Musica
Resta un’esperienza indimenticabile per me la musica popolare autentica ascoltata da ragazzo a Canneto, ai confini del Parco Nazionale abruzzese, dove ero in colonia.
La processione di donne saliva da una stretta strada di montagna fino al santuario cantando con una voce materiata da un doloroso e perturbante impasto di infanzia e di visceralità. Fu la mia scoperta della musica. Poi scoprii alla radio, nell’eccezionale Etnomusicologica di Diego Carpitella, le forme autentiche della musica registrata dal vivo in ogni parte del mondo. Un’emozione senza limiti, una scoperta continua.
Ho avuto la fortuna di vivere la generazione della radio (la televisione in b/n, nei primi anni ’60, la si andava a vedere al bar di sera) ascoltando per la prima volta Monteverdi, la musica medioevale, la musica orientale.
Andavo a prendere i dischi al Goethe Institut, dotato di un generoso servizio gratuito di prestito che sfruttavo intensivamente.
Poi la bella amicizia con il futuro direttore d’orchestra RM, durante il servizio militare (1969), ha contribuito alla mia conoscenza più approfondita della musica.
Nel 1994 c’erano le affascinanti lezioni pubbliche della domenica di Roman Vlad, che erano per me l’equivalente dei testi critici di Bruno Zevi, che un giorno era occasionalmente seduto proprio accanto a me durante una di quelle gradevolissime lezioni domenicali. In uno di quegli incontri Vlad commentava dei brani di musica romantica tenendo nel leggìo del pianoforte un libro aperto di Goethe al posto dello spartito.
Un modello eccellente di piacevole divulgazione della musica è quello offerto dalle interviste che Vlad ha pubblicato a suo tempo, con altri autori, negli inserti del 1987 de La Repubblica (Il romanzo della Musica).
Prendete nota è stata, dal 2009 al 2015, una piacevolissima e intelligente rubrica tenuta da Claudio Strinati, uno dei pochi storici dell’arte che conoscono bene la Musica, su Il Venerdi de La Repubblica. S, Come Gentilucci, ha dimostrato come si possa parlare di musica senza ricorrere ai termini tecnici e guardando al contesto culturale più aperto.
Oggi i Concerti domenicali del Quirinale sono una preziosa opportunità, soprattutto per la conoscenza di giovani esecutori di talento:
2013. Leila Shirvani, anglo persiana nata a Roma (ventun anni, 1992), è una straordianria solista di violoncello: Berio, Le mot sono allés, 1976, il brano più intenso.
2015. Intenso e assorto il giovanissimo Luca Colardo (1990), violoncello: Sonata per violoncello e pianoforte di Debussy.
Il Quartetto Cremona, con l’intelligente e sensibile Gloria Campaner (1986) al pnf: Webern, Quartetto del 1905, e Schumann, Quintetto del 1842.
2017. Eccezionale interpretazione della ventenne violoncellista Ludovica Rana: Sonata per violoncello e pnf n. I op 38 di Brahms e Sonata per violoncello e pnf, op 119 di Prokof’ev: estrema sensibilità nel capire l’emozionante scabrosità in Brahms, con una percezione davvero straordinaria del contrasto tra l’ombra opaca del registro basso e la luminosità del registro acuto. R sa passare con grande intelligenza (senza spartito) dall’implosione dolorosa di Brahms all’eclettismo ibrido di Prokof’ev. Un concerto magnifico.
I libri
Armando Gentilucci, Guida all’ascolto della musica contemporanea. Dalle prime avanguardie alla nuova musica (1969-1973). Un modello unico di intelligente lettura formale applicata alla musica contemporanea.
Luigi Rognoni, Fenomenologia della musica radicale. 1966-1974. Uno dei primi incontri con la riflessione filosofica coniugata alla musica. Bellissimo di Rognoni anche il suo libro su Rossini (1956-1968), soprattutto per la fase tarda di R come modello per Satie, e La scuola musicale di Vienna (1966-1974).
