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Quante ombrose dimore hai già sfiorato, anima mia, senza trovare asilo: dal sogno rifluivi alla memoria, da memoria tornavi a essere un sogno, per via ti sorprendeva la bufera
(M. Luzi)
Livorno, primi anni ’60, foto dell’autore
A Livorno arrivavo alla grande terrazza che si affaccia sul mare per guardare la nave spaccata, un peschereccio spezzato in due contro gli scogli, una ferita mai rimarginata di quella città come lo erano le macerie del bombardamento allora ancora visibili.
Ferite, altre ferite. Durante un’estate di quell’adolescenza umile, in colonia in uno dei tristi paesi di campagna, lo vidi: era legato nudo ad un paletto al centro di un piccolo cortile sporco, aveva dieci anni come me. Rideva senza suono, circondato dalle voci dei suoi coetanei liberi e vestiti, il piccolo folle di Abdera che rideva del mondo. E così finiva troppo presto il mio patto di alleanza, e nell’anima si apriva un sentiero senza fine, un esilio senza fine.
Il dolore ti spinge avanti, spinge a cercare il dolore di altri uguale al tuo, e speri che quel dolore sia già trasformato in energia creativa, trasmutato in poesia e in arte, in musica, idee, un dolore che si trasmuta nell’irragionevole felicità che porta il cuore nella fiamma viva.
Vasi comunicanti. Da adolescente ti guardi attorno con uno sgomento misto all’entusiasmo e ti accorgi di un sistema di vasi comunicanti che ti unisce a tanti altri come te, disseminati nel tempo ma ancora vivi poiché ne senti chiaramente la voce. E’ allora che cerchi con emozione le tracce di questo legame a distanza e accetti la sfida posta della decifrazione di quei segni disgregati e insegretiti, trovando il coraggio di spingerti il più lontano possibile pur di riconoscerti all’interno di una grande diaspora di prìncipi dell’esilio. Così anche un libro, se è la voce di un amico remoto, può essere un labirinto nel quale accetti di smarrirti.
Avevo imparato l’arte dai sogni, gli incubi infantili erano già pieni delle forme che dopo avrei scoperto nell’arte. In uno di quegli incubi un cane grottesco, orrido nelle forme dell’illustrazione popolare, mi impediva di passare per una piccola strada lastricata. Era il fo, il cane cinese guardiano dei templi, che avrei visto per la prima volta in un negozio di antiquariato.
In un altro incubo, atroce e magnifico, soffocavo schiacciato contro una parete di sabbia e fango, una superficie opprimente che veniva però attraversata in ogni direzione da lunghi graffi epidermici, da linee sottili che ne violavano l’opacità rendendola ambiguamente trasparente, e ciò che avvertivo compresso contro il viso, contro il corpo, era poi anche e diversamente dilatato in una dimensione illimitata nella quale sprofondavo. Quando vidi per la prima volta un dipinto materico di Fautrier, alla Galleria d’arte moderna, qualcuno che era lì con me notò la singolare simpatia che mi legava a quelle forme.
Ero impaziente, non badavo agli steccati che frenavano gli altri, e non accettavo di abitare definitivamente in nessun luogo particolare della cultura; dalla musica d’avanguardia tornavo, progredivo, a Debussy e a Mahler, fino alla più remota musica medioevale; Duchamp mi offriva la freschezza immaginativa necessaria per leggere senza pregiudizi anche un mobile antico o un argento.
Nessuna sfida della contemporaneità mi sembrava altrettanto ardua di quella lanciata dal grigiore delle abitudini mentali e dall’arroganza dello specialismo.
Ciò che desideravo veramente era il non avere familiarità con niente e stupore per ogni cosa.
Spesso ciò che agli altri appariva disarmonico e noioso aveva per me uno splendore accecante: potevano essere film sconosciuti come il Muriel di Resnais o brani musicali come il quintetto per fiati di Schoenberg e Cheap imitation per pianoforte di Cage.
