Diario di lavoro
Bonnard, disegno
Queste pagine sono il frutto della selezione di un più vasto Diario che registra sistematicamente il mio lavoro critico.
2010
Gennaio 2010. Inizio questo diario di lavoro dopo trent’anni trascorsi nei Beni Culturali, con l’apertura a tempo pieno del cantiere di Principi dell’esilio e del Quaderno interdisciplinare che ho avviato sistematicamente dal 2001, contenitori di idee e ipotesi critiche che coltivo dalla fine degli anni ’60.
Dal 2001 al 2009 i testi già pronti di P, più altri saggi brevi, sono stati leggibili liberamente in rete in un website che poi ho chiuso definitivamente. In tutti questi anni nessuno si è interessato del mio lavoro, a parte una studentessa di Napoli che mi scrisse molto simpaticamente di aver preparato per anni i suoi esami studiando le mie pagine; un silenzio che conferma la radicale estraneità del mio lavoro critico nei confronti della cultura egemone e anche la legittima perplessità che può generare la mia figura di ricercatore inclassificabile dal punto di vista accademico.
Negli anni passati ci sono state delle letture occasionali di brani scelti del libro da parte di giovani amici che poi ho perso di vista. Ho avuto l’occasione di illustrare spesso argomenti del mio libro durante le tante conferenze che ho tenuto per circa trent’anni nell’ambito dell’associazione Amici della Biblioteca comunale di Borbona.
Quello che ho bisogno di capire adesso è se il libro è necessario, se risponde a una domanda reale.
Il nucleo concettuale del libro è nell’identificazione dei principi dell’esilio, che non sono solamente i singoli autori, ma anche le singole opere delle quali l’autore è il medium spesso quasi inconsapevole, perché l’opera attinge autenticità da un confluire inedito di pensieri altrimenti dispersi nelle falde sotterranee della creatività.
P non vuole essere una discussione di tesi contrapposte in polemiche sterili, ma semplicemente il risultato, offerto nella sua radicale verificabilità, di una lunga indagine empirica e di un diverso comportamento critico. Un’alternativa, non un conflitto, rispetto alla cultura dell’ufficialità accademica.
Voglio che P offra serenamente e liberamente una diversa opportunità; non cerco lo scambio dialettico con la cultura egemone, come non lo hanno mai cercato i miei dignitosi principi dell’esilio.
Per il suo stesso argomento, che riguarda l’arte meno visibile, i poeti più oscuri, la musica meno ascoltata, il libro stesso è destinato a essere un principe dell’esilio: le opere illustrate nel libro sono poco riprodotte e pochissimo conosciute anche dagli specialisti e lo scopo del libro è anche mostrare questo arcipelago di realtà sfuggenti.
E’ un lavoro destinato a seguire lo stesso destino dei principi dell’esilio che lo abitano.
Con P mi illudo di rimuovere gli stereotipi che impediscono di riflettere sulla creatività, con una libertà e con dei risultati che mi auguro possano risultare almeno in parte inediti. Spero di poter mostrare come un artista possa essere autentico anche in una sola opera, condizionata da circostanze particolari, e sostanzialmente inautentico nel resto della sua produzione. E mostrare come la novità dell’arte contemporanea, trasformata troppo spesso in una tetra mitologia dalla critica accademica e scolastica, possa essere serenamente ridimensionata dal fenomeno degli armonici di memoria che affiorano dai territori limitrofi che la cultura egemone ha duramente e irrazionalmente segregato nella periferia della cultura.
Mi auguro che questo libro possa essere un prezioso contenitore di idee inedite, anche se è possibile e inevitabile che tra le tante cose proposte ci sia qualcosa di già detto e scritto anche da altri in qualche parte del mondo.
Vasi comunicanti
Non ci sono rimandi espliciti tra i capitoli, ma ognuno di essi spiega qualcosa che è stato già detto prima e che sarà ripreso subito dopo. I temi di ogni paragrafo tornano ciclicamente altrove, ogni argomento viene ripreso continuamente e sistematicamente approfondito.
La leggibilità
Ogni volta che mi imbatto in una difficoltà autentica, e non mi riferisco all’artificioso linguaggio tecnico accademico, avverto un’emozione profonda, so che sto per entrare in un nuovo spazio, che sarà mio, e lo capisco dalla difficoltà di quei rami che ostacolano l’ingresso nel sottobosco più intricato.
P è destinato esplicitamente a chi si occupa di arte, non ha uno scopo divulgativo, perché è proprio la divulgazione che ha creato una deteriore familiarità con il fenomeno della creatività.
Prevedo comunque di risolvere il problema di una maggiore leggibilità creando a lato dell’edizione cartacea un’edizione gratuita in rete (nello spirito della open source) che permetta al lettore di trovare subito le immagini, i testi, i video, i file musicali, i film citati nel testo.
Mi rendo conto che nel mio testo può essere difficile, per chi non conosce tutta la densa materia trattata, discernere ciò che viene detto per la prima volta da ciò che è invece una nozione comune che viene utilizzata a scopo documentario.
Solamente nel capitolo su Arte e Filosofia introduco esplicitamente una bibliografia ragionata, e quindi uno scambio di opinioni con altri autori, ma questo non impedirà mai a chi legge di avere dubbi su tutto il resto; d’altra parte non dichiaro mai apertamente che sto esprimendo delle opinioni originali e inedite.
Non devo dimenticare mai che la materia di P è già il frutto di una drastica selezione e che difficilmente avrò mai un lettore non professionista in grado di cogliere tutte le sfumature del testo.
Nell’edizione cartacea tutte le foto non ci saranno mai, ovviamente, e non devo sottovalutare il fatto che anche nella versione digitale sarà comunque laborioso trovare in rete tutte le innumerevoli foto citate nel testo. Chi in futuro adotterà P dovrà farlo davvero con una grande volontà di scoprirne tutti gli angoli più remoti.
Ridimensionare
In P ridimensiono gli autori troppo celebrati dell’arte contemporanea, e questo vale anche per gli autori che ho sempre amato, come Cage, Beuys, Duchamp. Ridimensionare i valori trasformati in retorica accademica, quindi, e sostenere i valori della sensibilità che l’accademia non può sequestrare e monumentalizzare.
Il futuro
Non ho mai accettato il vittimismo di chi si sente un incompreso eroe del pensiero, e tanto meno ho condiviso l’ossessione ideologica di chi vede nella cultura dominate un inflessibile persecutore. Ciò nonostante ammetto l’esistenza di un pericolo concreto che grava sul futuro di P.
E’ facile prevedere l’utilizzo da parte della cultura ufficiale dell’arma letale del silenzio e dell’indifferenza, ma P è destinato comunque ad incorrere anche in una feroce condanna da Inquisizione perché è un libro che presuppone una radicale negazione del mercato dell’arte e della stessa proprietà dell’autore sulla sua opera, teorizzando esplicitamente l’illegittimità di una critica che costruisce arbitrariamente la carriera del singolo artista senza distinguere tra opere di qualità e opere di accademia, tra qualità e quantità.
Seguirò sicuramente il destino di Ragghianti, ne sono consapevole e orgoglioso. Non mi sarà perdonata la critica radicale della creatività, e questa è una cosa che ho sempre saputo. D’altra parte ho provato fin dall’inizio della mia vita l’amarezza del rifiuto dei miei testi da parte degli artisti serenamente ridimensionati, e ho sempre saputo che la solitudine è un prezzo da pagare.
Sono felice, adesso, a sessant’anni, di essere sempre stato un Principe dell’esilio. Thoreau mi ha educato presto, nell’adolescenza, a tollerare l’incomprensione e l’indifferenza che il proprio lavoro può alimentare negli altri, e mi ha educato a essere felice e appagato di una solitudine piena di affascinato stupore per tutto quello che mi permette di trovare e osservare.
La figura remota di Eraclito, poi, è stata fin troppo confortante per me. Uno straordinario modello umano, per chi sceglie un percorso impopolare.
La dolcezza dei poeti più appartati mi ha sempre dato un grande conforto: Rimbaud, il Lorca di Poeta a NY, Montale, Rosselli. Soprattutto il Joyce di Ulisse, con il suo pieno identificarsi con l’opera, mi ha indicato un luogo emozionante in cui vivere.
L’opera di Cage e di Beuys mi ha dimostrato che anche quando è in atto la cauterizzazione più crudele da parte della cultura egemone il nucleo intimo di un autore può restare autentico, protetto in profondità.
E intanto il cinismo con il quale oggi (nel 2010) si cerca di isolare e denigrare l’opera di autori generosi e autentici come Freud e McLuhan, ma anche di Joyce e dei poeti dell’interiorità, dimostra quanto sia inutilmente umiliante cercare di compiacere la cultura dominante.
Fuori dalla cultura egemone
La sfida più ardua è quella di capire come dei pensatori generosi e tendenzialmente autentici abbiano permesso al loro lavoro di deragliare disastrosamente verso la demagogia e soprattutto verso la presunzione di essere sempre freneticamente un passo avanti agli altri, ed è il caso triste di Deleuze, che in Mille piani aggredisce insensatamente Freud sfruttando Artaud con involontario (?) cinismo.
Meglio esserne fuori fin dall’inizio, dal raggio d’azione della cultura egemone, e risparmiarsi le sterili e penose sensazioni di inadeguatezza, di disfatta e di amarezza provate da tutti coloro che si sono sentiti perseguitati e incompresi.
Adesso ho la conferma dell’insegretimento che ha dovuto subìre Ragghianti, e mi spiego la sua scomparsa dal mondo della storia dell’arte. D’altra parte anche Rosario Assunto oggi è ignorato e dimenticato. Sarebbe davvero triste per me avere una sorte diversa dalla loro.
So che i giovani che in futuro leggeranno P con passione lo ameranno come io ho amato i libri di Zevi, di Freud, l’Ulisse.
Scrivo per questi futuri lettori, che vedranno forse con la chiarezza della distanza anche i limiti e gli errori concettuali del libro, come io oggi posso scorgere i limiti dei miei stessi modelli, e so con certezza che questi futuri lettori potranno attingere una grande forza liberatoria dalla scoperta dell’affascinante diaspora dei principi dell’esilio.
