Arte dei non professionisti
Non professionisti. Ho adottato questa definizione solamente per segnare la distanza che c’è tra l’arcipelago della creatività popolare contemporanea e il mondo della cultura dominante, ma gli autori che operano in questo contesto si considerano legittimamente dei veri professionisti, dispongono di una loro seppur goffa critica d’arte ufficiale che li sostiene, hanno i loro innumerevoli spazi espositivi e teorizzano volentieri, con arrogante ingenuità, la loro estetica.
Ci sono opere, in questo territorio sconfinato e parzialmente invisibile, che possiedono però una sincerità e una loro autenticità che non è possibile trovare invece in un numero incalcolabile di opere d’arte che sono accettate dalla cultura egemone e accreditate dalla critica accademica.
In questo nudo (foto) la pesante e grumosa matericità a rilievo si coniuga con stridore alla figura plasmata con disordinata e sgrammaticata passionalità, eppure in questa incongruenza c’è il segno genuino di una volontà di creatività che comunque desta simpatia e rispetto.
In realtà l’arcipelago popolare è caratterizzato da un’estesa terra di confine che condivide con l’arte della cultura egemone e con il professionismo accreditato una zona neutra dove è possibile assistere all’imbarazzante e ininterrotto scambio tra i due territori.
In quasi tutti gli artisti novecenteschi che hanno scelto di operare con gli oggetti o di entrare nell’ambito dell’arte concettuale rinunciando alla pittura figurativa con l’ipocrita presunzione di superare la presenza, per loro ossessiva, della tradizione del passato, c’è quasi sempre, almeno agli inizi, l’esperienza imbarazzante di una orribile pittura incolta che è del tutto affine all’arte popolare contemporanea dei non professionisti, vedi Duchamp, Kandiskji, Ciurlonis, Malevic, e Manzoni.
Balla, ritratto della figlia, 1925
Queste opere imbarazzanti della prima maniera non sono neanche archiviate e dimenticate, come ha fatto Picasso con il realismo ottocentesco della sua adolescenza, ma vengono pubblicate nei cataloghi e giustificate, spesso con argomenti involontariamente comici come avviene per le insignificanti illustrazioni che Balla dipinse prima durante e dopo la sua brutta pittura futurista,
Malevic, Autoritratto, 1933
e come avviene per i dipinti davvero ridicoli di Malevic, realizzati dopo la sua retorica messa al bando della figurazione con il Suprematismo (cfr. Pensiero poetante).
Ma ci sono tanti altri esempi di questa ambiguità: un numero enorme di dipinti del postimpressionismo non è degno neanche di figurare in una mostra rionale, e oggi nessuno osa commentare la ridicola accozzaglia di oggetti grotteschi che Warhol aveva segretamente stivato nella sua casa, segno dell’irresistibile forza d’attrazione che la più triste banalità esercita sugli artisti culturalmente più fragili.
Dopo aver letto Il kitsch di Gillo Dorfles reagii all’arroganza di quel brutto libro cominciando a guardare diversamente gli oggetti del mondo popolare contemporaneo; fotografavo i dipinti su strada e raccoglievo con interesse e curiosità, con rispetto, i voluminosi cataloghi dei pittori e scultori dell’immenso arcipelago popolare.
E’ fin troppo facile individuare i pittori che hanno offerto più frequentemente alla cultura popolare dei modelli facilmente riproponibili: la Madonna del dalmata Roberto Ferruzzi, dedotta evidentemente da un modello reniano, è stata sempre riprodotta in ogni tecnica. Era il ritratto di una modella undicenne, il dipinto fu premiato alla biennale di Venezia del 1897 e diffuso dagli Alinari.
Il pittore più involontariamente vicino alla pittura popolare è stato sicuramente Alberto Martini, autodidatta (Oderzo 1876, Milano 1954).
Nella sua opera (dal 1895) si trovano tutti gli ingenui elementi grammaticali che permetteranno poi alla cultura popolare novecentesca di adottare con superficialità una forma di vuoto e insensato Simbolismo, e lo spiritualismo deteriore di Martini è anche uno dei modelli per la proliferazione infestante della più mediocre e improvvisata poesia popolare.
Sono modelli irresistibili per la pittura popolare novecentesca certe vedute di casolari olandesi del Seicento, le sciatte vedute cittadine di Utrillo, la brutta scultura di Laurens, le opere più incerte di De Stael, le piatte icone di Brauner, le brutte vetrate di Chagall, i lavori peggiori di Rouault, le opere più tarde e maldestre di Virgilio Guidi.
Ci sono poi tre autori, tra i tanti, che dimostrano come possa essere incerto il confine tra l’ambiguità della cultura egemone e la fragilità concettuale di quella popolare novecentesca: Man Ray, Malevic e Arman.
In Armonici di memoria ho raccolto i casi più evidenti dello sconfinamento dell’arte ufficiale in altri contesti della creatività, frutto degli inconsapevoli riverberi di memoria che dragano (inavvertitamente ?) un territorio trascurato dalla cultura egemone e ritenuto esteticamente irrilevante. Tra i tanti esempi: Fontana e la cultura giainista; Burri e il saio francescano, accanto ai segni devozionali delle tracce soprannaturali; Duchamp e gli ex voto materici; Manzoni e i panini di San Nicola; De Chirico e la ceramica cinquecentesca; Klein e il santo in volo; Hirst e la secentesca Camera delle meraviglie con lo squalo mummificato e appeso.
Il capitolo si chiude con un rovesciamento: Donald Duk come memoria inconsapevole delle tragiche, sconvolgenti maschere iniziatiche dei Baining.