Jackson Pollock, Occhi nel calore, 1946, Venezia, Guggenheim
Quando partivo da solo, in treno, le tappe del mio viaggio non erano quasi mai quelle degli altri. A Venezia andavo davanti a Occhi nel calore di Pollock, alla Guggenheim, o al negozio Olivetti di Scarpa; a Genova mi aggiravo nel cimitero ottocentesco di Staglieno o nel museo Chiossone di arte orientale; mi fermavo a Rovigo per cercare la pittura rara di Mazzoni e Maffei, a Bologna cercavo Crespi e Vitale. Il castello Ursino di Catania, di notte, ruotava avvitandosi nello spazio svuotato; un’estate a Villa Torlonia i dervisci ruotanti si muovevano dolcemente nella notte, fragili e antichi come una medusa luminosa trainata a fondo nel buio.
Arrivavo ogni volta a Rimini, al Tempio malatestiano, con lo stesso entusiasmo inebriante che provavo a Firenze, in S. Lorenzo, muovendomi attorno al pulpito di Donatello. Agli Uffizi cercavo avidamente Rosso fiorentino, gli arazzi di Salviati mi seducevano come poche altre cose.
A Roma in cima alle scale deserte del Collegio romano cominciavano i tetri corridoi del Pigorini, ed era bellissimo amare quelle cose anche prima della loro esposizione più ariosa negli spazi della nuova sede all’EUR. Nel groviglio anacronistico del Museo di Palazzo Venezia mi allenavo a decifrare lo stile dei bronzetti e degli arazzi, dei mobili.
All’Attico, a Qui arte contemporanea, alla Biennale, trovavo le opere di Kounellis e le forme liriche, leggerissime, di Mochetti; al Filmstudio trovavo tutto il cinema antico e l’avanguardia fino a Snow e Brakhage. Era possibile frequentare un’immensa palestra della sensibilità, nell’atmosfera di una continua sperimentazione critica.
Sperimentavo l’effetto rivelatore di una ricognizione critica sempre al limite del buon senso, cercando di ridisegnare sperimentalmente un’inedita e privatissima mappatura del territorio artistico fissando prima di tutto delle nicchie d’intensità interne ad ogni contesto formale.
In attesa di studiare la storia del mobile agganciavo la mia attenzione ad un’opera speciale, magari ad una straordinaria cassapanca di Ammannati che collocavo subito accanto al ponte di S.Trinita e ai volumi del Collegio romano, e creavo così nel tempo un museo ideale costituito da guglie estreme di qualità attorno alle quali idealmente potevo poi riannodare lo studio del contesto.
Era sempre come arrivare in una città sconosciuta, di notte, cogliendone il momento più autentico nella parzialità di una finestra illuminata per poi avere, la mattina dopo, un’intensa e intima sensazione di oscura familiarità.
Durante un concerto, o aprendo un libro di poesia, si può sconfinare dalla propria esistenza nella vita di altri per riconoscersi in opere che è possibile firmare come proprie. In quei momenti qualcosa di estraneo viene intimamente adottato e quasi trascritto, qualcosa che si comincia subito a difendere contro l’assedio dello scetticismo. Una familiarità struggente che si avverte improvvisamente per opere apparentemente estranee alla propria vita; una vicinanza intima, acuta, che ho provato restando da solo per la prima volta accanto alle urne cinerarie etrusche dei Musei Vaticani.
La musica di Schonberg è stata sempre per me una fonte continua di questa intimità quasi dolorosa. Durante un’esecuzione del Quintetto per fiati del 1923 l’insofferenza del pubblico per quell’astioso, impenetrabile cespuglio di rovi, così magnificamente indifferente verso ogni possibile riconoscibilità discorsiva, mi riguardava personalmente, mi emozionava il riconoscimento così esplicito dato da quel malumore collettivo.
In un’altra occasione Maurizio Pollini suonava i pezzi per pianoforte di Schonberg (1929-1932) e di Stockausen (1956): lo splendore dei Klavierstucke di Stockausen, con le lunghe pause di silenzio limitate dai cluster, dai violenti grappoli di suono che Pollini in maniche di camicia eseguiva poggiando l’avanbraccio sulla tastiera, provocava una scontata protesta dei conservatori e una altrettanto scontata ovazione da parte dei tanti giovani presenti, ma per me il momento dell’emozionante riconoscimento intimo c’era già stato immediatamente prima, con i Klavierstucke op.33a e 33b di Schonberg che non avevo mai sentito; non c’era un solo attimo in quella musica che non fosse materiato dello stesso amaro pudore e dello stesso inquietante non riconoscersi in nessun luogo che sentivo dentro di me tanto profondamente.