I pochissimi lettori giovani ai quali ho permesso di leggere il libro mentre stava prendendo forma mi hanno confermato la possibilità di avere un pubblico futuro capace di accettarlo e di capirlo.
2011
Leggendo (o rileggendo?) adesso le belle pagine di Ragghianti su SeleArte del 1960 ritrovo tutti i miei temi, ma vedo anche gli argomenti sui quali ho potuto forse suggerire un’impostazione originale.
Immagino che il mio contributo integrativo al suo idealismo crociano sia nell’idea (desunta indirettamente dalla Fenomenlogia, che mi è arrivata attraverso la critica e la saggistica) della creatività intesa come flusso fenomenico che sfugge alla coscienza del singolo artista e anche dal contesto stesso dell’opera: l’opera d’arte non come libera espressione spirituale, ma come fenomeno complesso continuamente dirottato e trascinato altrove.
E’ ora di realizzare definitivamente ciò che ho sempre pensato di fare, leggere la vicenda degli abiti, dei mobili, dei gioielli, degli argenti, degli strumenti musicali, delle armi, degli avori, a contatto diretto con gli altri fenomeni dominanti della creatività che non vengono mai interpretati in un contesto così esteso, come la musica, la pittura e scultura, l’architettura, la poesia.
Poesia italiana e arte: la simpatia strutturale
Il tema del sole:
‘E la donna sorrideva – ebete e sola nella luce catastrofica’ (Campana, Canti Orfici)
Non ho mai avuto l’intenzione di scegliere un tema portante per questa sezione; anzi, ho scelto i brani ignorando il contenuto e cercandone la massima intensità, eppure alla fine si è imposto da sé il tema del sole e della luce alla quale è necessario opporsi.
Si è ripetuto ciò che mi era già capitato con il brano dedicato alla danza, dove lavorando ho individuato il tema fondamentale della danza di Salomè, e con il capitolo sui Fumetti (in lavorazione), dove ho individuato come fondamentale il tema della crudeltà.
Per la Poesia, dopo aver selezionato i brani esemplificativi per ogni autore scelto mi sono accorto che c’era un tema dominante che legava questi momenti di massima intensità: la luce del sole come forza negativa.
In realtà ho continuo a sviluppare con questa sezione l’idea di Bruno e di Nietzsche del troppo vedere che rende ciechi, un pensiero che ho coltivato da sempre.
E il capitolo sulla poesia in questo modo si inserisce coerentemente tra Nascosti nelle pieghe della luce, dove la piena visibilità è un’ombra che nasconde la ricerca di interiorità, e Sotto il sole di Satana (in Vitalità del pensiero poetante) dove la piena luce è quella che rischia di portare alla follia.
Il materiale di questa sezione sulla poesia si è sedimentato da tanto tempo, e adesso anche qui si tratta di ridimensionare drasticamente l’importanza della poesia italiana rispecchiandola nelle forme d’arte corrispondenti che mostrano la complicità della simpatia strutturale.
Il risultato più straordinario che sto ottenendo lavorando a P è nel cambiamento radicale che avverto io stesso nel leggere ogni volta i brani conclusi.
Da quando ho finito Armonici non guardo più con incertezza al fenomeno dell’arte contemporanea, adesso tutto mi appare più chiaro in uno scenario che finalmente ha un senso; e mi è capitata la stessa cosa dopo aver finito e riletto il testo sulla Danza e sulla Moda.
D’altra parte è naturale che sia così, perchè mentre scrivo sono anche io, come tutti, il medium di infiniti tracciati che cercano un punto di incontro, e se quelle linee restano tese in uno schema di ortogonali per tutto il tempo del lavoro è inevitabile che poi si allentino e che siano dimenticate per poter continuare a scrivere. Così, quando rileggo il testo che nel frattempo ho ripulito e limato all’infinito, mi trovo di fronte a ciò che io stesso avrei voluto leggere sull’argomento e che non avevo mai trovato, ed è per questo motivo che sono il primo stupito lettore di ciò che scrivo.
Mentre lavoro a un brano di P l’argomento che ho in mente si evolve, si mette a fuoco, perchè è in corso un lavoro di limatura continua e di correzione, di esclusione di ciò che non è più valido e di radicalizzazione concettuale di ciò che in quel momento mi appare più che mai necessario e urgente.
Quando ogni testo è finito mi appare come una terracotta asciugata che finalmente posso vedere in tutta la sua concretezza di opera compiuta.
Mi rendo conto di aver coltivato per il libro una scrittura fatta di impercettibili sfasature che cerco di modulare come se fossero inserite in un vasto spartito musicale.
Con il tempo il mio sistematico frantumare i testi in piccole sezioni introdotte da un titolo ha portato a una piacevole leggibilità.
Nella fase iniziale del lavoro questa frantumazione a mosaico mi è sempre necessaria per dare ordine al materiale raccolto, per mettere a fuoco i contenuti e per imprimere un ritmo progressivo al testo, graduando così anche l’intensità dell’interpretazione critica. Successivamente questa segmentazione si raffredda in un telaio elastico che sostiene il capitolo esponendolo quasi in filigrana di fronte a chi legge.
Dopo averlo sperimentato in passato per saggi più o meno lunghi, come quello su La Croce di Borbona, ho usato questo sistema con Filigrana, Armonici, Esteticità, Moda, Danza, Racconto grafico, e adesso lo sto utilizzando per dare una forma articolata a Vitalità del pensiero poetante e per organizzare razionalmente il capitolo sul Cinema.
Quando ho cominciato ad abbozzare il saggio sul Cinema mi ha emozionato vedere riuniti insieme tutti i frammenti di cinema che ho vissuto con intensità per una vita intera. Ho sempre saputo che volevo esaltare il frammento poetico anche della durata di pochi secondi contro il gigantismo inerte dei grandi film, ma vederlo sulla carta come se fosse già pubblicato è stato magnifico e impagabile. Sognavo da sempre di inserire i pochi passi lirici che ho visto nei film più antichi, ma non immaginavo che con il computer e con YouTube fosse così semplice e piacevole selezionarli accuratamente e fissarli nel testo.
Marey, Acres, Sjostrom, sono già riconosciuti come grandi autori, ovviamente, non sono certo il primo a scrivere di loro, ma forse nessuno ha mai ipotizzato esplicitamente che dei frammenti minuti di cinema possano essere qualitativamente superiori alle grandi costruzioni quantitative che invece poi si sono imposte come protagoniste di questa tipologia.
Lo sappiamo, le indagini più impegnative sul cinema, da Bergson a Deleuze, vertono sulla sua caratteristica di forma in movimento, mentre io sostengo che la specificità pura del cinema sia nel movimento latente, appena avviato e subito spento, come accade con la musica aforistica di Webern.
Distinguo cioè tra il momento della necessità immediata di percepire il movimento, che può durare pochi preziosi secondi, come nell’onda di Marey, e l’immensa, irrefrenabile infestazione che dall’inizio del Novecento in poi ha costretto i grandi corsi d’acqua del romanzo popolare e del teatro a confluire nell’irrefrenabile fiume del cinema narrativo, che viene ostacolato solamente dalle rarissime creazioni scritte in versi che hanno trovato il modo di scavare il loro percorso con sottili canali che scorrono paralleli e quasi invisibili a lato di quel prepotente corso d’acqua che domina il paesaggio.
Qui la mia lettura del cinema è coerente con quella che ho condotto della poesia, della danza, del design, della fotografia, dell’arte contemporanea, della musica, del racconto grafico e del pensiero poetante: privilegiare i contratti lacerti di qualità contro la massa quantitativa che ipnotizza e sequestra la ragione nel tunnel perverso dell’entropia.
E in questo c’è l’insegnamento di Croce su poesia e non poesia, certo, e lo rivendico pienamente.
In questo contesto i principi dell’esilio non sono tanto gli autori, quanto la loro opera generosa e intensa, i rarefatti momenti di estrema, acuta liricità che costoro hanno innestato nelle loro opere con una grandissima sensibilità e intelligenza pur sapendo che sarebbe stato difficile per gli altri memorizzare pochi fotogrammi in movimento.
Questo breve saggio sul Cinema offre più che mai, nello spirito di P, un drastico ridimensionamento di autori e di opere troppo celebrate a favore di una messa a fuoco, che può anche apparire paradossale e contraddittoria, di frammenti lirici che a volte durano pochi secondi.
Con i sottotitoli che scandiscono il saggio ho reso esplicitamente omaggio al bellissimo, crociano, Saper vedere di Marangoni.
E ancora una volta mi rendo conto della difficoltà per il lettore futuro di capire che la mia lettura scava a fondo in una materia che è già di per sé pochissimo conosciuta. Io do per scontata la conoscenza dei film più antichi di Edison, Porter, Griffith, che mi rifiuto di associare al catalogo di rarità poetiche che ho ricomposto, ma anche questi sono autori che la maggior parte dei lettori, soprattutto giovani, ignora.
Il libro, in questo momento, coincide davvero con la mia vita, non lo sto solo scrivendo, sto trascrivendo definitivamente una miriade di suggestioni e di pensieri altrimenti sfuggenti, e sono io stesso il primo lettore che studia questo materiale e che ha la sensazione entusiasmante di imparare qualcosa di necessario e di inedito.
Il tema della crudeltà
L’oscuramento della percezione profonda della crudele evidenza del reale imponderabile sembra essere il frutto della lotta che la cultura egemone ha sempre condotto contro l’esasperazione della sensibilità individuale, contro Euripide, Dostoevskji, Rimbaud.
Solamente il pensiero poetante, di Eraclito, di Plotino, ha ostacolato questo oscuramento opponendo alla macchinazione del rituale religioso la vivida percezione sensoriale dell’esistenza irrelata.
In P questo tema della crudeltà emerge ovunque: Filosofia, letteratura, racconto popolare illustrato, arte popolare, poesia, danza, teatro, pubblicità; un torrente sotterraneo che attraversa tutto il libro.