C’é un caso molto interessante di volontaria, polemica identificazione con la maniera dell’arcipelago nell’opera di Picabia degli anni ’40.
Il pittore era stato sedotto sicuramente dal fragile cinesarge tardo ottocentesco della cultura di Jarry e di Roussel, che prescriveva un risibile e inoffensivo impegno nello scandalizzare il borghese mostrando a sorpresa le cose più banali, e d’altra parte questo geniale inventore di forme è stato colui che ha esplorato come nessun altro la dimensione della creatività più modesta arrivando a opere che mimano i giochi artigianali di chi è recluso ( ) (v E. Baj, Picabia, Opere 1898-1951,1986, bellissimo catalogo di una mostra milanese).
Negli anni ’80 un autore discontinuo come Julian Schnabel ha creduto di rinnovare la maniera di Picabia ripercorrendone stancamente l’esempio.
Prima di Picabia, è Duchamp che ha voluto rendere omaggio alla presunta banalità dell’arcipelago, dopo aver abbandonato la sua orribile pittura da dilettante ( ), adottando nel 1911 un’illustrazione popolare che trova già pronta, Farmacia.
Marie Laurencin, dell’ambiente di Apollinaire e Picabia, ha dipinto opere che non differiscono da quelle dell’arcipelago.
E lo stesso vale per tante opere di Giovanni Omiccioli ( ), di Tamburi e di Rosai, che una disattenta lettura superficiale potrebbe interpretare come dipinti di pittori occasionali.
Libri
1968. Il libro di Gillo Dorfles e AA.VV. Il kitsch. Antologia del cattivo gusto, fu per me la rivelazione dell’incomprensione profonda che la cultura egemone oppone all’esteticità diffusa, una colpevole cecità nei confronti del debito contratto dall’arte novecentesca con i tristi tropici della cultura popolare e un’illecita giustificazione della colonizzazione della cultura dominante attuata prima attraverso la Pop Art e poi con il museo degli orrori della pseudo sperimentazione più demagogica e retorica degli anni ’60-’70 (v Armonici di memoria).
E i patetici dipinti di Dorfles costituiscono paradossalmente un esempio perfetto di quel K che lui credeva di trovare nell’arcipelago.
1978. A cura di L. Inga-Pin, Performances. Un patetico inventario delle più invecchiate e tediose performances, tutte sconfinanti nella cultura dell’arcipelago, in un contesto così fanaticamente miope da rendere ridicola anche la frase di Adorno che precede il testo: ‘le sole opere che oggi contano sono quelle che non sono più opere’, uno stereotipo insensato che è stato adottato acriticamente da quasi tutta la critica dell’arte contemporanea.
1981. Arte, ed. G. Mondadori. Il caso rivelatore di una rivista periodica che ibrida sistematicamente la cultura dominante con la cultura popolare dell’arcipelago.
1990. AA. VV. Fluxus SPQR. Catalogo della mostra, Roma. A parte pochissime opere isolate, tutto mostra in Fluxus la pochezza di un movimento destinato a coltivare una penosa e scolastica ripresa manieristica del tardo ottocento anarchico e del Dadaismo più stanco.
1998. L. De Domizio Durini, Il cappello di feltro di Joseph Beuys. Il tono sacrale del libro a lui dedicato dall’autrice, una sincera ammiratrice e generosa sostenitrice di Beuys, è davvero imbarazzante e spiacevole per chi ammira in Beuys l’artista più intenso e più autentico del Novecento, un autore che purtroppo ha rilasciato però delle ingenue dichiarazioni pubbliche che non hanno niente a che vedere con i risultati della sua creatività e che si prestano fin troppo facilmente alle più sconcertanti interpretazioni in chiave iniziatica.
1998. A cura di E. Crispolti e R. Siligato, Lucio Fontana. Catalogo della mostra, Roma, Pal. delle Esposizioni.
1998. G. Marziani, N.Q.C. Arte italiana e tecnologie: il Nuovo Quadro Contemporaneo. Il contesto patetico delle insignificanti elaborazioni digitali (2016).
2000. A cura di S. Solimano, Claudio Costa. L’ordine rovesciato delle cose. Catalogo della mostra, Genova, Museo d’arte contemporanea. L’opera di C è emblematica dei rapporti tra cultura egemone e cultura subalterna. Nonostante C raccolga tutti gli stereotipi della creatività dell’improvvisazione più incolta, passionale e disordinata, priva di un ordine grammaticale, l’autore è stato inserito forzatamente nella scia di Beuys (v Lara-Vinca Masini, L’Arte del Novecento, vol. VI, 1989, ediz. 2003. Nel capitolo dedicato ai seguaci di Beuys figura, accanto a Costa, altrettanto in congruamente, Fernando Melani.
2004. Nikolai Maslov, Siberia (it.2007) (cfr. Morfologia).
2009. A cura di Renato Barilli, Il Nouveau Rèalisme dal 1970 ad oggi. Omaggio a Pierre Restany.
Vasi comunicanti. In Esteticità ho registrato il caso incredibile degli affreschi di Viviani (sec. XVII) in Palazzo Barberini e quello della litografia di Oskar Kokoschka, Aiutate i bambini baschi, del 1937.
In Morfologia c’è l’esempio rivelatore del Tarzan di Maxon, che mostra chiaramente lo snodo tra il disegno spontaneo dei primi anni ’20 e il successivo disegno professionale dei cartoonist.
I disegni erotici spontanei di non professionisti, che hanno offerto a suo tempo una versione erotica dei fumetti, sono indubbiamente una forma di creatività popolare spontanea che ha un passato remoto nelle forme grafiche destinate all’irrisione.