John Cage. Per gli uccelli, conversazioni con Daniel Charles, 1976 (it. 1977). Uno dei libri più intensi e pieni di serena intelligenza che io abbia letto sulla musica contemporanea e sulla creatività in generale. E’ significativo che l’opera forse più autentica di Cage, Cheap imitation per pianoforte, una delicatissima e intelligente rivisitazione del Socrate di Satie, sia dello stesso anno di questo bellissimo libro, 1976.
L’America musicale di Charles Ives (1974) è uno studio di Gianfranco Vinay dedicato a questo musicista trascendentalista ammiratore di Thoreau.
Le opere
Nel 1975, al Teatro Olimpico di Roma, c’erano i monaci esuli del Tibet provenienti dall’India del nord. Prima si diffondeva a lungo la sorda opacità delle voci, poi, alla fine, subentrava sconvolgente la luminosità accecante degli strumenti (v Pagine).
Negli anni ’70 ho ascoltato per la prima volta la musica di Schonberg in un concerto di Maurizio Pollini, che in quella occasione eseguiva anche un brano di Stockhausen e le sconvolgenti Variazioni Diabelli di Beethoven: erano i Klavierstucke op.33a e 33b di Schonberg, che non avevo mai sentito (v Pagine). Fu una scoperta straordinaria, scoprii che la musica può liberare uno spazio mentale nel quale si è liberi da tutto ciò che è inutilmente descrittivo; quella musica si apriva nello spazio impedendo la messa a fuoco di ogni forma esteriore riconoscibile e denudava la pura struttura interna che è possibile liberare e coltivare. Quei brani di Schonberg per pianoforte erano il calco vivo di una inedita libertà interiore. Ascoltai Pollini in uno stato di estrema concentrazione, all’uscita dovetti sedermi per terra, ero stravolto.
Un’esperienza bellissima fu il concerto di Yo Yo Ma che eseguiva le Suite per violoncello solo di Bach.
In occasione delle Giornate di studio che organizzai a Borbona nel 1996 per la trecentesca Croce processionale, nella chiesa locale di s Maria Assunta, scelsi un brano strumentale del Codice Magliabechiano proveniente dalla chiesa agostiniana della Compagnia di Santo Spirito e conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, registrato da La Reverdie nel 1994. Il codice è di ambito francescano della fine del Duecento e quindi risulta perfettamente coerente con la cultura della Croce di Borbona maturata nell’ambiente degli Spirituali attorno al 1320. La sobrietà scabrosa del Codice si addiceva molto bene all’anacronismo neoromanico della Croce.
Il pubblico entrava nell’ambiente ancora in penombra della chiesa, dove intravedeva la Croce collocata al centro dello spazio, e intanto ascoltava quel brano magnifico, proiezione nello spazio vivo della struttura plastica della croce stessa.
Una bella occasione per sperimentare la ricostruzione logica del tessuto connettivo che lega la musica all’opera d’arte, una risposta all’utilizzo arbitrario che si fa della musica come neutro arredo dell’immagine.
Impossibile dimenticare i concerti medioevali di Musica insieme, dei quali conservo ancora i dischi in vinile: Gruppo Musica Insieme, Musiche Medioevali e Rinascimentali; Ma chiere dame. Dai trovatori a Guillaume de Machault, EDI-PAN).
La musica medioevale è interpretata a un livello altissimo di comprensione dal The Early Music Consort of London diretto da David Munrow in Music of the Gotich Era, dalla Scuola di Notre Dame all’Ars Nova di fine 1300.
Léonin (1201) e Pérotin (1230) mi avevano già impressionato quando da ragazzo li ascoltai per la prima volta alla radio.
2013. Incredibile e affascinante l’esecuzione del gruppo Marcel Pérès Ensemble Organum della Messe de Notre Dame di Machault, con riferimenti espliciti alla vocalità araba, una delle cose più belle che abbia ascoltato per il Medioevo.
