Autori ed opere

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Autori e opere

Il mito deteriore del figliol prodigo porta all’esaltazione della presunta scoperta dell’autore isolato e sconosciuto che si presuppone sempre ingiustamente dimenticato. Ma l’autore è prima di tutto un segno vivo del contesto territoriale che lo giustifica, e solo la lettura critica interdisciplinare lo può collocare dignitosamente nella sua realtà; la sua figura emerge con chiarezza quando si cerca di decifrarne la cultura, ed è allora che i segni della creatività si rivelano come parte integrante del tessuto connettivo locale oppure come isolati e preziosi lacerti di una cultura in transito.
Questi artisti vengono compresi solo quando si legge prima di tutto il tessuto connettivo complessivo che li accoglie rinunciando all’esaltazione retorica dell’autore sconosciuto e in eterna attesa di essere scoperto.

Gli autori si spostano con le loro opere all’interno del territorio accettandone le contaminazioni oppure vivendo un penoso isolamento che pagano spesso con l’iniqua condanna che si riserva ad presunto spirito elitario. Maturano laddove c’è una forte e dominante cultura locale oppure un pensiero importante in grado di sostenerli anche come indiretto contesto di riferimento.

Qui ripenso solamente agli autori che ho avvertito profondamente come amici lontani e alle opere più intense e a volte inattese che ho conosciuto, tralasciando naturalmente le innumerevoli altre opere d’arte che ho studiato per tutta la vita e che ho conosciuto professionalmente lavorando come archivista dei beni culturali.
In tutto il mio libro sono disseminate le opere di ogni tipologia creativa che costituiscono il mio privato museo ideale, opere che quindi non ho bisogno di riproporre nuovamente in questa sezione.

Le opere più autentiche, quelle che individualmente si percepiscono, fosse anche arbitrariamente, come autentiche, costringono subito la macchina percettiva a una concentrazione estrema; si è costretti a fermarsi a lungo scavando con gli occhi, e inconsapevolmente con la memoria, perché si crea in tempi brevissimi un rapporto intimo di comprensione e di profonda riconoscenza con l’autore del quale si avverte con intensità la presenza.

Icasticità

2011. Barletta. E’ magnifico il grande bronzo tardo antico del V secolo ( ) che a Barletta ancora identificano con Eraclio, protagonista del Ritrovamento della vera croce, mentre probabilmente si tratta dell’effige di Teodosio I, eretta forse a Ravenna, nel 439, da Valentiniano III.
Una densità massiva del volume che determina il suo spazio rappreso a ridosso di un blocco ferrigno con l’energica implosione della forma peculiare dell’arte costantiniana.

2011. Castel del Monte (Andria). Straordinaria scoperta di uno spazio interno che, muovendosi all’interno, viene letteralmente deformato dal volume in torsione della massa muraria, uno spazio plastico che si avvita drammaticamente nello spazio provocando una sensazione inedita di spaesamento fisico.

Dissonanze

2013. S. Maria Antiqua. Ci torno dopo qualche anno trovando con sollievo un restauro corretto, assolutamente brandiano e magnificamente rispettoso.
L’insieme della Cappella di Teodoto è sempre affascinante, soprattutto nelle parti più neglette e sciatte (v Guglielmo Matthiae, Pittura romana del medioevo, secoli IV-X, con aggiornamento di Maria Andaloro, 1965-1987). Nel siriaco Codice di Rabula, fine sec. VI, Firenze, Laurenziana, c’è lo stesso Cristo vestito.
E’ sempre impressionante cogliere così intensamente in questo ciclo il passaggio dello stile plebeo alle forme più corsive del medioevo.

2010. Capua. Gli affreschi di s Angelo in Formis, XI sec, possono essere compresi solamente sostando a lungo in quel luogo. La loro energia compressa, nello scandaglio di una percezione prolungata, apre nel tessuto pittorico delle crepe di intollerabile dissonanza, soprattutto nei riquadri meno conosciuti e divulgati.

Sulmona. Duomo. Lo sconvolgente crocefisso del sec XIV viene definito ‘arte paesana abruzzese’ in una foto storica di PV, ma si tratta invece un’opera di eccezionale qualità inserita nel corpus della scultura pauperistica neomedioevale del Trecento francescano.
L’anatomia qui è intenzionalmente radicalizzata come pura forma poetica capace di trasmettere l’immediatezza di una struttura plastica che può denotare solamente se stessa assorbendo e cancellando la stessa descrizione naturalistica.

