Arte popolare
A Livorno ho rivisto nel 1983 la collezione degli ex voto marinari di Montenero che conoscevo dall’infanzia; da ragazzo sono stato un anno a Montenero in una colonia estiva per bambini cinesi che studiavano la loro lingua per tornare in patria. Ho cominciato da lì, dagli ex voto, a capire l’arte popolare.
In una bellissima tavola di Chioggia ( ) sopravvive limpidamente lo stile plebeo più antico, nonostante il Settecento sia il secolo più coinvolto nella creazione sistematica di una fascia intermedia di pittori e scultori, quelli che io chiamo del medio professionismo, destinati a creare quella pseudo arte popolare, realizzata non dal ma per il popolo, che trae in inganno anche gli stessi studiosi del settore.
La grammatica di matrice neolitica è evidente: consapevole riduzione a icastici moduli elementari scanditi ritmicamente, allineamento in superficie dei contenuti, precarietà e sostanziale disinteresse per il ductus, che crea però il fascino involontario di quel mare impietrito come nei dipinti del Quattrocento senese.
Tutto in questa austera, consapevole linearità arcaica, dissente e prende le distanze dalle tantissime stampe che circolavano allora, perché lo scopo dell’arte popolare autentica è fissare i momenti astorici di un eterno presente delle forme, unica certezza di potersi affacciare all’orizzonte collettivo della presenza riscattando l’incertezza dell’Io individuale (cfr. De Martino).
In una tavola di Montenero (foto) si ripete lo stesso schema: ritmico allineamento in superficie dei moduli, qui in posa come per un ritratto di gruppo, e disinteresse per la verosimiglianza materica, dove il mare è plasmato con una consistenza pietrosa.
In una bella tavola canadese del Settecento (foto) si raccolgono tutti gli elementi formali della grammatica popolare:
osmosi incondizionata e non gerarchica tra testo scritto e immagine, negligenza plebea della forma, passionale caoticità vernacolare dell’impasto delle materie, riduzione delle icone a moduli riconoscibili anche nella loro sommarietà.
In due magnifici ex voto marinari dell’Ottocento ( ) invece si avverte, in uno, la sottile presenza dei modelli mediatori, con il disegno elegante della goletta e con la ricerca di freschi effetti naturalistici nelle onde ( ) e, nell’altro, la volontà di misurarsi con le stampe di marine con bufere e battaglie navali, con una limpida prospettiva che distanzia l’icona in alto e la città a destra mentre si impone la densità pittorica del primo piano.
Varianti progressive di una maniera popolare vernacolare che non può ostacolare l’ibridazione con le forme della cultura egemone.
La musica
Fu un’esperienza indimenticabile per me la musica popolare ascoltata da ragazzo a Canneto, nel Parco nazionale dell’Abruzzo, dove andavo in colonia. Lì, in occasione delle processioni devozionali che salivano lentamente dalla strada di montagna, ho avvertito per la prima volta la visceralità di una voce arcaica che salda l’infanzia al dolore del corpo, in una perturbante sovrimpressione, e lì ho capito il senso dell’uso perturbante della voce infantile praticato dalle donne anziane, analogo a quello della cornamusa, dove si saldano il dolore del parto e il vagito del neonato.
Le canzoni che ascoltavo dagli operai lavorando in cantiere (negli anni ’70) mi hanno ulteriormente educato all’ascolto della musica popolare, una struttura di continue, complesse sfumature, sfasate e sottili, sempre diverse, che ascoltavo quasi con stupore.
Trent’anni fa passava ancora in questo quartiere di periferia (Monte Sacro alto) un ombrellaio ambulante: c’era un’affascinante sopravvivenza arcaica nel suo canto melismatico artigianale, dove una lunga deformazione iniziale della o, preceduta e avviata da una e, disegnava una linea melismatica straordinaria.
Ricordo l’emergere improvviso e rivelatore di questo remoto canto perturbante dal brusìo dei rumori quotidiani.
2010
Nel 1974 fui spiacevolmente colpito dall’uso che Giovanna Marini faceva nei suoi concerti della voce nasale utilizzando un’assistente bambina e quel giorno capii la profonda mistificazione che è radicata nella celebrazione demagogica del canto popolare.
La cantante si sarebbe vergognata evidentemente a cantare con una forte inflessione nasale, che per la cultura egemone risulta ridicola e grottesca.
