale, densissimo moto su luogo.
La figura di Carlo è interamente redatta con l’eclettica grammatica cavalliniana, della quale presenta una piena antologia di pregi e di limiti: dal ductus franto, coltivato a contatto con il nervoso e intelligente Filippo Carcani, memore a sua volta del geniale Melchiorre Cafà, che porta Cavallini alla sua opera più interessante, la serie di Santi del deambulatorio di S. Carlo al Corso (1679-1682), alla pittorica negligenza che lo scultore può avere spiato in Maglia e in Gramignoli, fino agli inserti occasionalmente naturalistici dedotti dalla perentoria icasticità di Ottoni e di Aprile.
Nel Carlo viene riutilizzata evidentemente l’immagine di Giorgio Bolognetti; sono cavalliniani lo sfasamento dell’immagine, collocata inadeguatamente in uno spazio inospitale, l’ingenua reduzione compositiva che si avvale della consueta piramide tronca, e soprattutto la suggestiva incertezza strutturale dell’architettura interna del corpo, impensabile se riferita a tecnici virtuosi come Guidi e Ottoni.
L’immagine di Giorgio è trascritta in una bella materia macerata, con un trattamento pittorico che tormenta i tessuti soprattutto nella parte inferiore, ma anche nella testa plasmata, permettendo allo scultore di coltivare la sua latente ipersensibilità. Il risultato è quello di un grande, attraente bozzetto in terracotta.
Nei difficili anni ’90 Francesco è indotto ad un impegnativo aggiornamento stilistico attestato dall’Angelo in S. Maria in Campitelli e forse dal Busto Sluse, e in questa situazione il Carlo di S. Maria in Aquiro sembra essere il segno di un maturo ripensamento delle sue opere più intense degli anni ’80, con un rifiuto quasi polemico della dominante retorica tardo barocca e con una memoria dolente delle sue più delicate smagliature formali.
La datazione del monumento, quella della morte del personaggio raffigurato (1699), non pone nessun problema serio per l’attribuzione a Cavallini: come è noto, i monumenti funebri secenteschi romani sono stati eseguiti a volte con grande anticipo, come è il caso della tomba Vigevano di Bernini, eretta nel 1618, 12 anni prima della morte del committente (1630), e della tomba di Carlo Maratti (+1715), da lui stesso progettata e seguita fin dal 1704. E tanto meno pone un problema il pagamento a Guidi, perchè dietro questi documenti d’archivio si celano spesso gli autori minori che hanno lavorato grazie ai maestri più affermati e autorevoli, e non si deve mai dimenticare che solamente la lettura stilistica è legittimata per la comprensione profonda di un’opera e per la sua corretta attribuzione.
1997-2011
Nota
Un altro lavoro inedito di Cavallini può essere il sensibile busto di prelato, in terracotta, conservato nei depositi del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, n. 196 del Catalogo delle sculture in terracotta, 2011.