In Saper Vedere di Marangoni scoprii Jacopino dè Bavosi e la sua fossilizzata, struggente Pietà (1380 c) inserita nel polittico con la Presentazione al tempio della Pinacoteca di Bologna, un piccolo dipinto che poi ho rivisto tante volte nella sua sede.
La volontà di purezza plastica neoromanica porta Jacopino a spezzare in blocchi la massa essiccata lasciando in vista le profonde fratture materiche che delimitano le parti, e questa scomposizione in frammenti si estende dall’insieme della massa, schiacciata all’interno del perimetro, dove ogni minimo dettaglio è investito da un’ulteriore frantumazione in segmenti; il disegno di inasprisce poeticamente abbreviandosi nello spasmo della contrazione. Ideale accordo di contenuto e forma, direbbe il crociano Marangoni.
Penso alla durezza ossessiva di Jacopone, ma anche alle Petrose di Dante con le quali si sperimenta una inedita contrazione del segno:
E io ( ) porto nascosto il colpo de la petra / con la quale tu mi desti come a petra / che t’avesse annoiato lungo tempo / tal che m’andò al core ov’io son petra ( ) sì ch’io ardisco a far di questo freddo / la novità che per tua forma luce / che non fu mai pensata in alcun tempo.
Canzone dalle rime petrose (1296) (cfr. R. Spongano, Metrica italiana, 1974, pagg. 123-125). 

2017. Una grande mostra al  Museo di Roma, in Palazzo Braschi, è l’occasione per rivedere le incisioni più sconvolgenti di Piranesi, soprattutto una veduta incredibile (v Le forme dell’illustrazione) punto di arrivo irripetibile della sua disperante percezione del mondo deformato e logorato dal tempo.

Matericità

2017. Varese, Castelseprio. Finalmente vedo dal vivo gli affreschi del Maestro di Castelseprio (metà del IX secolo), un pittore ipersensibile che ha operato tra s Maria Antiqua e il Rotulo di Giosuè vaticano (v Opere da studiare).

2013. Mostra di Tiziano alle Scuderie del Quirinale. Più sconvolgente che mai il Martirio di s Lorenzo. Quando lo vidi la prima volta a Venezia, subito dopo il restauro, mi accorsi con emozione di quella materia corrosa e incenerita, volutamente erronea, con la quale T ha voluto esplicitamente prendere le distanze dalla sua stessa facilità illustrativa e dalla sua insidiosa disponibilità alla suggestione esteriore della luminosità espansa determinata dall’impianto timbrico.
E’ sicuramente uno dei dipinti più affascinanti che io conosca.

2017. Varese. S. Vittore. Nel duomo di Varese c’è una tela magnifica di Crespi il Cerano, una Messa di S. Gregorio, del 1614, interamente materiata da un pittoricismo estremo che rimuove  a forza ogni segno convenzionale di riconoscibilità a favore dell’affascinante percezione magmatica di un insieme visionario: equivalente ideale della musica dissonante di Gesualdo da Venosa.

In passato, durante i miei viaggi in treno, scesi a Rovigo, Accademia de’ Concordi, per vedere i due magnifici dipinti di Sebastiano Mazzoni (+1678), La morte di Cleopatra e Le figlie di Lot, e ogni tanto incontro questo pittore sensibilissimo riconoscendolo subito: una volta a PV, in una mostra d’Antiquariato, e più recentemente a Trieste in un museo locale.
La sua è una pittura fatta di cancellature e di addensamenti materici, sempre realizzata in uno stato di incontenibile felicità creativa e di immenso piacere del dipingere. 

2017. Firenze, Biennale dell’antiquariato di Palazzo Corsini. Un altro dipinto affascinante di Mazzoni, subito riconoscibile, con Lot e le figlie, che mi fa pensare al dipinto di Rovigo datato 1660 c. In questa versione di Palazzo Corsini le cancellature e la consapevole negligenza spingono ulteriormente la materia di questo pittore puro verso un grumo sordo di irragionevole, stupefacente lirismo.

C’è, nell’Ottocento italiano, un pittore, Ippolito Caffi, che è stato capace di elaborare una delicatissima poetica della percezione sensoriale tornando a studiare con umiltà l’opera di Francesco Guardi con un contagioso piacere del dipingere e del vedere.
In ogni sua opera Caffi varia lo spartito della sua sgomentante sensorialità, è un pittore allo stato puro che può assorbire e cancellare con naturalezza il contenuto figurativo nella struttura del dipinto lasciando in superficie solamente il telaio emozionante di una materia viva che passa dalla frammentazione più sottile del segno, come nei suoi notturni, ad una struggente visione dello scheletro denudato del mondo e alla più inquietante opacità.
Mi accorsi di Caffi, e cominciai ad amarlo, lavorando alla GNAM, dove potevo vedere, accanto ad altre sue opere, la visione di Roma (1830-1840 c), d’impronta fotografica e dominata dall’esempio di Corot, l’unico pittore che può aver giustificato una tale sconcertante riduzione materica dovuta all’abbassamento brusco dello schermo del visibile e alla sedimentazione quasi cancellata dei frammenti.
E con Caffi mi accorsi anche degli altri due delicati scrittori in versi dell’Ottocento italiano, Toma e Fontanesi. 

2017. Firenze, Galleria Pitti, sezione ottocentesca. Rivedo la dolente veduta di Nettuno di Cabianca (1872), con la sua ipnotica sfasatura di materie opache compresse di lato per un’acuta, irresistibile trascrizione in versi.