E può darsi che una parte della letteratura sulla crudeltà sia una forma di mistificazione accademica elaborata in reazione al nucleo di pensiero più radicale e più antico.
2012
Penso più che mai che P potrà essere edito in cartaceo (senza foto) e poi legato a uno spazio web che lo potrà mettere in rete con gli innumerevoli link ai file di immagini, musica e cinema che gli sono necessari.
Comunque P è destinato evidentemente a essere un prodotto della cultura aperta del Web, e questo mi fa sentire coerente con la mia avversione per le regole del mercato che non ho mai accettato e alle quali P comunque si oppone esplicitamente in ogni sua pagina.
Nel capitolo sui Fumetti, Per una morfologia del racconto grafico, che chiude P nell’assetto progressivo dei capitoli, ma non nel sistema interno di vasi comunicanti, riemergono ancora una volta tutti gli argomenti del libro: il tema della crudeltà cauterizzata, il tunnel dell’entropia che corrode le forme ormai prive di necessità, la cecità della cultura accademica per le forme autentiche, il valore qualitativo contrapposto all’infestazione massiva e quantitativa delle forme scolastiche, l’indagine sulla specificità, il contrastato predominio degli stereotipi, il senso del deposito alluvionale della cultura popolare in cui la cultura egemone lascia essiccare, nell’infestazione macroscopica, tutto ciò che non può sfruttare ancora come modello concettuale, e il dramma contemporaneo dell’alta marea di armonici di memoria che vanifica la presunzione dell’innovazione forzata.
Ho concluso Nella crisalide, il primo capitolo di P, dopo aver scritto l’ultimo, Morfologia.
Ho conservato intenzionalmente il linguaggio poetico e sfasato che avevo già impiantato in questo testo a suo tempo. Ne sono soddisfatto, è esattamente ciò che volevo fare.
Ci sono quasi tutti i temi di P: il travaglio che spinge il dolore individuale a trasmutarsi in esperienza collettiva, lo schermo fragile del visibile, la poetica dell’erroneità, la ricerca di negligenza intenzionale, la libertà di sperimentare la superficialità grammaticale e sintattica, il contenuto narrativo reso quasi irrilevante, il modello concettuale delle urne cinerarie etrusche, il turbamento della presenza incontrollabile del conflitto tra inumatori e inceneritori.
C’è la complessità, la necessità, l’autenticità, la reverie del corpo senza vita, il dolore trasmutato in radicale forma poetica, la melanconia, il pensiero poetante, i due percorsi per l’autenticità, la trasmutazione melanconica in pura creatività e la possibilità di una ricerca senza limiti. C’è la distinzione negata tra ciò che ha un rilievo plastico e ciò che è immateriale impressione retinica, il sogno di una matericità disgregata che va alla deriva in un rifluire vertiginoso, a rovescio, verso la cavità della retina, il lacerto erratico del visibile e la reverie del corpo svuotato dall’interno.
E poi c’è l’orizzonte interdisciplinare: l’Andito della Laurenziana, le forme della musica dei primi decenni del Cinquecento, la pittura visionaria dei danubiani legata a Lucrezio, le stigilature del marmo dei sarcofagi antichi che i mobili più intensi del tempo imitavano ‘a modo di sepoltura’ (come scrive Vasari), la radicale scrittura in versi.
Lavorando intensamente al capitolo sull’esteticità diffusa realizzo il sogno, coltivato per anni, di descrivere criticamente in poche righe opere di grande intensità e di analizzare invece poi con cura interdisciplinare le opere trascurate, come il grande trumeau di Cà Rezzonico.
Con E sto costruendo una antologia delle mie preferenze coltivate per tutta la vita.
Lo scopo del capitolo è individuare lucidamente la specificità di ogni tipologia creativa e chiarire bene la diversità tra l’opera, per fare un esempio, che è solamente arazzo, come è il caso delle opere di Salviati, da quella che è comunque anche e soprattutto grande pittura, come è il caso degli arazzi di Pontormo.
Una precisazione che vale per il mobile, dove il tromeau di Cà Rezzonico, pur essendo parte di una serie infinita di altri mobili analoghi, tutti materiati dalla stessa memoria borrominiana, mostra il livello più alto che quella tipologia possa raggiungere; vale per il romanzo, dove il Malte di Rilke è solamente letteratura a differenza delle opere di Joyce e di Proust; vale per il testo più sottile di Mallarmè, Il colpo di dadi, dove paradossalmente la forte pressione contenutistica si allenta nella ineludibile necessità della forma fluida: e vale per la delicata musica di Webern.
La cosa che mi preme documentare molto chiaramente con E sono le variazioni di questo fenomeno.
La specificità dell’opera può essere diffusa in una tipologia disseminata in infinite varianti oppure essere isolata in un limbo che la sottrae alla sua specificità. Con varianti importanti, perchè la ceramica Sung si sottrae alla piena specificità della ceramica pur continuando a rappresentarla pienamente, mentre Strade è una fotografia unica che rappresenta pienamente anche la specificità della sua tipologia.
L’abito dipinto da Goya non è nella sua piena specificità, perché trascina con sé un modello concettuale troppo forte, mentre un dipinto di Guardi può rappresentare invece la piena specificità della pittura; l’argento di Germain è allo stesso tempo il capolavoro della sua tipologia e anche il livello più intenso raggiunto della sua specificità.
Vampyr è solamente cinema, la guglia estrema e insuperata della sua tipologia, mentre Giovanna d’arco sconfina in altri contesti.
Oggi (6.12), riflettendo sul lavoro fatto, mi rendo conto di avere valorizzato soprattutto i miei limiti naturali, la mia sostanziale inadeguatezza alle regole comuni, la mia iniziale difficoltà nelle cose materiali legata forse anche al mancinismo, il mio restare sempre profondamente estraneo alle norme che valgono per gli altri. Tutte le sfasature della mia vita stanno confluendo in P facendone un segreto romanzo autobiografico.
Mi piace pensare che sia possibile utilizzare come introduzione a Il tempo materiale di Giorgio Vasta le due pagine che ho dedicato a I quaderni di Malte (1910) di Rilke in Gli strumenti della creatività.
Ho scritto quel pezzo cercando di fissare, nei limiti del possibile, la specificità della narrativa più autentica, e nella riflessione era implicita, nello spirito di Principi dell’esilio, una proposta per cercarla e di ritrovarla, quella specificità, anche oggi e nel prossimo futuro.
Rilke è un poeta che in quel caso ha scritto in prosa tenendo conto però della tensione poetica, esattamente come fa adesso Vasta.
La suggestione intima del perturbante l’avevo trovata così intensamente solo nel Malte, che è stato scritto immediatamente prima dei romanzi di Proust e di Joyce, quindi ancora in tempo per vivere la malìa inquietante del perturbante che quei romanzi poi hanno dissolto con il loro ampio respiro liberatorio.
Subito dopo aver scritto quella pagina ho scoperto l’opera di Giorgio Vasta, e ho creduto di capire che forse una nuova narrativa, esaurito lo slancio dello sperimentalismo più liberatorio, può ricominciare proprio laddove l’aveva lasciata l’ipersensibile Rilke, educato da Rodin a cercare l’emozione dell’inatteso e dall’anomalo per scrutare l’invisibile.
2013
Pensiero poetante
Prende corpo una stratigrafia che permette di cogliere in tutta la sua complessità il raggruppamento di autori altrimenti privi di legami tra di loro, e sembra di poter cogliere più largamente una vasta mappatura che mostra delle zone di alta marea e di bassa marea del pensiero.
Si direbbe che a momenti caldi di intensa necessità facciano seguito dei momenti più freddi di sistemazione e di riordino, e questa è un’ipotesi esplorativa che non sminuisce affatto l’opera di chi ha operato sulla sistemazione e sulla continuazione di pensieri forgiati da altri a caldo, ci sono delle eccezioni fondamentali che dimostrano chiaramente come le due fasi, quella della necessità e quella dell’elaborazione, siano ugualmente contrassegnate da una medesima altissima qualità, basti pensare a Lucrezio/Bruno e a Schopenhauer/Freud.
Il testo sui Fumetti si presta più che mai a un equivoco per il lettore futuro, un equivoco che poi riguarda tutto il libro.
Come può distinguere il lettore tra tutto quello che è stato già detto sull’argomento e ciò che viene invece mostrato per la prima volta? Sfogliando questo capitolo distrattamente può capitare a chiunque di pensare che si tratti di una succinta storia del fumetto già esistente proprio per l’evidenza disarmante dei riferimenti e dei confronti; eppure sono tutte idee assolutamente inedite.
Sarà importante che il lettore non specialista possa trovare in una nota iniziale un’informazione preliminare: che in P, salvo un’esplicita indicazione contraria, tutto quanto viene detto è inedito, semplicemente perchè P non è un’opera di divulgazione, ma di sperimentazione e di ricerca.
Ritrovo casualmente in Friedrich l’espressione ‘Suoni armonici semantici’ a proposito della poesia di Rimbaud e Mallarmè, ed è sicuramente da qui che ho preso il mio ‘armonici di memoria’, anche se mi sembra di aver letto anche altrove questa espressione.
Si consolida sempre di più in me la percezione di un affascinante eterno presente che vanifica e ridimensiona soprattutto la retorica e demagogica esaltazione dell’arte contemporanea.
Se faccio un bilancio del lavoro fatto finora (5.2013) per il libro vedo questo:
Con Introduzione (2001) ho messo a fuoco la necessità di Un diverso atteggiamento critico, delimitando poi l’indagine con I limiti della ricerca e con l’individuazione di ciò che costituisce la Specificità dell’opera d’arte.
Nella crisalide ho indagato le due strade diverse che portano verso l’autenticità: il dolore e la ricerca infinita.
Con Altdorfer e Seghers. Grandi lirici segreti nella pittura del Cinquecento e del Seicento (2002) ho visto l’isolamento culturale al quale può portare la stessa intensità della ricerca.