Dopo aver ascoltato alla radio le musiche originali napoletane de La Zeza, registrate in strada, nella preziosa rubrica Etnomusicologica di Carpitella, ho capito quanto fosse sottile e insidiosa l’inautenticità della Compagnia di Canto Popolare di De Simone, che all’inizio aveva entusiasmato anche me.
Apparentemente funzionava tutto, nella sincera e colta ricostruzione filologica della Compagnia, però c’era una cosa che loro non potevano capire e quindi neanche imitare, il perturbante sfasamento popolare, una materia allentata e divagante, negligente, che in profondità denuncia anche in qualche modo l’arroganza e la violenza presente nel mondo popolare, ed è questo che i colonizzatori intrisi della demagogia populista della cultura egemone non possono capire e accettare, la violenza annidata nel mondo rurale che dà un sapore inimitabile all’arte popolare autentica.
2009. In un concerto a Palazzo Venezia il gruppo strumentale Officina musicale diretto da Orazio Tuccella eseguiva musiche Klezmer ebraiche. Avevo appena ascoltato dei brani magnifici (su Youtube) eseguiti da esecutori popolari, con forme meravigliosamente negligenti che risplendono in una loro esagitata e disarmonica frenesia, nella collisione aggressiva di forme frammentarie abbandonate al nomadismo della deriva, nella natura forse di quel linguaggio Yiddish descritto da Kafka.
Ebbene, nei brani seducenti ma addomesticati del gruppo OM quella frenesia angosciata, quel divertimento turbato e malato, non esistevano più, tutto era filtrato e cauterizzato dalla memoria di Stravinskij e di Bartok, ripercorrendo a ritroso la scoperta emozionata del folclore popolare che fu vissuta da quegli autori nell’atmosfera culturale giustificata e quasi pianificata dal Blaue Reiter del 1910-1911. Durante il concerto mi addormentai (mi è successo solamente in un concerto Rock al quale ero stato portato quasi di prepotenza).
Risposte diverse a domande diverse
Nel contesto dell’arte popolare ci sono risposte diverse a domande diverse, non è quindi proponibile una demagogica e demenziale uniformità tra le inesistenti arti maggiori e minori.
La peggiore corrosione dell’autenticità popolare è quella creata nella fascia culturale dell’insidiosa trascrizione imitativa.
Ascoltando Etnomusicologica di Carpitella alla radio mi resi conto di quanto gli Inti illimani avessero cancellato I Campesinos, i Beatles la canzone cinquecentesca inglese, Baez il canto Navajos, Ravi Shankar la musica indiana autentica, la Compagnia di canto popolare la Zeza, che fortunatamente potevo ascoltare nelle registrazioni originali trasmesse da Carpitella, Giovanna Marini la vera musica popolare italiana.
Oggi (2011) questa demenziale corrosione continua con l’orrida Taranta, proprio mentre (2005) un libro magnifico, che mi ha segnalato MA dopo un suo viaggio nel Salento, documenta con un CD la vera, sconvolgente pizzica tarantata di Carpitella e De Martino.
La stratificazione stilistica sempre presente nel mondo popolare prevede una terra di confine, uno spazio creativo suddiviso tra artisti locali e professionisti medi, in un diffuso, inavvertito progetto collettivo che plasma il tessuto connettivo che si estende tra la sensibilità arcaica popolare e le forme intermedie della cultura egemone.
C’è sempre stata quindi un’arte creata appositamente dalla cultura egemone per essere innestata nella cultura popolare, una variante interessante è quella dei fumetti (v Arte dei non professionisti).
Oggi la televisione e il racconto popolare (il cinema narrativo, i romanzi descrittivi, i serial televisivi), sono le forme specifiche dell’arte popolare novecentesca adeguate alle condizioni attuali, che nonostante le apparenze non hanno cambiato niente della struttura profonda che lega la cultura egemone alla cultura subalterna. Sono forme che derivano dal romanzo a dispense dell’Ottocento, dal teatro popolare e dalle improvvisazioni cerimoniali, con una struttura rigida e radicalmente fossilizzata che eredita la durezza dell’arte popolare del passato, un materiale devitalizzato che può essere rianimato solamente dalla più ossessiva ripetizione.
E questa forma di arte popolare è una verifica della capacità della cultura egemone di liberarsi delle sue scorie culturali adeguandole alla cultura subalterna in forme che sono già pronte ad essere ulteriormente declinate in senso popolare, come accade con la canzone e con la riproposizione della cultura della condivisione di piazza in televisione.