E’ davvero magnifica la difficile musica di Johannes Ockeghem (Fiandre, 1425-Tours 1495 c), una forma fluida che si espande progressivamente nello spazio e nel tempo: Requiem aeternam eseguito dal The Hilliard Ensemble.
Ockeghem non venne mai in Italia, la sua densa polifonia è l’equivalente musicale dei grandi arazzi fiamminghi. E’ incredibile il suo Mottetto a 36 voci, Deo Gratias, nell’esecuzione straordinaria dell’Huelgas Ensemble & Paul Van Nevel (2012).
Guillaume Dufay, Nuper rosarum flores, 1436, in una raffinata interpretazione dell’Hilliard, ricca di sfumature delicatissime (2012).
Josquin Desprez: il suo impasto tonale, magnifico e inquietante, sembra rispecchiare certa pittura italiana (Del Sarto, Correggio) rafforzandone la vocazione all’intensità lirica. Pensando al mottetto di Desprez, Domine, in furore tuo, eseguito dal complesso Metamorphoses di Parigi diretto da M. Bourbon, mi impressiona la profonda differenza che c’è tra questa intensa esecuzione e quelle altre, insignificanti, che ho trovato della stessa opera.
Antonio Caprioli (notizie 1500 c.). Le tre frottole di C eseguite con grande sensibilità dal The Hilliard Ensemble in Italian Renaissance Madrigals (1992) sono tra le cose più belle che conosco del Cinquecento italiano: E d’un bel matin d’amore; Quella bella e bianca mano; Una legiadra nimpha. Affascinanti e ipnotiche.
Una dolcezza atmosferica, quella di Caprioli, che vive teneramente anche in Marchetto Cara, presente nel repertorio di Musica Insieme, una musica lieve che evoca la struggente tenerezza della pittura di Lotto e Correggio.
Cara è nominato in Rinascimento privato (1985) di M. Bellonci: ‘la sera mi era rimasto in capo un vuoto di musica e dopo una svelta refezione le mie ragazze a lume di torcia cantarono uno strambotto di Marchetto Cara, a quattro voci, accompagnato da tre viole e liuti, che comincia: Aimé ch’io moro per te, donna crudele’.
Ci sono altre ottime registrazioni di musica medioevale: L’art de luth au moyen age, Guy Robert e l’Ensemble Perceval, 1980, registr. del 1979.
Guillaume de Machault, Chanson n. 1 e n. 2, Fruhen Musik, Thomas Binkley, reg. 1972-1973 (1980, EMI).
Guillaume de Machault (1300/5-1377) è legato alla poesia, alla miniatura, all’oreficeria, ai gioielli; l’ho citato nel saggio La C di B del 1995.
Altri dischi preziosi riguardano la rara musica antica: Musique de la Grèce antique, Atrium musicae de Madrid, Gregorio Paniagua, reg. 1978, Francia.
John Dowland (1562-1626): Can she excuse wy wrongs? per voce e liuto; incisione su vinile del complesso Musica insieme, Musiche medioevali e rinascimentali. La freschezza immaginativa di Shakespeare e di Donne.
Per il catalogo Shakespeare in progress (mostra al Liceo Righi di Roma, aprile 2016) ho scritto un brano su D:
Semper Dowland semper dolens
Semper dolens. Questo irrequieto nato sotto Saturno, John Dowland (Londra o Dublino,1563-1626), è stato forse più vicino all’avventuriero Marlowe che al saggio e ponderato Shakespeare, e niente dimostra che i due si siano conosciuti o che siano stati amici, anche se il musicista era liutista alla corte di Giacomo I proprio nel 1606, nel momento di massima fortuna della compagnia teatrale di Shakespeare che si fregiava del titolo Gli uomini del Re.