Fuori dall’incanto ipnotico, con Armonici di memoria (1974-2010), ho affrontato in campo aperto il drastico ridimensionamento dell’arte a favore di una percezione più diffusa del valore creativo, e Nella strategia barocca (1997-2001) ho cercato la conferma della necessità di estendere senza pregiudizi questo ridimensionamento a tutti i momenti dell’arte: con Un progetto irrealizzato in S. Maria in Vallicella (1995-2001), La Cecilia di Maderno (2002), Lo sfguardo negato, ho messo ulteriormente a fuoco l’esistenza di un’alternativa a tutto quanto ha decretato la storia dell’arte accademica.
L’alternativa della creatività, in questo diverso scenario, è coltivata da forme che si sono sviluppate coraggiosamente nel tempo nel territorio della Vitalità del pensiero poetante, laddove il pensiero filosofico e la creatività abitano insieme una lunga fascia di confine.
Ne L’arte agli inizi del XXI secolo tra autenticità e retorica accademica (2001) poche, rare opere autentiche lottano contro l’infestazione macroscopica delle derivazioni scolastiche che ne potrebbero soffocare il respiro; e ci sono Schede che mostrano quanto possa essere forte la fascinazione della manipolazione accademica. In Jodi.org: continuità della ricerca d’avanguardia nella Net.art (2001), ho indagato il deragliare delle forme sperimentali ormai desuete verso territori limitrofi, mentre in Diaspora e identità ho cercato di decifrare quella difficile ibridazione tra i contenuti sociali e la creatività che caratterizza gli inizi del XXI secolo.
Con Nascosti nelle pieghe della luce ho scavato al centro del libro un cuore invisibile, una radura quasi inaccessibile abitata dalla più intensa poesia dell’interiorità; Poesia italiana e arte: la simpatia strutturale attesta invece ciò che unifica le forme della poesia a quelle dell’arte.
Nei Territori di confine: l’arte infantile e l’arte della sofferenza psichica l’alternativa della creatività è offerta da ciò che la cultura egemone non può manipolare.
Nel mondo affascinante de La persistenza neolitica nell’eterno presente vibra forse in parte la realtà concreta dell’arte come continua indagine dell’Io che cerca un posto nel mondo e un ‘orizzonte della presenza’, e Konde (2001) costituisce uno dei momenti più acuti di questa indagine infinita.
Addentrandomi ne Lo spazio aperto dell’esteticità diffusa ho cercato uno sguardo rinnovato sulle forme della creatività per Attraversare l’esteticità diffusa. E le ulteriori messe a fuoco di questo attraversamento portano alla luce gradualmente la possibile riconoscibilità di ciò che è autentico perchè messo a dimora nella propria specificità: Spazialità pittorica e marmi antichi in S. Agnese fuori le mura (1995-2001); Spazialità pittorica nella chiesa di Gesù e Maria (1997-2001); Maiolica arcaica: anamorfosi dello spazio; Televisione e arte popolare (2002); STZ pubblicità creativa (2001); Il Design nel tempo della necessità; La Moda contemporanea nel tunnel dell’entropia (2010);Le forme dell’Illustrazione.
Da questa prospettiva posso osservare La reverie del corpo con tutte le sue derivazioni: L’anomalia della Danza nel tempo della necessità (2008); L’abito nella terra di confine tra organico e inorganico; La reverie del gioiello.
E anche I luoghi della Musica e Il Cinema tra scrittura in versi e scrittura in prosa qui possono essere esplorati con uno sguardo diverso, assieme a La fotografia, anomalìa dello sguardo, esplorata senza remore con Due fotografie a confronto: autenticità e retorica (2001) e con La fotografia occasionale (2001).
Nel percorso accidentato che ho seguito Per una morfologia del racconto grafico ho incontrato l’idea della crudeltà laddove si immagina solamente la leggerezza.
Un’appendice, Laboratorio di critica d’arte, Attribuzioni, mi permette di sperimentare concretamente il metodo empirico che materia tutto il libro, attribuendo le opere de Il Maestro del monumento Grifoni (2005-2010) e indicando l’autore del Pantocrator (2001).
A Pagine affido infine una riflessione autobiografica sulla mia avventura, vissuta nella difficile e affascinante foresta della creatività.
Il Quaderno interdisciplinare come Appendice a Principi
Per la prima volta ho visualizzato oggi la parte di P conclusa a questa data togliendo tutte le immagini e stampando solamente il testo nella sua nuda essenzialità. Ebbene, coerentemente con lo spirito aforistico che ho amato e adottato da Webern e dalla frequentazione della poesia, il volume che risulta sarebbe composto, attualmente, da 300 pagine (!).
Poche pagine sintetiche quindi, senza l’enorme apparato visivo che ho pazientemente realizzato, perché tutto il senso del mio lavoro è sempre stato quello di aiutare la comprensione delle opere vive riducendo al minimo le formulazioni teoriche e scrivendo solo cose essenziali.
Sarà un insomma volumetto denso ma terribilmente scarno, e ora vedendolo nella sua nuda realtà materiale completamente spogliato del fascino prepotente e ipnotico dell’immagine e affidato solamente alla parola, comincio a pensare a una integrazione ibrida che finora avevo escluso e che adesso invece mi sembra addirittura desiderabile.
Alle 300 pagine di P posso associare una lunga appendice con testi vari sotto la denominazione generale di Quaderno interdisciplinare, derivazione e perfezionamento dell’attuale QI di lavoro che aggiorno quotidianamente, un vasto Zibaldone scandito da zone ben limitate:
1 le idee, 2 il visibile, 3 plasticità, 4 spazialità, 5 l’eterno presente, 6 il contesto, 7 Il territorio.
In questo modo avrei un esplicito commento esplicativo al testo di P nella forma piacevole e slegata di note varie e di freschi appunti di lavoro.
Non mi dispiace l’idea che all’intensità aforistica di P possa seguire una riflessione divulgativa che comprenda anche una essenziale bibliografia ragionata, un elenco di libri che per me sono stati importanti e che finora non avevo mai immaginato come appendice a P se non come inserto in Pagine.
Un volume composito, gradevolmente eclettico, che alterna il rigore estremo di P alla disponibilità descrittiva del Q.
In questo modo riunisco semplicemente tutti i miei testi migliori in un più vasto laboratorio critico rinunciando alla ieratica poeticità pura di P a favore di una intrigante polimatericità.
E può essere incluso nel Q, alla voce Attribuzioni, anche il saggio sulla Croce di Borbona che nel 1996 è stato il primo testo a soddisfarmi completamente e che in parte è stato anche il laboratorio del libro attuale, perché tutta la seconda parte del testo è già pienamente nello stile di P.
2014
Conclusi, felicemente mi sembra, i capitoli sul Cinema e sulla Fotografia. Solamente scrivendo il testo definitivo ho precisato più chiaramente a me stesso come penso la specificità di queste due tecniche: resistenza all’esproprio del tempo reale, nel Cinema, e resistenza alla fossilizzazione del momento effimero, con la Fotografa. I due capitoli mostrano, spero chiaramente, la sovrimpressione insidiosa che c’è stata, su queste due specificità, della ingannevole e ipnotica pseudo specificità che le ha invece spinte nell’ombra.
Svegliarsi dal ‘sonno dogmatico’
Giunto verso la conclusione del materiale preparatorio di Arte e Filosofia ho la conferma di una cosa che ho pensato in questi ultimi anni.
Ciò che chiamiamo arte contemporanea è il frutto di un colossale fenomeno di riduzione manieristica di idee già esistenti e mai del tutto comprese, lo dice la visione distaccata di questo vasto panorama da un’altura che mi permette di cogliere le infinite diramazioni verso altri luoghi della creatività che non sono nel passato ma nell’eterno presente.
Oggi avverto una grande, definitiva stanchezza per le forme retoriche e fossilizzate di una creatività che viene imposta all’attenzione con un ossessivo, maniacale rituale religioso.
Le opere selezionate e promosse dalla cultura egemone mostrano le stesse caratteristiche che hanno sempre avuto i segmenti del fanatismo magico religioso: l’apparente incongruità logica, che rinvia al disegno occulto del numinoso; la violenta sollecitazione dell’immaginazione, con la suggestione imponderabile del miracolo; l’ambiguità dell’effimero, con il senso irresistibile del ridicolo che non può essere scoperto e denunciato di fronte al prepotente dogma religioso; l’ipnotica e meschina sottomissione all’autorità, con la sacralità indiscussa del clero officiante.
Mi lascio alle spalle l’interesse per l’arte contemporanea e lo sostituisco definitivamente con l’attenzione per l’esteticità diffusa e per lo spazio fluido dell’eterno presente.
In questi giorni, elaborando accuratamente una scheda per Arte e filosofia su Croce, ho ripensato al mio essere sempre stato coerentemente crociano, dalla lettura adolescenziale di un suo libro limpido come La logica e di Estetica in nuce fino all’adesione, che per me fu immediata, alla poetica dei crociani Zevi, Ragghianti, Marangoni, Salvini e De Martino, sempre mossa dalla ricerca della specificità dell’opera e della chiarezza.
Nel momento attuale della mia messa in discussione radicale della contemporaneità (con Arte e filosofia), avverto il retaggio di Croce come la cosa più salubre e naturale che ci sia nella mia formazione culturale, e sono contento che questa forma di pensiero si sia innestata in me fin dall’inizio. Anche per questo devo ringraziare mio fratello R che faceva circolare quotidianamente i libri per casa.
Mi rendo conto adesso che la limpidezza concettuale di Croce mi ha permesso di affrontare e attraversare i linguaggi della più ardua complessità poetica senza sgomentarmi e senza perdere mai di vista la necessità di una lettura trasparente associata ad un giudizio inflessibile e non condizionato. E in questo momento storico di esaurimento delle avanguardie, e della loro retorica così spesso imposta con la prepotenza dal mercato, la serenità di giudizio coltivata da Croce è più che mai uno strumento fertile, importante anche per capire il suo aperto scetticismo di fronte alle forme filosofiche che non condivideva e verso le quali non si sentiva obbligato ad esibire nessuna forma di acritica adesione; e se in questo C ha sbagliato, come è possibile per chiunque, lo ha fatto senza tradire mai la sua coerenza.