Nell’almanacco de Il Cavaliere Azzurro, 1912, le tante illustrazioni dei dipinti su vetro bavaresi hanno forse permesso di riflettere diversamente sull’arte popolare, d’altra parte Gauguin aveva riprodotto insistentemente le forme popolari bretoni dei crocefissi, e forse sono queste le matrici radicali della sua semplificazione formale, non le sofisticate opere d’arte oceanica che lui sembra non aver mai osservato davvero.
L’arte popolare antica
Gli storici dell’arte sembrano quasi ignorare l’esistenza dell’arte popolare antica, come se l’AP fosse solo quella che conosciamo nella contemporaneità e dai libri di Toschi.
C’è invece uno sconfinato percorso che porta dall’arte popolare egizia, quella delle riduzioni plastiche in miniatura delle tombe, all’arte plebea romana, e più vastamente nel tempo dalla persistenza neolitica alle arti non occidentali, che mediano tra forme della cultura egemone e quelle della cultura subalterna in un registro di continue sovrapposizioni.
R. Bianchi Bandinelli, con L’arte romana nel centro del potere (1969) e con Roma. La fine dell’arte antica (1970) ha raccolto una magnifica materia di studio delle varianti plebee e provinciali delle forme greco romane, anche se poi la sua lettura di questo fenomeno linguistico è sempre stata frenata da una insensata identificazione del naturalismo con il pensiero più maturo e civile (?), un frutto deteriore del fanatismo ideologico che lo ha portato al deprimente e demagogico Organicità e astrazione del 1956 di cui poi, a quanto pare, almeno in parte si è pentìto.
Per la morfogenesi dell’AP è illuminante l’esempio offerto della musica e degli strumenti musicali.
Le forme medioevali legate al canto nasale, equivalente alle sonorità degli strumenti ad ancia doppia, sono state soppresse dalla cultura rinascimentale che le ha sostituite con il canto di testa e con le sonorità depurate dalla memoria della visceralità arcaica.
Gli studiosi francesi di musica medioevale hanno dovuto riscoprire a suo tempo quelle forme cancellate e sopravvissute nel deposito rurale delle campagne.
Studiando la lastra erratica di Borbona, che ho datato alla fine del XII sec, ho esemplificato, spero con chiarezza, il percorso che porta dalle forme longobarde più antiche, memori della persistenza neolitica, alle varianti medioevali che portano all’eclettismo europeo del XII secolo, fino ad arrivare alla declinazione ormai popolare di quelle varianti.
La lastra infatti ripete i modelli romanici in moduli di incongrua abbreviazione popolare e con un anacronismo che è giustificato dalle necessità locali, la memoria longobarda del ducato di Spoleto, ottenendo la conservazione astorica dello stile delle opere volute dal vescovo Dodone di Rieti; e la lastra dialoga, come forma popolare anacronistica materiata di tradizione romanica, con la raffinata coperta argentea del Laterano, che invece capta naturalmente le forme più evolute del linguaggio della cultura egemone, quelle che tra i due secoli sono plasmate dalla potente innovazione mosana e in Italia da Antelami e altri.
La visita al Museo civico medioevale di Bologna mi ha chiarito a suo tempo questo processo di separazione medioevale tra cultura egemone e cultura subalterna. Le anacronistiche croci stradali mantengono in vita le forme altomedioevali per rendere familiare il percorso ai pellegrini che poi, all’interno del santuario, trovano invece le forme volutamente ermetiche della cultura egemone, come le urne smaltate di de Verdun, con le quali si impone il culto della diversità oscura e sfuggente del numinoso.
1967. L. Ragghianti, L’arte in Italia, vol. II: lo studio accurato e sottile che R ha fatto della scultura altomedioevale ha riscattato le forme plastiche dall’apparenza decorativa e anacronistica collocandole intelligentemente in un contesto di motivate declinazioni linguistiche.
Il suo libro è uno strumento insostituibile per lo studio della realtà profonda dell’arte popolare antica, soprattutto per la graduale trasmissione della persistenza neolitica attraverso il denso tessuto eclettico delle varianti stilistiche tardo antiche e medioevali, laddove il retaggio della memoria arcaica si ibrida con i segni celtici provenienti da nord, copti dal sud e centro europei della cultura illirica e longobarda.
Con Ragghianti è possibile capire come delle forme che oggi appaiono tipicamente popolari potessero essere invece attorno al IX secolo i segni della cultura egemone, forme che dopo aver costituito la nervatura della cultura eclettica del sincretismo altomedioevale sono state progressivamente sostituite e scalzate dalle forme romaniche che operano contro quell’eclettismo; e infatti le decorazioni complesse del IX secolo sono state frantumate e disperse in asettiche lastre erratiche.
