Stereotipi

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Stereotipi

L’allarme lanciato da Flaubert, con il suo Bouvard e Pécuchet (1880), sulla marea in arrivo della stupidità, è rimasto inascoltato, come sono rimasti inascoltati gli altri espliciti avvertimenti che la letteratura dell’Ottocento ci ha lasciato in eredità (cfr. Vitalità del pensiero poetante)
2014

In queste pagine che seguono gli autori che alimentano un flaubertiano sciocchezzaio di stereotipi sono citati con le sole iniziali, oppure non sono nominati affatto, perché ciò che interessa in questa sede è solamente sottolineare l’assurdità e l’ambiguità insidiosa degli stereotipi stessi che vengono ripetuti acriticamente anche da studiosi seri e colti.

Mistificazione e demagogia
Se nel Novecento il cattivo gusto veniva attribuito alle forme della goffa ma inoffensiva imitazione che la cultura subalterna è sempre stata costretta a fornire dei modelli imposti dalla cultura egemone, oggi l’ottusità delle idiozie più arroganti e degli stereotipi più meschini può essere individuata invece nelle opere e nelle dichiarazioni grottesche degli artisti imposti dalla cultura dominante e nelle giustificazioni demagogiche apparentemente insensate che vengono offerte loro senza pudore dal collaborazionismo dalla critica accademica.

La cultura egemone del Novecento ha creato un telaio di mistificazioni talmente sofisticato da mettere sotto scacco anche i pensatori più intelligenti, e in questo contesto artificioso l’illusione che l’arte tardo concettuale sia un gioco effimero e privo di logica, oppure, al contrario, una vera e propria filosofia, costituisce un doppio abbaglio che viene consapevolmente coltivato per accecare e dividere.
E’ questo lo stereotipo più grave.

Mi auguro di aver dimostrato chiaramente con Principi dell’esilio che tutto quanto sembra essere frutto, nella creatività novecentesca, e ancora in questi primi decenni del XXI secolo, di irrisione fine a se stessa e di arbitrarietà venata di ridicolo, non è altro che il risultato ben calibrato della macchina del manierismo che viene direzionata consapevolmente allo scopo di creare una autoritaria e prepotente accademia della contemporaneità, una forza coercitiva con la quale sia possibile imporre un contesto di valori apparentemente contraddittori e mutuati implicitamente dal rituale religioso più intimidatorio, quello che si è sempre avvalso dello shok dell’imprevisto per sgomentare l’immaginazione e manipolarne le reazioni, meglio se di scetticismo e di sconcerto, perché è proprio la condizione istintiva e irrazionale di rifiuto che mette l’individuo indifeso e denudato di fronte al numinoso che nasconde sempre il suo disegno imperscrutabile.

In questo contesto sono vigenti due velenosi stereotipi insidiosamente sovrapposti:
Il primo alimenta la suggestione paralizzante di un ambiente creativo, quello tardo concettuale, che sembra imporre le sue opere (apparentemente) arbitrarie e irritanti con la forza della cultura dominante e del mercato, ignorando (fingendo di ignorare) lo sconcerto del pubblico che di fronte ad esse può solamente subirne la teatrale messa in scena, oscillando tra un isterico rifiuto e la miope accettazione dell’aspetto più superficiale di questa epidermica estetica dello spaesamento.
D’altra parte, la vulgata tardo concettuale si è sviluppata assieme al simbolismo arcaico già presente nella Pubblicità, ed è naturale quindi che adesso le sue forme vengano declinate e adottate comunemente per le occasioni più diverse: ci sono incredibili sedie vuote che alludono simbolicamente alla violenza e ai crimini, drappi bianchi o rossi che dovrebbero denunciare i soprusi, docce fredde per combattere (?) le malattie degenerative, c’è la prassi paradossale dello sfilare nudi per opporsi (?) ad uno qualsiasi dei tanti mali del mondo, mentre nessuno sembra essere consapevole dell’imbarazzante simbolismo arcaico presente così chiaramente nelle stazioni di questa liturgia mascherata ipocritamente (a volte vergognosamente) da sdegno etico.
Può darsi che l’apparente follia di questo proliferare inarrestabile di idiozie simboliche, così efficaci nel generare per contrasto la più cinica indifferenza per ciò che si intende retoricamente denunciare, sia il segno di una vasta intercapedine storica che ha separato (che ha saldato) nel corso del Novecento il tempo dell’assuefazione al culto religioso dal tempo della grottesca rifondazione del numinoso da parte di una accademia del negativo che si è concretizzata presumibilmente come malevola elaborazione del lutto di quanto è accaduto durante le due sconvolgenti guerre novecentesche.
E ora, in questo inizio del XXI secolo, quell’assuefazione ipnotica indotta dal culto religioso torna a imporsi ovunque con impressionante potenza, e forse sarà proprio questo abuso del simbolismo a logorare progressivamente la messa in scena del triste manieristico tardo concettuale.
I segni di questo cambio possibile di paradigma, d’altronde, sono già sotto gli occhi di tutti: il culto delle rovine e dei disastri sta scalzando progressivamente le installazioni concettuali, la pittura figurativa torna a rivivere vanificando la teoria decrepita che la voleva estinta, e le forme di rinnovata arte popolare, come la Street art, si fanno strada con decisione.