Verifico ancora una volta la mia idea della specificità, che vive non di capolavori, ma di opere che sono depurate non solamente dal contenutismo e dalla spettacolarità, ma anche da valori troppo più grandi del contesto specifico che le nutre.
In una scheda sull’estetica del libro rifletto sul peso determinante dell’illustrazione libraria individuando la specificità di quella tipologia creativa nel libro che è materiato di sole parole e aperto a forme diverse di scrittura: nei libri severi e affascinanti con glosse e con aggiunte in corsivo si crea un dialogo a distanza di voci differite e implose nell’involucro del libro, un dialogo che esula dallo scambio corale per essere invece il luogo di una lettura intima che viene consapevolmente esposta anche all’errore e all’equivoco che paradossalmente sono i segni più profondi della realtà culturale, che vive soprattutto nella forma aleatoria del dubbio e della continua interpretazione individuale.
Nel testo recente sulla Fotografia ho individuato nell’opera di Stieglitz la specificità fotografica contro l’apparente specificità di Cartier-Bresson. Ho messo all’inizio e alla fine del saggio le foto magnifiche (esteticamente involontarie) del naufragio dell’Andrea Doria e del Titanic.
Nel saggio sul Cinema ho individuato la specificità prima nei brevissimi frammenti di tempo differito e poi nella coincidenza di sguardo e di immagine in Vampyr di Drejer.
Nel testo sui gioielli ho individuato la specificità nei gioielli aniconici come il pendente spagnolo del Poldi Pezzoli contro il contenutismo illustrativo delle tante opere figurate e contro la gretta retorica arcaica del valore (del potere taumaturgico) della pietra preziosa.
Nell’Illustrazione ho indicato la specificità più nelle immagini neutre e piattamente illustrative, ma prive di enfasi iconica, che nelle grandi forme di autori che trascendono l’illustrazione, come è evidente nel geniale Piranesi più intenzionalmente descrittivo.
Questa indagine sulla specificità ha il suo punto di forza in una apparente contraddizione: indico opere ripetitive e non intenzionalmente creative, come certe caffettiere in argento e certi trumeau del Settecento, che attingono la loro sofisticata qualità dal contesto più fertile che le nutre, ponendole accanto ad opere singole che portano la specificità della tipologia ad un limite estremo che confina con un livello nel quale la specificità stessa viene sospesa a favore di una pura, diversa creatività.
Ebbene, è su questa linea di demarcazione che si intravede la realtà della specificità tipologica: la collana mochica (v Esteticità) si ferma un attimo prima di essere un’opera materiata di acuto pensiero filosofico come lo è il Reliquiario del dente, immerso nella visionaria estetica bizantina (v Vitalità) ed è pienamente nella specificità del gioiello anche se la sua forma è inseparabile da una splendida e irresistibile sintesi concettuale del mondo (l’argento lunare e l’oro solare) che la fa confinare con lo spazio della filosofia accanto allo scarabeo egizio, dove lo sterco e il sole sono sintetizzati e sovrapposti.
Così gli arazzi di Salviati si fermano un attimo prima di sconfinare, come quelli di Pontormo, nella grande pittura, e il Malte di Rilke si ferma un attimo prima di sconfinare, come la Ricerca e l’Ulisse, nello spazio del pensiero; il Vampyr di Drejer si ferma un attimo prima di sconfinare nell’osmosi tra specificità diverse come avviene invece con la Giovanna d’Arco.
Il Piatto Kuan, da Hangzhou (cultura Sung, 960-1279), del Met, mostra la piena specificità della ceramica perché riflette l’immediatezza del mondo materiale circostante con il suo disarmante craquelé, ma allo stesso tempo, come la Collana Mochica, concretizza l’idea Chan della fragilità delle cose e quindi si spinge fino al limite della pura concettualità filosofica senza oltrepassarla.
E questo vale anche e soprattutto per la filosofia: ritrovo oggi la specificità pura del pensiero in Croce, dove la riflessione è esentata dalla suggestione non specificatamente filosofica che materia tante altre forme culturali del passato e del presente, e in questo caso alla serena e disarmante chiarezza ottocentesca di Croce corrisponde, come lavoro che invece sfida apertamente con la sua intensa unicità il confine della specificità filosofica, il pensiero di Merleau-Ponty, che si ferma (coraggiosamente) un attimo prima di sconfinare nel terreno estraneo dell’etica che ha naturalmente una sua diversa specificità.
Nell’arte contemporanea credo di avere individuato chiaramente la specificità nell’opera di Duchamp (come retaggio inconsapevole dello spostamento di contesto degli ex voto e dei reliquiari) e di Beuys (come recupero passionale del mondo rurale studiato da De Martino), e anche qui ho saldato il momento del contesto diffuso e non intenzionalmente creativo (quello dei tristi tropici del mondo popolare dimenticato) a singole opere (irripetibili e non vanificate dalla sterile ripetizione scolastica di altri) che si limitano a confinare con il pensiero filosofico (senza mai passare il limite) in virtù non tanto dell’intelligenza degli artisti stessi quanto del contesto fertile che li ha profondamente condizionati agganciando la loro indifesa sensibilità epidermica.
D’altra parte, proprio perché interpreto il lavoro di Duchamp e di Beuys in aperto contrasto con la Storia dell’arte ufficiale, individuo in Bonnard la qualità specifica della più autentica pittura contemporanea, perché è un’opera, la sua, che evidentemente mostra la capacità di sopravvive al tempo e di abitare la specificità della pittura stessa.
In Fautrier individuo invece un’opera raffinata che sconfina nel terreno concettuale della filosofia (Bergson, la Fenomenologia) e che forse non è destinata a sopravvivere perché il suo dare forma suggestiva ad una purificata percezione del mondo finirà in futuro per essere letto come troppo intenzionale (per quanto affascinante) messa in scena di un pensiero filosofico che è limitato ad un circoscritto momento storico, e oltretutto il lavoro di Fautrier si basa sull’emozione e sull’attrazione irresistibile che la percezione della materia scabra esercita con prepotenza sulla coscienza, ed è un valore questo che non può essere certo definito specificatamente creativo.
Con questa lunga indagine sulla specificità sento di aver esplicitato efficacemente la mia educazione crociana.
Ripenso ai dipinti stampati sulla copertina dei bellissimi quaderni neri con righe rosse che avevo a scuola da bambino: Tiepolo, Guardi e Sironi. Quelle immagini iniziali della mia vita, così affascinanti allora e così indelebili adesso nella memoria, mi hanno talmente educato alla matericità del dipinto che oggi, dopo tanti anni della mia vita passati a studiare l’arte contemporanea nelle sue forme extra-pittoriche, considero ormai Bonnard, nelle sue opere migliori, e Rodin, ma solamente quello del Balzac in gesso, come gli artisti più autentici del Novecento.
Fino a poco tempo fa era Beuys l’artista che preferivo su tutti, ma dopo il lungo lavoro di riflessione fatto con Arte e filosofia il fascino di quelle opere è stato ridimensionato ai miei occhi dalla consapevolezza del lascito profondo della cultura popolare devozionale e rituale come l’ha studiata e compresa De Martino.
E prima avevo ridimensionato Duchamp, che pure mi ha tanto affascinato per gran parte della mia vita, attraverso la lucida percezione di quanto nella sua opera affiori della straordinaria e svalutata, insegretita cultura della reliquia e dell’ex-voto popolare, dei tristi tropici della creatività.
Riscoprendomi, verso la conclusione della mia vita, pienamente crociano, vedo l’autenticità dell’opera che vive nella sua piena specificità esentata dal peso delle forme e dei contenuti dai quali non è materiata profondamente, ma solamente colonizzata.
Il lavoro per la biblioteca del Liceo Righi (Roma) mi ha permesso di misurarmi con argomenti che altrimenti forse non avrei approfondito, la storia del libro, la scrittura, il design grafico. E’ molto piacevole poter disporre così liberamente di una bella collezione di libri pregiati per studiarne le forme, è come catalogare una collezione di dipinti e sculture.
Per quanto riguarda i libri degli anni ’50-’70, ai quali siamo tutti fin troppo abituati, il piacere è invece nella possibilità di suggerire le sottili variazioni del progetto grafico ricostruendo e portando alla luce una stratigrafia altrimenti invisibile di forme culturali che vanno dall’essenzialità neoclassica dei caratteri bodoniani all’invadenza dell’immagine illustrativa, ma anche dall’ibridazione dell’immagine di Albe Steiner all’essenzialità purista di Munari.
La mostra che sto elaborando in questi giorni, la terza della biblioteca, mi permette di mostrare il passaggio dalle forme neoclassiche di Giovanni Mardersteig, ispirate da Bodoni, e dalla disarmata, aniconica essenzialità ottocentesca della BUR, alle copertine e al design del secondo dopoguerra che ripensano la tradizione tipografica del Bauhaus per collocare il libro nello spazio dilatato di una frenetica (e spesso contraddittoria) creatività.
Questa immersione nella realtà concreta del libro, sempre limitata ad una sola collezione libraria, quella del Righi, anche se in viaggio, con A, passiamo sempre nelle biblioteche storiche locali, mi induce anche a individuare le forme più vere del design grafico attuale, come sono le opere affascinanti e intelligenti di Olivier Munday, Marion Deuchars, David Pearson.
In quest’anno il lavoro per Principi è andato molto avanti. I nuovi capitoli (cinema, fotografia, illustrazione) hanno confermato la dorsale concettuale di P, la priorità della cultura qualitativa e interiorizzata su quella quantitativa e additiva dominante, con la conseguente possibilità di identificare l’autenticità nelle opere che siano interamente materiate della loro propria specificità senza imprestiti contenutistici provenienti da territori limitrofi.
Il lungo lavoro ancora in corso su arte e filosofia per Vitalità del pensiero poetante mi ha permesso di esplorare sempre più intensamente la realtà dell’eterno presente che vanifica la presunzione contemporanea del superamento del presunto passato.