Lontano dalla corte elisabettiana che lo aveva respinto, Dowland gira a lungo per l’Europa, poi si fa mandare via anche dalla corte danese per le sue ‘stravaganze’ e torna a Londra, dopo la morte della regina, con l’unica ambizione di essere musicista di corte.
Massimo Mila, nella Breve storia della musica del 1946, deprecava i costumi di questo ‘poco raccomandabile Villon della musica’ nel quale scorgeva ‘un pizzico di perversione’ dovuto agli ‘angoli bui e sordidi di quella dolente anima irlandese che avrebbe trovato il suo interprete in James Joyce’, ed è interessante riflettere su questa moralistica condanna, perché ci da la conferma del serpeggiare inquietante nella cultura londinese della melanconia che angustia così sottilmente Amleto e che tormenta tanto crudelmente Macbeth, quella malattia mortale sempre più innestata profondamente nel futuro della modernità che Robert Burton esplora nel 1621 con L’anatomia della malinconia. Un disagio incurabile dell’Io disorientato che arriva appunto fino a Joyce, il più shakespeariano degli scrittori novecenteschi.
Dowland, a quanto pare, non ha mai scritto niente per il teatro di Shakespeare, eppure la sua musica è la forma creativa più vicina a quella stuporosa, acuta percezione del disagio melanconico che domina le opere più autentiche del poeta inglese: c’è una radicale simpatia strutturale che lega la musica di questo autore, che la melanconia l’ha probabilmente sofferta e forse coltivata, ad uno scrittore che quella forma dell’inquietudine interiore l’ha saputa invece indagare, tenendola a distanza, per registrarla nel vasto telaio del suo lavoro poetico.
Perché nella delicata, stremata musica di Dowland, si avverte, con una intensità inedita, il dolore, lo sgomento, la perturbante e disorientante dolcezza, di una precarietà della presenza che altrove, nella musica di quegli stessi anni, è possibile trovare solamente, seppure in forme assai diverse, in Gesualdo da Venosa, un uomo angustiato che è stato costretto, anche lui, a trasmutare la sofferenza individuale, e la colpa, in una materia poetica di sconvolgente potenza.
Nelle opere composte dal 1595 al 1612, per voce, liuto, viole, c’è un fluire dell’immaginazione che lo differenzia dagli altri musicisti elisabettiani, c’è una musica reservata che si ritrova, con una tale intima introspezione, a metà secolo, nelle opere struggenti e polemicamente antibarocche dei francesi Sainte-Colombe e Marais che scrivono per l’anacronistica viola da gamba.
E anche per la musica di questo autore affascinante si pone il problema gravoso della traduzione, che ha un peso tanto rilevante per la comprensione dell’opera di Shakespeare.
Noi oggi ascoltiamo le fascinose canzoni di Dowland, Flow My Tears, Can she excuse my wrongs, In darkness let me dwell, nella traduzione in forme che sono condizionate dal belcanto ottocentesco femminile, come quelle di ipnotica delicatezza del soprano Emma Kirby, oppure nella traduzione seduttiva ma ancora più lontana dall’originale offerta nel 2007 dal cantante Sting in forme di intrigante sensualità (‘Dowland, un maestro tra Shakespeare e Sting’, scrisse per l’occasione Claudio Strinati nella sua bella rubrica su Il Venerdi di Repubblica), ma è legittimo credere che la traduzione più rispettosa dell’autenticità e della verità della musica di Dowland sia quella di interpreti sensibili e intelligenti come Andreas Scholl, che ricrea magnificamente, con la sua perturbante voce di controtenore, l’ambiguità sfuggente di quegli irripetibili anni shakespeariani.