All’interno degli spettacoli teatrali di Perlini e Aglioti, alla Piramide, mi sentivo talmente immerso in uno spazio continuo di parola, gesto e oggetti, di rumore e di presenza fisica, in un ritmo astratto che disperde e decentra la connotazione propria di ogni elemento con una collisione estenuante e tenerissima, da provare quella stessa intensa e radicale adesione intima.
Dalla tediosa, solare positività di Jung risalivo all’intensità critica di Freud, dalla troppo facile divulgazione dello Zen mi avventuravo con più umiltà verso le terre di confine tra arte e filosofia.
In quegli anni di demagogia e di ipocrisia era inevitabile esasperare la propria individualità per guadare le tristi modalità dell’omologazione, e i pensieri di Nietzsche e di Bruno giustificavano in me il rifiuto della normalizzazione.
La mediocrità e l’ipocrisia, la violenza, dei miei coetanei, crearono in me il disgusto per il comportamento dell’omologazione.
La loro rabbia non era la mia rabbia, mi accorgevo con esagerata intensità dell’atmosfera ipnotica in cui tutto si muoveva; perfino la protesta, l’esibizione teatrale e spettacolare della protesta, mi appariva fossilizzata nella ripetizione ossessiva degli stereotipi più meschini. Niente sfuggiva ad un feroce rituale d’iniziazione tra giovani per il quale mi illudevo di trovare un potente antidoto nei libri di De Martino.
Mi era impossibile non accorgermi di quanto fosse ipocrita e falsificato il panorama della fruizione estetica. Gli Inti Illimani falsificavano i campesitos, Joan Baez la vocalità dei navajos, i Beatles il canto medioevale, Ravi Shankar la musica indiana, la Compagnia di canto popolare la musica napoletana autentica. La musica medioevale era già falsificata dalla stessa atmosfera di fragile, patetica mestizia con la quale veniva proposta all’ascolto in una triste museificazione.
La musica austera dei tibetani esuli in Svizzera, eseguita in uno spazio romano, sconcertava e involontariamente divertiva i giovani che si aspettavano qualcosa di più vicino alle ipocrisie orientaleggianti del rock.
Se per i miei coetanei queste forme costituivano un emozionante aggiornamento, per me era sufficiente ascoltare alla radio i programmi di Diego Carpitella per sentirmi defraudato di tanta autenticità in cambio di una seduttiva piacevolezza esteriore.
I canti processionali popolari, ascoltati a lungo nei paesi, evidentemente mi avevano immunizzato.
Ai miei occhi erano falsificazioni ingiustificabili anche il cinema di Bergman contro Drejer, di Bene contro Le sang d’un poete di Cocteau.
Quella radicale falsificazione aveva, ha, lo scopo di banalizzare le forme più inquietanti con una insidiosa azione corrosiva che non prevede tanto un’aperta contrapposizione quanto piuttosto la sovrimpressione e una graduale sostituzione; un’operazione sottile, protetta da una barriera resistente di scetticismo, che è quasi inutile e impopolare cercare di denunciare.
Se volevo davvero sentire una voce amica e autentica dovevo aprire Le illuminazioni di Rimbaud, i miei amici erano scomparsi da secoli e continuavano a parlarmi, ed era questo che mi permetteva di vincere lo sgomento. Mi aiutava a vivere poi, mi salvava, l’incontro precoce con i libri di Thoreau, Walden e i diari. Thoreau era il mio filosofo dell’insofferenza per i luoghi comuni, il primo nella mia vita di quei tanti amici generosi che non ti abbandonano mai, amici che ti cercano da lontano con le loro parole ovunque tu sia.
Le violente, tenerissime emozioni di quegli anni mi dimostravano che si vive arrischianti, che siamo arrischianti, come scrive Heidegger in Sentieri interrotti.
Dopo la lettura di Kafka e di Lorca, quello drammatico di Poeta a New York, ora volevo guardare la vita senza sgomento, come Pound aveva scritto per Joyce. Leggevo tutti i giorni Ulisse come se lo stessi riscrivendo, ne sentivo la voce viva, non avevo mai provato un’emozione così intensa.
Dentro Ulisse anche io volevo svegliarmi dall’incubo della storia, Joyce mi educava a pensare l’opera d’arte come una forma che può essere adottata per la propria vita e intanto mi educava anche ad amare l’opera creativa di altri provando gratitudine.
2001