Mi è chiaro definitivamente come tutto quanto abbiamo adesso sotto gli occhi non sia altro che il frutto di un ossessivo manierismo destinato alla celebrazione accademica di una rinnovata, insopportabile retorica, e se anche questi anni sono immersi nell’ondata potente con la quale il mercato difende le opere di questa accademica non è difficile vedere chiaramente quanto la massa infestante di lavori tardo concettuali sia destinata ad esaurirsi in una disastrosa bassa marea.
Il nodo più importante, in questo contesto, è nel riuscire a respingere con decisione la seduzione della retorica scolastica della contemporaneità senza confondere le proprie opinioni con quelle demenziali di chi si oppone comunque a tutto ciò che ingenuamente appare nuovo e sconcertante.
Gli sterili e ipocriti argomenti reazionari usati contro l’arte contemporanea sono insignificanti proprio perché eludono la realtà: non si tratta, come vorrebbe la critica più retriva, di respingere opere che appaiono sciocche e irridenti come buffonate sostenute ambiguamente dal mercato, ma piuttosto di cogliere nella sua articolazione una rigorosa strategia autoritaria rigorosa di sacralizzazione dell’effimero e del drastico sequestro delle idee del progressismo che vengono ridotte a icone svuotate e sclerotizzate.
Il mio lavoro attuale si pone più che mai come antidoto verso il paradosso di un dominante atteggiamento culturale della società civile che invece di constatare dignitosamente il proprio fallimento di fronte all’inarrestabile aumento delle ingiustizie più incredibili, della povertà, della violenza, del potere della criminalità, si accanisce nel creare un’accademia del negativo nella quale la letteratura e l’arte hanno il compito esplicito di celebrare retoricamente il male che non si riesce ad ostacolare invece di accrescere la sensibilità degli individui e la loro incondizionata libertà.
E in questo paradosso la creatività asservita al mercato mette in scena un’ipocrita denuncia dei mali del mondo senza riflettere sul perché non sia possibile almeno arginarli. Così la letteratura è invitata a essere realistica e concreta, la filosofia vuole essere materiata da un nuovo presunto realismo e l’arte deve raffigurare allegoricamente, anche con effetti di involontaria comicità, la realtà sociale.
L’etica mediocre e violenta della strada è travasata in rete con le sue oscene semplificazioni.
Ebbene, se il mio lavoro può essere un antidoto, lo è nella proposta di una sensibilità individuale che sia arricchita dalla radicale percezione della propria libertà.
Oggi mi sento libero dall’ipnosi di un mondo in cui tutto sembra rispondere alla provocazione del disastro sociale, e sento di poter formulare le mie ipotesi ignorando quelle provocazioni.
2015
L’indagine su arte e filosofia non lascia più adito a dubbi, i pensatori più sensibili (Balzac, Zola) hanno esplicitamente messo in guardia gli artisti dai pericoli del manierismo e del progresso forzato delle forme con un monito che poteva riguardare anche il disastroso e non certo inevitabile sviluppo della tecnica per finalità distruttive. Nei testi di Balzac e di Zola si trova l’antidoto inascoltato a quegli eccessi del manierismo che poi sono stati mascherati ipocritamente come momenti cruciali di un inarrestabile progresso.
E quando Croce deride la presunzione della ‘poesia pura’ che porta a degli ‘imbecilli puri’ ha la percezione lucida di questa insidia mortale e di questa fatale mistificazione.
Ho concluso e pubblicato in rete, nel website del Righi, il catalogo della mostra che ho ideato e realizzato sul Design editoriale. Immagino che gli studiosi di grafica corporativi non sarebbero affatto d’accordo con quanto ho scritto. E’ stato un lavoro molto piacevole, per la sua forma e per i suoi contenuti potrebbe essere un capitolo di P, magari in futuro lo inserirò nell’Appendice come testo critico interdisciplinare.
Nel testo sul Teatro introduco, rispetto agli altri testi analoghi (danza, moda, gioielli, illustrazione, cinema, fotografia) delle varianti.
Gli esisti estremi qui sono collocati non alla fine, ma all’inizio e al centro del brano (il Salento di De Martino e The Brig, che ritrovano la necessità pura della tragedia: la coralità e il dolore senza soluzione), mentre nella (provvisoria) conclusione c’é un’ipotesi di specificità teatrale da individuare nel teatro di parola di Ibsen continuato oggi dal norvegese Jon Fosse, dove trovo non tanto una soluzione di grande qualità, come avviene con Forsyte per la Danza, quanto piuttosto una lucida specificità del Teatro liberato dalle tante invasive e troppo seduttive forme della nuova accademia del corpo e da quelle altrettanto invasive dell’accademia dello straniamento ludico.
Risulta quindi come specificità del teatro la parola intesa come oggetto distanziato dal corpo e trascritto in una sottile grammatica del perturbante, ed è la stessa soluzione che ho trovato per la grafica editoriale, che non può essere individuata nell’illustrazione, ma nell’uso creativo della parola stessa.
In questa fase della mia vita, a 67 anni, posso forse illudermi di aver evitato, per quanto è possibile e con grande fatica, le maglie strette della detestata cultura dominante.
Già all’inizio della mia brutta esperienza scolastica sono cominciati gli equivoci: una maestra era convinta che io copiassi da un libro i lunghissimi testi che scrivevo al posto dei temi infantili dei miei coetanei. Al Liceo artistico un giovane e odioso insegnante di disegno geometrico mi prese di mira perché avevo osato affrontarlo di fronte a tutti sostenendo, con Zevi, che se l’architettura è spazio anche un ponte è architettura; mi rimandò per umiliarmi, e io mi trasferii per protesta all’Istituto sperimentale d’arte appena inaugurato da Rossi, dove insegnavano studiosi importanti come Marisa Volpi e artisti come Uncini (più tardi insegnò lì anche il sensibile Maurizio Mochetti).
Avevo avuto al primo anno di Liceo artistico una docente straordinaria e indimenticabile, Ascoli, sopravvissuta al campo di concentramento. Il suo viso scavato e tenerissimo è rimasto sempre nella mia memoria assieme alle cose intense che mi diceva di Donatello, l’autore che da allora non ho mai smesso di amare.
Poi ho dovuto prendere le distanze da chi mi avrebbe voluto laureato (nel 1969-70 era fin troppo facile ottenere una laurea in lettere, con accesso facilitato dagli studi artistici). Cercarono tutti, con sincera e affettuosa preoccupazione per il mio futuro, di convincermi a prendere in tempi brevi, e comodamente, una laurea, ma rifiutai, e non mi sono mai pentito di quella mia drastica decisione.
La prospettiva che mi veniva offerta generosamente era quella del futuro assistente universitario, sarebbe stata l’occasione per un’integrazione serena e facilitata in un mondo, quello della cultura egemone, che però avvertivo come saturo di ipocrisia e soprattutto di incanto ipnotico sugli stereotipi più incredibili. Rifiutai, segnando il mio futuro.
D’altronde il mio amato Croce non era laureato, e non ha mai avuto incarichi legati all’Università, mentre Thoreau è arrivato a mentire pur di vantare la sua distanza dall’Università (aveva sostenuto qualche esame universitario, senza laurearsi).
Oggi, nell’autunno della mia vita, so bene perché dissi no al rituale iniziatico dell’Università, e sono felice di aver lottato per la radicalizzazione della mia libertà senza la quale non avrei percorso fino in fondo la mia strada.
Per usare le parole di Jean Baudrillard, ‘all’indifferenza del mondo’ stavo contrapponendo una ‘indifferenza ancora più grande’.
Chi mi voleva bene avrebbe voluto vedermi al Warburg di Londra, perché credeva che il mio lavoro fosse rivolto essenzialmente all’iconologia warburghiana, ma quei limiti mi stavano stretti, guardavo oltre l’opera di Gombrich e di Arnheim, che ormai conoscevo bene, e cercavo una piena e vigorosa critica interdisciplinare, come mi suggeriva l’entusiasmante lettura di Zevi e di McLuhan.
Quando parlai con interesse di cinema commerciale mi misero in guardia da quella che appariva come un’esuberanza interpretativa: ‘stai attento a non diventare quello bravo a trovare i legami tra le opere’, mi sentii dire da chi mi seguiva con sincera preoccupazione.
Un docente, in quegli anni ’60, mi propose di scrivere un catalogo per i suoi dipinti in partenza per una mostra personale a Detroit. Ero a un bivio che poteva portarmi direttamente nel cuore del mercato.
Il pittore si aspettava da me un elogio esplicito della sua pittura di dignitoso epigone di Emilio Scanavino, ma io scrissi un testo che ritenevo rigorosamente critico e obiettivo, dando la priorità al contesto italiano e non al singolo autore. Pensavo che fosse una buona soluzione, ma il committente la respinse dopo avermi chiesto inutilmente una correzione in senso più elogiativo.
Era il mio no al mercato, avevo appena rinunciato a scrivere delle ipocrisie pur di avere il mio nome stampato su un catalogo edito a Detroit, con il coraggio del giovane arrabbiato che non voleva snaturare niente della sua carica interiore.
Il secondo rifiuto che ugualmente segnò la mia vita fu quello che opposi al ristretto circolo di filosofi naturali che frequentavo, persone che mi hanno educato con grande affetto sincero all’autenticità e alla sfida contro le convenzioni. Purtroppo però le loro contraddizioni, la superficialità epidermica della loro protesta contro il mondo e gli stereotipi più fossilizzati del comportamento deviante, erano ai miei occhi il segnale allarmante che tracciava ancora una volta i confini del territorio della malleabile cultura egemone, e li abbandonai.
La mia strada non poteva essere quella dell’omologazione, con una laurea e un posto ufficiale nella cultura dominate, ma non poteva essere neanche quella della continua rivolta capziosa che la cultura egemone riesce a manovrare come vuole e a integrare efficacemente nel suo resistente tessuto connettivo.
No, quello che volevo era essere un corpo inassimilabile, e mi sembrava incredibile constatare come nessuno volesse avventurarsi nel terreno scoperto di una sfida così pericolosa.