Il catalogo è in rete:
http://www.liceorighiroma.it/wp-content/uploads/catalogo-Shakespeare-in-progress-aprile-2016.pdf
Per la Rappresentazione di Anima e di Corpo di Emilio De Cavalieri, eseguita per la prima volta nell’anno 1600 alla Vallicella, Strinati, in Caravaggio, nuove riflessioni, 1989, parla acutamente di un contatto formale con Caravaggio, ma io credo che sia più giusto fare il nome di Scipione Pulzone. Caravaggio è nel versante del pathos di Gesualdo, come annota giustamente Massimo Mila nella sua Breve storia della M, mentre quello dell’oratorio di De Cavalieri, così lontano dal pathos caravaggesco, è lo stesso stile contratto degli abiti fiorentini di fine ‘500, fatto di gorgiere di pizzo e di chiusura ermetica del corpo, abiti che hanno un’equivalente plastico a loro volta nella tipologia dello stipo fiorentino del tempo, retorico e contratto in una forma chiesastica che rievoca l’altarolo.
Carlo Gesualdo da Venosa, Tenebrae, The Hilliard Ensemble. Un’incisione magnifica dei Responsoria del 1991 (il titolo, Tenebre, è preso da Celan). La dissonanza come espressione dello sgomento e del dolore individuale.
Tartini, The Devil’s Trill and other sonatas, The Locatelli Trio, Hyperion, Londra 1990: l’equivalente della pittura convulsa di Magnasco.
Il Prologo de La creazione di Haydn (1798) è un esempio struggente di musica nata dalla pura necessità e non dal manierismo.
Il forte accordo iniziale all’unisono impone dal nulla la presenza di una materia fonica opaca, una collisione improvvisa che coinvolge tutta la fascia periferica della percezione sensoriale svegliandola dal torpore.
Il disegno lievissimo che si delinea a fatica contro questa stesura opaca è frenato dalla riproposta ossessiva della sfuggente massa fonica e la delicata cantabilità dei flauti tesse un troppo fragile ordito grafico di timbri lievissimi che contrastano con la tonalità di questa parete oscillante e ostile. C’è un’infinita dolcezza nella volontà di queste frasi musicali che cercando nella penombra l’estensione verso il centro mentre le disattese modulazioni armoniche quasi atonali eludono le regole grammaticali vigenti per suggerire il negativo che infesta quella angosciante terra desolata.
Questo dolente dissidio tra la massa orchestrale e la debole voce che gli si infrange contro è lo stesso che torna a rivivere nell’Incompiuta di Schubert, nella Quarta sinfonia di Schumann e nel Brahms dell’Ouverture tragica, dopo aver attraversato il primo movimento della Quinta di B nel ‘tunnel delle dissonanze’ (con le parole di Mila).
H aveva visto al telescopio la novità dello sfondo cavo del cielo, e questo doveva averlo impressionato (cfr. Elisabetta Abignente, Dare forma all’informe: Milton, Haydn e la natura ambigua del Caos, 2010).
Beethoven, Sonata op. 106 Hammerklavier (1817-1819): una palude interminabile di negativo che l’Io attraversa con una fatica snervante per approdare nella parte finale ad un hegeliano inveramento dello spirito (La Fenomenologia dello spirito è del 1807 e nel 1808 era già disponibile la prima versione del Faust di Goethe). Con la H vige una denudazione della struttura nell’interminabile labirinto rettilineo che viene scavato dolorosamente nel tempo reale dell’ascolto, laddove una landa desolata, negli anni di Hegel, costituisce il negativo del mondo da attraversare affinchè lo spirito possa inverarsi, come avviene nel tempo finale materiato di rabbiosa e scomposta ribellione.
2010. Davvero sconvolgente l’esecuzione di Pappano della Sinfonia n.4 di Schumann. Ascolto su YouYube una registrazione del 1953 di Furtwangler e capisco che Pappano si è attenuto attentamente a quella interpretazione magnifica.