Stupore poetico

4.2017. Arezzo, Museo Archeologico Mecenate. Una straordinaria urna funeraria etrusca con una defunta dallo sguardo attonito avvolta nelle coperte: estrema riduzione poetica del volume che vanifica perfino le bellissime rivisitazioni etrusche di Martini. La delicatezza materica etrusca convive forzatamente con il gusto plebeo romano in questa struggente elegia del sogno ad occhi aperti della fine.

E’ sempre emozionante la Porta di s Zeno (XII sec) che ho visto tante volte in passato. I segmenti dei rilievi si adeguano alle singole forme descrittive senza perdere niente della loro straniante rigorosa omogeneità plastica, morfemi di un testo poetico che non vuole discostarsi neanche per un attimo dall’atmosfera di estrema, ipnotica fissità iconica che determina.

2017. Firenze. Il Tempietto Rucellai, magnificamente restaurato, è l’estrema pagina poetica di Alberti, dove le dimensioni plastiche sono sospese dalla suggestione quasi anamorfica di un volume paurosamente addensato e reso ancora più inquietante dal contrasto della delicata epidermide di segni grafici.

Violenza espressionista

2012. Otranto. Pavimento del 1165, magnifico nella parte di sinistra dominata dalle grandi forme dissonanti dovute forse a un secondo maestro meno artificioso di quello attivo nella navata centrale ma più libero di esagerare nella disarticolazione espressionistica delle forme.

In uno spazio poco frequentato dell’edificio che ospita la Scala Santa romana, il geniale Ferraù Fenzoni ha dipinto nel 1589 l’affresco straordinario con Mosè e il serpente di bronzo, un ricordo turbato della carmalità di Pontormo, dipinto mentre il suo collega Lilio, anche lui un eccentrico marchigiano chiamato a Roma da Sisto V, guardava a Rosso Fiorentino.
I riferimenti alla lunetta michelangiolesca della Sistina, nel Mosé, sono inaspriti da una epilettica energia disgregante che disinnesca i corpi in un perturbante rilievo plastico, un gesto di ammirazione e di profonda immedesimazione rivolto da Fenzoni a Pontormo e alla sua trascrizione in forme poetiche del dolore del corpo.

In S Trinità dei Pellegrini è visibile l’incredibile S. Matteo (1601) del fiammingo Jacob Cobaert, respinto dal committente della cappella Contarelli in S Luigi dei Francesi e commentato da Baglione (1642). Cobaert, che ‘vivea isolato come una bestia’ (Baglione), si accanisce freneticamente per anni sul blocco di marmo del Matteo scavando con rabbia quelle voragini scabrose e dissonanti di inedita intensità plastica, con una energia visionaria della materia trasfigurata che può essere giustificata solamente dal fertile contesto internazionale del manierismo europeo, lo spazio abitato da sperimentatori come El Greco e come Abraham Bloemaert, autore dell’impressionante Giuditta del 1593 di Vienna, ma anche dalla musica più inquietante e ardua di quegli anni, quella di Gesualdo da Venosa, materiata dalla stessa angoscia perturbante che tormentava Cobaert.

Musica reservata

2013. Bergamo. I dipinti dell’Accademia Carrara (in restauro) sono adeguatamente esposti nel palazzo comunale. Il dipinto più interessante è la Crocefissione (1456) di Vincenzo Foppa, con la sua materia oleosa e macerata contratta in uno spazio verticale che esaspera la percezione ossessiva di un tessuto monocromo di amara intensità tonale.

2011. Mantova. Nel Museo Francesco Gonzaga trovo inaspettata la bella sinopia appena abbozzata dell’affresco giovanile di Correggio con La deposizione che avevo notato in Correggio di Silla Zamboni, 1963. C era forse allievo diciassettenne del vecchio Mantegna (+1506); l’affresco, abbozzato con meravigliosa sciatteria, sarebbe degli anni precedenti il 1514 c.

In s Andrea della Valle la S Marta (1629) di Francesco Mochi costituisce la più appassionante risposta poetica alla prosa barocca berniniana. Mochi scrive in versi un corpo fasciato da un incredibile esoscheletro fluido e lo inserisce a forza nei confini anossici di una losanga invisibile che lo comprime. In questa intercapedine di spazio ristretto che si prolunga verso di noi, la massa plastica è costretta a ripiegarsi paurosamente in se stessa, come avviene nella Cecilia di Stefano Maderno plasmata quasi trent’anni prima, un’opera paradigmatica che Mochi non può aver dimenticato perché con la sua Marta torna esplicitamente a sperimentare la stessa possibilità di una cultura del perturbante che contraddice e frena l’emergente, infestante cultura barocca della retorica liberazione materica.
La Marta esiste nella dimensione laica di una riflessione destinata al solo individuo, nella volontaria reclusione di una cripta inabitabile dove perfino le fantasie più morbose, le teste del mostro e del giovane, sono premute contro il corpo trasognato che le ignora.
Se le opere barocche di Bernini sciolgono gli argini dei limiti materici con il loro espanso e arioso polimaterismo, per confinare ulteriormente la materia nello spazio retorico del numinoso, la Marta di Mochi chiude la stessa materia in un confine insuperabile per attestare una lucida riflessione poetica sulla solitudine laica dell’individuo.