La mia sfida era rivolta contro tutti i passi rituali che permettono alla cultura egemone di fagocitare immediatamente, e di assimilare, qualunque cosa dopo averla battezzata con i progressivi rituali di iniziazione (avevo fatto bene a leggere molto presto e con attenzione Freud, Jung e De Martino).
Ho sempre sviluppato una sensibilità acuta per tutti i rituali di iniziazione e adesso ne pagavo caramente il prezzo nei rapporti con i miei coetanei. C’erano troppe cose che mi respingevano, non ho mai neanche assaggiato uno spinello, mai visto un concerto Rock, e ho scontato tutto questo con una pesante e interminabile, dolorosa solitudine.
Nel ’74 scrissi l’incunabolo dell’attuale Principi dell’esilio, poche pagine terribilmente dense con le quali aprivo a tutto campo la mia esplorazione radicale degli armonici di memoria. Si trattava di un duro ridimensionamento dei miti dell’arte che partiva dall’opera di Burri, e persi definitivamente l’appoggio di chi mi aveva sempre affettuosamente sostenuto.
Alla fine del ’70 entrai nel Ministero per i Beni culturali, ma non mi sono mai sentito per questo parte della cultura dominante, non pensavo al patrimonio artistico come ad un possesso di quella cultura, ma piuttosto come ad una violenta colonizzazione alla quale volevo e forse potevo reagire fosse anche nei limiti del mio operato.
Avevo scoperto la critica d’arte con Zevi e con Ragghianti e ne ero profondamente affascinato. Il mio disagio verso la cultura egemone non mi impediva affatto di assaporare il piacere intenso del rapporto continuo con l’opera d’arte nei musei (la Gnam e Palazzo Venezia) e nelle chiese, una gioia profonda che mi ha sempre sostenuto anche nei momenti più difficili.
Al Ministero e alla Gnam mi opposi con decisione ai funzionari prepotenti che governavano e che sicuramente mi hanno molto odiato. Respinsi le offerte impudiche di carriera e di vantaggi, mi rivolsi a un ispettore ministeriale per denunciare un tentativo di corruzione.
A Palazzo Venezia ho lavorato cercando di aiutare come potevo i piccoli comuni (Magliano, Borbona), ma anche i tanti studenti oltraggiati dall’indifferenza degli assistenti universitari e dai costi esosi degli studi.
Andando in pensione mi sono lasciato dietro le gelosie e le cattiverie dei colleghi meno intelligenti. Mi gratifica sapere di essere presente in innumerevoli tesi di laurea e, credo, nella memoria di tantissimi studenti e studiosi anche stranieri.
Dal 2003 al 2009 l’esperienza delle mostre a Testaccio e al Casale della Cervelletta, con la storica dell’arte Paola Berardi, mi ha confermato che il lavoro di selezione critica più serio e rigoroso non può ottenere l’attenzione dei media senza seguire servilmente le regole prescritte dal mercato.
Adesso la stesura quasi completa di Principi dell’esilio mi dimostra una cosa che ho sempre saputo: l’assoluta inconciliabilità del lavoro critico radicale con la follia burocratica della cultura dominante. E trovo del tutto naturale che quella forma di dominio diffuso abbia messo al bando, assieme a Croce, i grandi critici d’arte crociani come Zevi e Ragghianti.
Mi presento senza troppo sgomento di fronte alla demenza della violenza corporativa. Apparirà sconcertante e provocatoria la mia indifferenza per i titoli accademici, certo, ma soprattutto lo sarà il pensiero critico che materia il mio libro, l’assoluta priorità della cultura qualitativa su quella quantitativa, un pensiero che nega ereticamente l’esistenza stessa del mercato.
Ho sempre biasimato lo studioso che riflette su realtà che non vive profondamente dall’interno. Ebbene, io sono diventato oggi ciò che ero destinato fin dall’inizio a essere, ciò che ho voluto ostinatamente essere, uno di quei principi dell’esilio che ho sempre amato e che ho sempre studiato.
Sono uno di loro, con i miei pregi e con i miei inevitabili limiti e difetti umani, ed é naturale che io vada incontro agli stessi rischi che hanno corso loro, sono pronto a sopportare tutte le mistificazioni che potranno essere opposte al mio lavoro. Non ho paura della cattiveria degli altri, il giudizio più severo sul mio lavoro è quello che do io stesso ogni giorno.
Ho visto giovani amici troppo fragili passare nel territorio della droga e del più doloroso disagio mentale, amici che potevano essere bravi scrittori rovinati dal panico dell’insuccesso, e di fronte a queste cose dolorose, che fatico a dimenticare, la macchina del fango (come la chiama Saviano) che si muoverà probabilmente anche contro il mio libro non conta niente.
La profonda soddisfazione che può darmi il mio libro c’é già stata, l’ho avuta ogni giorno lavorando e studiando con entusiasmo, anche se sono consapevole del fatto che quasi nessuno di coloro che mi conosce può leggere il mio libro fino ad impossessarsene pienamente, condizione indispensabile per mettere a frutto tutto ciò che c’è dentro; lo leggeranno e lo capiranno dei giovani avventurosi che non conoscerò mai, giovani dislocati nel futuro più remoto, giovani che saranno capaci di capirlo e forse di amarlo anche nella sua forma povera, priva di immagini e priva del nulla osta del mercato, altri coraggiosi cercatori di principi dell’esilio come ho cercato di esserlo io per tutta la mia vita.
Grandi amici futuri, pochi o tanti che siano, che saluto attraverso il tempo da qui, da questa pagina che dedico a loro.
2016
Pensiero poetante
Nonostante le avvertenze, sarà difficile per chi lo leggerà capire cosa è inedito, nei limiti, s’intende, delle mie conoscenze della letteratura relativa.
Evito sistematicamente di aprire inutili polemiche con le opinioni di altri e di riferire dati già noti proprio per evitare fraintendimenti futuri.
Comunque il capitolo ha un vaso comunicante che lo collega alla voce Filosofia nel Quaderno interdisciplinare e questo mi permette di chiarire quali sono le idee delle quali mi assumo la responsabilità e quali sono invece le opinioni di altri che ho studiato e discusso, ma non necessariamente accolto.
A differenza però di ogni altro capitolo di Principi, in Pensiero poetante riporto anche le opinioni di studiosi come Ragghianti, Zeri e Assunto che ritengo poco note se non addirittura quasi sconosciute perché questo è lo spazio adatto a riconoscere i miei debiti verso questi geniali pensatori.
Ho concluso un lungo lavoro sulla Street art. Nonostante i lavori di SA siano quasi tutti orribili e nel migliore dei casi appena tollerabili, questo fenomeno si sta configurando ormai come arte popolare contemporanea e mostra tutte le giunture e le articolazioni che hanno sempre regolato gli sfumati passaggi territoriali che si estendono tra l’arte popolare subalterna e il sistema dell’arte dominante.
Il ritorno della figurazione tradizionale
Studiando in questi anni la pittura di Bacon, Freud, Kiefer e Kentridge nella prospettiva di un esplicito ritorno alla figurazione ho scoperto che il legame con le forme del passato raggiunge in questi autori un livello assolutamente straordinario e quasi ipnotico: Goya, Corinth, Courbet, Piranesi.
Dopo la scheda su Freud e Corinth ho redatto una analoga scheda su Kiefer e Courbet prima di leggere libri o interviste con questi pittori per non esserne influenzato. I confronti che ho stabilito tra le Marine di Courbet dipinte attorno al 1865 e le opere di Kiefer lasciano senza fiato. E incredibile è la coincidenza del dipinto di K con l’uomo disteso sotto il cielo stellato e la fotografia notturna (celestografia) realizzata da Strindberg a fine Ottocento, perché i due artisti pensavano allo stesso modo all’alchimia come matrice della loro opera.
Non ci sono dubbi poi sul fatto che le opere di Friedrich abbiano suggerito esplicitamente a K la struttura: dal vuoto del monaco in riva al mare alle stesse chiese diroccate che devono aver suggerito a K le belle Torri del 2004 che vidi a Milano, alla Bicocca, nel 2006.
La matrice della grafia caratteristica di Kentridge è in Goya, come avevo già notato durante la visita sul Tevereal fregio, e poi ci sono il segno amaro di Piranesi, la grafica dell’espressionismo politico, e a tratti la pittura compendiaria. Una poetica della fragilità cartacea del segno. Le figure ritagliate e frenetiche che K utilizza per le sue animazioni e scenografie derivano dalle presenze umane sconvolte e dilavate di materia che in Piranesi si aggirano dentro e attorno alle rovine antiche.
Negli articoli su Kentridge del mio archivio trovo la conferma del suo interesse per Goya. Nei tanti articoli su Kiefer invece non c’è nessuna notazione critica sul suo lavoro, tanto meno riferimenti a Courbet; c’è tanta retorica sterile sul mondo da educare (?) e sulla sua missione di artista universale, scemenze che non hanno nessun legame con la realtà, assai più modesta, del suo seduttivo lavoro di pittore emulo (ipnotizzato) di Courbet.
Durante il tramonto e l’agonia del concettuale la tradizione figurativa riemerge con prepotenza ponendo però un quesito: questa stretta aderenza ai modelli segna il limite del recupero figurativo? Me lo chiedo perché i pittori del ritorno alla figurazione sembrano incapaci di vivere la creatività se non come impliciti imitatori di modelli importanti, e questo non avviene volontariamente, non si tratta di citazioni, ma di imitazione letterale drasticamente estesa a tutta l’attività.
Nei testi critici che li riguardano d’altronde non c’è nessuna traccia di questo incredibile e visibilissimo fenomeno di ripetizione, a parte delle minime e irrilevanti annotazioni occasionali che comunque eludono il problema invece di affrontarlo. Non ci sono dubbi, c’è una vera e propria congiura del silenzio su questo imbarazzante fenomeno.