Il secondo stereotipo è la credenza fossilizzata che sia necessario opporsi teatralmente al simulacro vuoto del potere, nonostante questo potere sia disseminato nella forma irrappresentabile e diffusa della cultura egemone, quella stessa che fornisce gli strumenti (le mostre, i libri, le case editrici, il denaro) per la messa in scena della demagogia più vergognosa.
Quasi nessuno di coloro che ostentano l’indignazione in forme teatrali e demagogiche si arrischia davvero a pestare i piedi al potere, al mercato, a chi crea l’opinione pubblica.
Si specchiano ipnoticamente due sguardi, quello di chi è eternamente ossessionato dal potere, immaginato sempre altrove, come è appunto il numinoso, e quello della cultura egemone che può esistere solamente praticando con ostinata continuità il dominio e il controllo sull’individuo.
Si distoglie lo sguardo da questa doppia Medusa quando si vive la creatività come pura possibilità e come indagine, coltivando la propria individualità con la consapevolezza di poter essere parte di una poco visibile collettività libera dagli stereotipi.

A questi due stereotipi dominanti si aggiunge il più triste corporativismo, che reclama con patetica arroganza e stupidità una stessa, impossibile dignità per tutto ciò che viene prodotto dalla pura volontà speculativa del mercato e che dovrebbe essere posto, in questa ottica deprimente, accanto a quanto viene elaborato dalla (rarissima) generosa sperimentazione individuale, che è sempre l’unica forma di pensiero in grado di ignorare e contraddire le norme imposte dal mercato con illegittima autorità.
Il mito della cultura che sarebbe alta o bassa è il segno più ridicolo della mistificazione di questo spirito corporativistico, e tutte le sciocchezze dettate dalla volontà di azzerare la presunta divisione tra alto e basso nascono da un equivoco, perché la qualità delle opere d’arte, letterarie, musicali, filosofiche, viene sacralizzata senza motivo assieme al culto deteriore dell’autore stesso, mentre le opere della cultura rivolta alla fruizione popolare sono considerate ingiustamente declassificate e degne quindi di vedere riconosciuto il loro presunto (e quasi sempre insignificante) valore effettivo.

Il corporativismo reclama senza motivo il riconoscimento di opera d’arte per le forme creative che protegge perché ignora deliberatamente il significato stesso dell’opera d’arte.
Tutto ciò che viene realizzato nel campo dell’esteticità diffusa è arte, e non potrebbe essere diversamente, ma non tutto ciò che tecnicamente è arte possiede necessariamente un valore.
Definire arte un qualsiasi oggetto prodotto dall’attività creativa, un mobile, un libro, uno spartito, non porta necessariamente a conferire a questo oggetto una qualità e un valore culturale, indica solamente la sua specificità.
Un brutto dipinto è arte, ovviamente, ma non vale niente, non interessa a nessuno e non plasma la cultura collettiva né quella individuale anche se gli viene attribuito un alto valore economico dal mercato e se viene esaltato da una costosa monografia.
L’opera della creatività, l’opera d’arte, è materiata da una altissima quantità di materia spuria, dal rame del contenutismo, della mera, funzionalità, della ripetizione modulare di forme già esistenti, della necessità didascalica, e l’oro che contiene, la minima e rarissima componente di autenticità e di specificità che l’arricchisce, può essere estremamente esiguo.
Una canzone, un fumetto, una serie televisiva, sono indubbiamente forme della creatività, e non si pone neanche il problema se siano o meno opere d’arte, lo sono, quasi sempre però sono opere d’arte quasi totalmente prive del minimo valore culturale, perché vengono consapevolmente realizzate in un contesto che prevede fin dall’inizio un assoluto asservimento alle regole del mercato, un asservimento che comporta un accrescimento soffocante del rame rispetto all’oro.
Sono forme d’arte che non valgono niente, come lo sono anche chilometri di affreschi barocchi e migliaia di stanchi dipinti cerimoniali anche quelle sono opere d’arte che non valgono niente. Perfino certe opere dipinte da Caravaggio, Raffaello e Leonardo sono opere d’arte che non valgono quasi niente perché soffocate dalla mancata specificità estetica del troppo rame che contengono in forma di imitazione, contenutismo, ripetizione.
Può capitare, anche se molto raramente, che anche all’interno della stretta committenza commerciale ci siano frammenti di poesia autentica: una rara pagina di Chester Gould, come intensa e poetica realizzazione grafica, può essere (è) più autentica di tantissimi dipinti stancamente ripetitivi e banali di Ruiz Picasso.
Oltretutto quasi nessuno degli involontari assistiti dalla prepotente corporazione del mercato ha mai reclamato il diritto di essere considerato un artista.