Le opere
La Cassa di Terracina (sec. X), scoperta nel 1889 nella sacrestia del duomo, era stata usata come contenitore di legna perché creduta un’opera di arte popolare.
Le austere testate di travi dei depositi del museo di PV furono datate a suo tempo ai sec.XII-XIII, ma sono forse invece arte popolare quattrocentesca; mi fanno pensare al forte gusto popolare che plasma la Croce di Labro, di fine Quattrocento, che era stata sollecitata proprio dal più aristocratico e distaccato degli orefici reatini, Gallina, evidentemente con lo scopo di separare nettamente le forme eleganti del centro da quelle rurali e tendenzialmente neomedioevali della periferia.
Mamutones. In Bell’Europa (novembre 1993) un saggio su Urnasch, cantone svizzero, mostra il rito di Gennaio con i laids (i brutti) e i beaux (i belli) che prevede dei grandi campanacci da indossare analoghi a quelli dei Mamutones.
In Bell’Italia (marzo 1990) c’è un saggio sui mamutones, dove gli issocadore catturano con un laccio i passanti.
2005. All’origine dello stile popolare di Dionisio Cappelli. Il ruolo delle xilografie tedesche, Fidelis Amatrix n. 12.
Con questo articolo ho cercato di esemplificare una fase cruciale della sedimentazione della cultura popolare moderna. Le xilografie tedesche attorno al 1490 diffondono e alimentano, parallelamente alla stampa di Gutenberg, uno stile tendenzialmente popolare, riproducibile per moduli grafici standard, un congegno figurativo che eredita e ingloba gradualmente la corrente plebea sotterranea che va dal mondo romano al medioevo.
2010. Ho finalmente visitato il piccolo Museo degli ex voto di Viterbo. Magnifici quelli del 1500 e 1600.
Il grande catalogo che ebbi in dono da A.LB. è oggi un libro raro e introvabile; in questo volume, Gli Ex Voto del Santuario della Madonna della Quercia di Viterbo (A.Carosi e G.Ciprini, Carivit spa, Viterbo, 1992), accanto alla pubblicazione degli ex voto viterbesi più antichi, dal 1400 al 1700, c’è l’impressionante raccolta di acquarelli del ‘Libro dei miracoli’(1619-1624) che riproduce le scomparse statue in cera del santuario. Una nota sottolinea, con la sterile puntualizzazione che si riserva sempre agli artisti autenticamente popolari, il ‘modesto valore’ del ‘dipintore’ locale Vincenzo Panicate, che nelle sue drammatiche figure monumentali mostra invece lo stesso fascinoso tratto fluido e sconnesso dei pittori di ceramica dell’epoca. Questo illustratore si colloca tra la descrittiva e fredda stampa popolare del 1606 con Il Paese della Cuccagna (Cfr. Paolo Toschi, Arte popolare italiana, 1960) e le fresche immagini di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718), che è invece un medio professionista settecentesco radicato nel territorio e nella cultura popolare.
2011. Il mio contributo a I pittori reatini di G. Grumo, definito innovativo per gli studi del territorio, è stato dedicato soprattutto al fenomeno del rapporto tra la pittura popolare e i modelli provenienti dalla cultura egemone. Ho individuato, per il libro, il rapporto rivelatore che un dipinto schiettamente popolare laziale mostra con gli incredibili affreschi tardo cinquecenteschi di ss. Nereo e Achilleo nei quali sul ceppo della professionalità media cinquecentesca si innesta una declinazione grammaticale delle forme che le riduce a uno schema elementare, ed è questo che oggi riconosciamo come arte popolare, soprattutto negli ex voto affrescati come quelli amatriciani di metà Cinquecento. C’è quindi una professionalità media che alimenta indirettamente una professionalità artigianale locale travasandovi i modelli che nel frattempo sono stati declinati e semplificati.
2011. Pinacoteca provinciale di Bari, Giovani Maria Scupula (Otranto, 1 metà sec XVI), Storie di cristo e della vergine, tavola; nel catalogo del museo (C. Gelao, 2008) non si allude neanche al fenomeno della pittura popolare mediata da questa interessante produzione adriatica.
2014. In occasione della mostra romana su Kahlo si perpetua l’equivoco della pittura popolare confusa con la pittura coloniale dell’America centrale e meridionale.