Siamo in una fase nella quale l’agonia del tardo concettuale non è affatto ammessa e riconosciuta come tale, ci pensano l’ipocrisia e la miopia della critica legata al mercato a sostenere queste forme ormai fatiscenti, e l’avvento dei nuovi figurativi è esentato da una doverosa opera di ridimensionamento che si rende più che mai necessaria per una corretta comprensione del fenomeno in corso.
Resta da vedere se l’esito di questa situazione di stallo potrà essere quello di una diversa importanza dell’esteticità diffusa, come farebbe pensare l’attenzione abnorme che c’è per la Street art, per la graphic novel, per l’utilizzo parossistico delle immagini fotografiche spontanee nei social mediato dall’uso intensivo dei cellulari, del cinema, della narrativa poliziesca e della musica che ibrida le forme accademiche con quelle del jazz, a parte la presenza ineludibile e sempre più diffusa del Rock.
A quanto pare, l’ho annotato più volte, é in atto una vasta e irrefrenabile estensione popolare delle forme più divulgative e facilmente ripetibili capaci di creare un potente, inedito esperanto universale, e una volta consumata l’agonia del concettuale e forse anche questa fase problematica di ripresa figurativa forse si imporrà una diversa estetica di questo infestante linguaggio popolare.
Ed è necessario e doveroso resistere alla facile tentazione di trovare fastidiosa e greve, irritante, questa nuova estetica emergente, perché il compito della critica è quello di capire e decifrare e non di condannare e biasimare.
E’ per questo motivo che ho redatto la mia versione critica della morfologia della Street art, del Fumetto e dell’Illustrazione, forme che sono destinate ad una crescita enorme, da capire e studiare in tempo e con grande attenzione.
D’altra parte negli anni ’60-’70 mi sono imposto di studiare la tediosa musica elettronica, la penosa computer art, tanta brutta architettura, la pittura di Guttuso, solamente per il dovere della conoscenza. Non ho mai evitato lo studio di forme fastidiose e sgradevoli, mi sono occupato perfino dell’odiosa arte delle dittature, documentata nel mio archivio e nella mia biblioteca.
Mi chiedo solamente se e come resterà nell’eterno presente uno spazio, fosse anche ridotto, per la qualità contrapposta a quello che appare come futuro dominio della quantità, anche se c’è un fenomeno che si rigenera in continuazione: una forma creativa viva riesce sempre a farsi largo, e su questo non c’è dubbio, lo sta dimostrando magnificamente la migliore narrativa.
La dorsale di Pensiero poetante è ormai definitivamente quella di un eterno presente che vanifica l’ossessiva presunzione manieristica di superare il passato e di innovare continuamente le forme.
La lettura cronologica, con i suoi scalini improvvisi, mostra la radice di quasi tutte le idee creative del Novecento e fissa dei punti intermedi concettuali che lasciano trasparire chiaramente gli snodi risolutivi tra una creatività necessaria e autentica e una maniera deformante e retorica. L’idea che il Novecento sia stato il secolo della spinta liberatrice verso forme nuove qui viene completamente cancellata a favore di una disseminazione nei secoli precedenti di straordinarie creazioni formali che il Novecento ha invece sminuito proprio nella ripetizione enfatica e nella ripetizione manieristica dei segni.
PP si colloca al centro del libro come una radura dalla quale è possibile cogliere la simultaneità dei percorsi che si estendono verso il futuro e verso il passato.
Ho dato una sistemazione definitiva alle mie tante attribuzioni, riscrivendo e stampando tutto per Il Quaderno I in P. E’ molto piacevole rileggerle e rivederle nel loro insieme organico, mi sembra che ci sia un’accettabile e soddisfacente coerenza metodologica.
Chissà se avrò mai la conferma delle mie attribuzioni e delle mie confutazioni più temerarie:
Il Maestro del Monumento Grifoni, Amadeo e il Maestro dei rilievi neotestamentari, Arpa Barberini, Santafede, il Pantocratore di PV, Salai, Cantarini, la Croce di Borbona e il patrimonio di B, il Bronzo di Lucca, Cariani, Cavallini, Caracciolo, Guerrieri, il Tavolo Righi, gli affreschi medioevali di Marcellina, la Dama attribuita a Leonardo, Spadarino, gli affreschi in S Angelo in Asprano, Tournier, la panoplia di armi turca di Berlino, Cappelli, Calepodio, i Maestri di Nepi, il Sito anatolico.
Tra gli altri, il testo su Spadarino mi sembra che possa essere considerato un esempio dignitoso di lettura sincronica tra forma e contenuto.
69 anni tra qualche giorno (1.12). Il libro è quasi tutto concluso, se dovessi pubblicarlo oggi ne sarei più che soddisfatto; il tanto lavoro di scrittura e riflessione svolto in questi ultimi mesi per il QI lo ha rafforzato, apportando idee nuove e altre analisi accurate.
Adesso, se guardo indietro, vedo un percorso che non ha mai ceduto niente alla violenza corporativa del mercato e all’assurdità degli stereotipi. Ho pagato di persona, lo attesta la profonda solitudine nella quale vivo oggi, ma ne è valsa la pena, diversamente non sarei stato degno dei miei principi dell’esilio.
Napoli. Visita emozionante alla biblioteca di Croce che desideravo vedere da tanto tempo.
2017
Il manierismo novecentesco
I tasselli del mosaico di idee che ho composto in Pensiero poetante si sono ormai consolidati in un insieme accettabile che è definitivamente maturato rispetto a quanto ho scritto a suo tempo nel 2013. Adesso il capitolo documenta con serenità il fenomeno macroscopico del manierismo novecentesco, dislocando nel tempo, nell’eterno presente, non nel passato, le forme e i pensieri che questo manierismo ha dragato senza ritegno e alterato.
Risulta chiaramente la diversa matrice filosofica dei singoli autori, e questo permette di chiarire cosa resta ancora oggi di autentico e legato a fenomeni che esulano dalla maniera accademica novecentesca, come è il caso di Beuys, che io collego a De Martino e alla sua indagine antropologica.
Risulta poi chiaramente la frequenza sorprendente dei casi di ottusità e di cecità che i filosofi hanno mostrano verso le opere d’arte troppo vicine al loro stesso pensiero, un fenomeno che forse non è stato mai indagato così apertamente.
Questo capitolo piacerà ancora meno di tutto il resto.
Continua il dominio incontrastato dell’idiozia delle due culture, bassa e alta, che avrebbero trovato una forma di osmosi (?).
In un articolo dedicato alla serie popolare di H. Potter ci si chiede se centinaia di milioni di lettori in tutto il mondo possano sbagliare a leggere con piacere questi romanzi; è come chiedere se miliardi di persone sbagliano a usare le automobili o i cellulari: se un prodotto commerciale viene costruito con lo scopo esplicito di adeguarsi ad una richiesta concreta, in questo caso di gradevole e inoffensivo intrattenimento venato di fascinoso e anacronistico neoromanticismo gotico, è del tutto naturale che questo prodotto sia venduto come bene di consumo, qui non si tratta di capire se le folle che leggono P sbaglino, in cosa dovrebbero sbagliare, nel confondere HP con Delitto e Castigo?
Un altro commentatore, altrove, afferma che finalmente possiamo godere della cultura nel suo insieme dato che questa, la cultura, non è più ne alta ne bassa (?).
Bene, le cose di cui potremmo finalmente godere sarebbero, secondo lui, quelle che facevano inorridire, scrive, le ‘elite degli intellettuali’: musica demenziale realizzata quasi esclusivamente in studio con mezzi artificiali; fumetti pieni di stereotipi ridicoli; narrativa demenziale con storie d’amore insensate e patetiche storie poliziesche; canzoni costruite demagogicamente con lo scopo esplicito di riempire il conto in banca; cinema con effetti digitali grotteschi; televisione con giochi a quiz, litigi precostruiti, lacrime finte, telegiornali falsificati dalla scelta arbitraria delle notizie e colpevole cassa di risonanza del terrorismo.
Sarebbero queste le cose della cultura bassa che facevano inorridire le presunte elite di intellettuali? Questi prodotti ridicoli progettati a tavolino della cultura egemone rivolti a una infestate e redditizia diffusione commerciale?
E la cultura alta quale sarebbe, quella (arrogante?) formata dalla musica di Schumann e di Webern, dalla poesia di Rosselli e dai romanzi di DeLillo?
È davvero così difficile capire la distinzione che c’è tra la generosa e faticosa, rarefatta ricerca di antidoti al dolore, che non ha quasi mai fruttato niente agli autori più coraggiosi se non isolamento e sofferenza, e la macroscopica produzione mercantile di facili e appetibili soluzioni creative in grado di soddisfare le fisiologiche necessità basilari che consistono nel disporre agevolmente di forme pienamente riproducibili in serie e condivisibili anche se adeguatamente cauterizzate ed esentate da ogni minima sollecitazione perturbante della sensibilità?
Il problema dell’unificazione della presunta cultura alta con la presunta cultura bassa è un’invenzione, scarsamente etica, che serve alla cultura egemone, quella che pubblica i libri più epidermici con tirature abnormi per neutralizzare l’unico acido corrosivo che la può intaccare, la libertà legata alla sensibilità individuale.
Mi conforta trovare in un testo di Croce l’invito sereno a non dare troppa importanza alle opinioni degli altri.
Scrive C nel n.36 de La Critica (1938), recensendo la terza edizione di Saper vedere di Marangoni:
‘Marangoni farebbe bene a temperare l’indignatio che troppo vi risuona per l’ottusità e i fraintendimenti frequenti in fatto di arte, e che lo porta ad esagerazioni ( ) si dà troppa ambascia pel cosiddetto ‘pubblico’, cioè per ‘la gente che pensa ad altro’ e vorrebbe che essa sentisse e intendesse l’arte’.
12. 2017. Da oggi Principi dell’esilio è gratuitamente in rete. Questa è l’unica forma di edizione che io possa accettare e considerare coerente con tutto quello che ho fatto finora.
2018
Annoterò qui, nel Diario, tutti i cambiamenti che ci saranno nel testo in rete. Mancano ancora dei capitoli in Principi e le voci del Quaderno saranno sistematicamente aggiornate.