E’ questo che intendeva Croce quando parlava saggiamente di poesia e non poesia.

Oggi è possibile e doveroso ridimensionare drasticamente gli artisti più celebrati, che mostrano nelle loro opere una dose a volte davvero ingombrante di zavorra contenutistica accanto ad una rarefatta qualità specificatamente poetica, come è possibile e dignitoso cercare e trovare anche nelle opere più condizionante dal mercato e dalla stessa funzionalità pratica un valore qualitativo che le riscatti dal peso opprimente di una cultura prevalentemente quantitativa.
Come ho scritto ovunque, qui nel QI e in Principi, sono innumerevoli le forme isolate di arte dotata di grande autenticità e di grande qualità prodotte senza intenzionalità dalla scienza, dalla fotografia occasionale, dal racconto per immagini, dal Cinema privo di esplicita volontà estetica, dalla musica popolare più vincolata alla stretta esigenza cerimoniale, mentre sono quasi prive di qualità e di autenticità innumerevoli opere d’arte realizzate in ogni epoca dall’incattivimento corporativo del manierismo più ripetitivo e ottuso.

Non c’è nessuna cultura alta o bassa, quindi, ci sono opere esteticamente autentiche e opere esteticamente inautentiche.
La massa sconfinata di film demenziali, di fumetti sclerotizzati dalla ripetizione e dalla più assoluta mancanza di sincerità, di canzoni demenziali, di grotteschi spettacoli televisivi, di tanta pseudo arte popolare, è arte quindi, dal punto di vista strettamente tecnico, ma non per questo vale qualcosa. Non c’è nessun motivo al mondo perché un sofferto romanzo di Dostoevskji debba essere posto accanto ai prodotti più meschini e impoveriti del mercato, e non si tratta affatto di una cultura alta da ritenersi superiore ad una cultura bassa, si tratta semplicemente (mi ripeto) di domande diverse che richiedono risposte diverse.

2016. Il caso del premio Nobel a Dylan è rivelatore di questo rinnovato potere della corporazione. Si mostra un ridicolo entusiasmo per il presunto riconoscimento della tediosa musica pseudo popolare di D senza chiedersi che valore culturale possa avere concretamente lo stesso Nobel, che é solamente un premio (?) deciso da un ristretto gruppo di sconosciuti studiosi residenti in Svezia.

2010. In una recensione in rete, a proposito della ormai inevitabile e inverosimile democratizzazione (?) della Filosofia, si legge:
Il tentativo deliberato è quello di portare fuori dalle aule accademiche la filosofia, sempre più considerata come un sapere specialistico ed esclusivamente accademico, nonché alle volte totalmente astratto e contemplativo, e metterla a contatto non solo con un pubblico più ampio, un pubblico di massa, ma applicarla a quella serie molto complessa e varia di fenomeni che appartengono alla cultura di massa. Così gli autori affrontano dal punto di vista del sapere filosofico il Grande fratello e la musica pop, le serie televisive e i film, i romanzi di genere e i cartoni animati giapponesi. Un tentativo di democratizzazione del sapere filosofico con lo scopo di migliorare la qualità stessa della democrazia, se, come sembra trasparire dal libro, è la circolazione o meno di idee e pensiero critico che oggi può fare la differenza tra buona e cattiva democrazia.

2012. Un altro esempio mostra la comicità irresistibile del linguaggio di chi pretende goffamente di scrivere di Filosofia in rete:
Nel presente studio si cercheranno di porre in rilievo le dinamiche più strettamente teoretiche del pensiero di Theodor W. Adorno ( ) nel tentativo di fornire una possibilità emancipativa attraverso il cammino dialettico-negativo del nostro autore come approccio di decifrazione dell’odierno circostante’.