La brutta pittura di K non mostra un generico riferimento ad una indefinita arte popolare né tanto meno a un improbabile surrealismo, K aveva negli occhi evidentemente la fascinosa pittura coloniale di matrice secentesca, segno della forte presenza dei gesuiti in Centro e Sud America, una pittura visionaria e ricca di suggestioni simboliche che di surrealista non ha assolutamente niente. La stessa materia autobiografica della pittura di K, la reiterata figura di donna martirizzata dal dolore (i chiodi infissi nel corpo come le sette spade nel cuore della Madonna), mostra un legame intenso con la pittura devozionale legata al culto ossessivo della M.
2014. Nel paesino di Monterosso al mare, nelle Cinque terre, dove siamo arrivati in nave da La Spezia, c’è un oratorio della Confraternita della morte con un coro ligneo secentesco conservato perfettamente che mostra le forme intagliate di un artista locale permeato di vigorosa cultura popolare, dove le affascinanti teste funerarie coincidono con le più inquietanti maschere popolari, e ho pensato subito al Toschi de Le origini del teatro popolare.
Vasi comunicanti: cerco in P la matrice profonda dell’arte popolare in Esteticità diffusa, in Televisione, in Persistenza neolitica e nel capitolo sui Fumetti.
2012
Libri
1929, Achille Bertarelli, Le stampe popolari italiane, ed. del 1974 aggiornata a cura di Clelia Alberici.
1955. Paolo Toschi, Le origini del teatro italiano, Uno dei primi libri che ho letto sulla cultura popolare.
1958. Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale, dal lamento funebre antico al pianto di Maria.
1960. Paolo Toschi, Arte popolare italiana.
1961. Ernesto De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, (ultima ristampa 2002).
E’ stato tra i libri più importanti per me (1972), una scrittura sempre generosamente aperta alla comprensione, la lucidità dell’intelligenza coniugata alla passione più intensa e all’umiltà di fronte ai tristi tropici del sud Italia. In quegli anni, dopo avere già assaporato la limpidezza logica di Croce, apprezzai la chiarezza delle definizioni concettuali di De Martino, che mi ha condizionato positivamente, forse più di ogni altra cosa. Ero abituato, come tutti, alla limitata riflessione etnografica sul mondo popolare, ma con De Martino quel mondo si arricchiva di un vastissimo contesto culturale, il retroterra storico e letterario del territorio, psicologico, il rapporto tra inconscio individuale e azione collettiva, e filosofico, il riconoscersi dell’Io nell’orizzonte della presenza.
1967. P. Toschi, Il folklore (TCI).
1971. Paolo Toschi, Renato Penna, Le tavolette votive della Madonna dell’Arco, Di Mauro Editore, napoli.
1980. Enrico Guidoni, L’architettura popolare italiana.
1981. AA.VV. Campagna e industria. I segni del lavoro, TCI. Magnifica la foto del torchio monumentale a Trento. v Archeologia rurale.
1992. A.Carosi, G. Ciprini, Gli Ex Voto del Santuario della Madonna della Quercia di Viterbo.
2000. Stefania Massari, Museo Nazionale delle arti e tradizioni popolari. Piacevolissima pubblicazione, utilmente divisa per schede, che rispecchia l’arioso assetto attuale del museo romano.
2005. Diego Carpitella ed Ernesto de Martino, Musiche tradizionali del Salento, registrazioni del 1959-1960, a cura di Maurizio Agamennone, Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Archivi di Etnomusicologia. Fondamentale per capire non solo la musica popolare, ma tutta la cultura subalterna nella sua interezza. Su YouTube è visibile il documentario realizzato da DC e EDM all’epoca. Diego Carpitella era il curatore alla radio, negli anni ’70, di Etnomusicologica, una programma interamente dedicato alla musica popolare ed extra europea. Era possibile ascoltare la musica più autentica, per me fu la migliore e più vasta esperienza sulla musica popolare ed etnografica che potessi fare.
2012. D. Carpitella, P. Sassu, L. Sole, Musica sarda. Canti e danze popolari, 1973, ristampa con cd (2010). Un lavoro burocratico davvero deludente. Una breve nota finale liquida i mamuthones con poche insignificanti righe che oltre tutto si concludono con una affermazione grottesca: ‘questa tradizione viene comunemente considerata relitto di arcaici riti agrari’. Semmai funerari, dato che le maschere nere e il suono delle ossa, delle campane appese al corpo, prefigurano evidentemente un corteo di morti che vengono a tormentare i vivi che gli assistenti dei mamuthones prendono al laccio.