Nel 2009 ho ascoltato per la prima volta dal vivo all’Auditorium la Decima sinfonia di Mahler (1910) provando l’emozione profonda che avverto solamente quando sono in presenza della più grande autenticità. Sono affascinanti le sconvolgenti fratture che si aprono nel cuore del brano, un baratro improvviso, guglie acuminate di insopportabile intensità che Pappano interpreta con una estrema concentrazione. Questo brano sconvolgente è l’equivalente immediato del dipinto di Ensor Le tribolazioni di Sant’Antonio (1887), e in queste due opere è definitivo e necessario, autentico, tutto ciò che poi, nelle pedanti ripetizioni accademiche novecentesche sarà il segno drammatico di una ferita cauterizzata dalla ridondanza e dalla ripetizione manieristica.
2011. Anton Webern, il più intenso lirico della musica (v per il mio amato Webern: Pensiero poetante e Attraversare l’esteticità diffusa).
Oggi è davvero incredibile pensare che qualcuno possa aver avuto la presunzione di sviluppare ulteriormente quelle pagine poetiche di inconcepibile intensità, di Webern, quei testi lirici che hanno fissato nello spazio temporale di pochi minuti irripetibili tutta la loro contratta energia, ed è significativo che a questa data in mezzo a tanta vuota accademia sembra sopravvivere dignitosamente solamente la musica di Luciano Berio, che si è rifiutato di condividere l’arrogante, umiliante sterilizzazione accademica della musica di Webern e di Schonberg guardando piuttosto all’eclettismo impuro di Berg.
Luciano Berio ha scritto il suo delicatissimo Requies (1984) in memoria della moglie C. Berberian, e dopo la sua scomparsa (2003) il brano fu eseguito nella cavea dell’Auditorium.
Berio ha segnato l’esaurirsi della maniera strutturalista di imitazione weberniana e materica indicando senza retorica la strada che è possibile percorrere ripartendo dalla trasparenza materica e dalla scrittura trasognata della memoria musicale di Schubert, di Boccherini e delle sezioni più rarefatte che Mahler ha innestato nelle sue sinfonie, come il fragile Notturno nella Settima (v AA.VV. Berio (1995), a cura di Enzo Restagno).
La rivista Amadeus ha dedicato a B un interessante supplemento nel 2003.
2013, Auditorium. Concerto di Andrea Lucchesini per il decennale della scomparsa di Berio. L interpreta B con una intelligente adesione alla realtà della sua musica e con una vivida consapevolezza di quanto ha già fatto a suo tempo Pollini eseguendo di seguito Schonberg, Stochkausen e Beethoven, perché alterna nel concerto i brani di Scarlatti e di Berio senza discontinuità, lasciando percepire quasi ipnoticamente la struttura stessa della musica.
La musica fuori dall’Occidente
Negli anni ’70, mentre ascoltavo alla radio il programma di Carpitella, e mentre registravo tanta musica di ogni epoca in cassetta dalla filodiffusione, ho raccolto e studiato, in dischi in vinile, una densa, magnifica raccolta di musica registrata dall’Unesco e da altri istituti internazionali negli anni ’50 e negli anni ’60:
Africa, dolore e magia, Repubblica Centroafricana,1975 (Albatros).
The Pygmies of the Ituri forest, reg. 1958.
Camerun, Musica dei pigmei Baka.
A musical anthology of the Orient, Unesco collection, Curatore generale Alain Danièlou:
Japan, Buddhist Music, Reg.1953. The music of Japan, Teatro No. The Music of tibetan Buddhism (2);
Musica taoista cinese, a cura di John Levy, reg. a Formosa nel 1964-1969, Albatros (Milano);
India. Musica popolare dell’India del Nord. Collezione Unesco, dir. A. Danielou, editore Musical Atlas (Italia).
Australia, Canti degli aborigeni (Queensland), a cura di Wolfgang Laade, reg. 1963-1964, Albatros (Milano).
Questa musica straordinaria mi dimostrava che l’opera autentica, con la sua prepotente energia, può essere trasmessa anche da un disco, come l’arte africana, oceanica e orientale che andavo a vedere al Pigorini e a Palazzo Brancaccio può essere capita profondamente anche nello spazio del museo.
Scrivo di questa musica meravigliosa in I luoghi della musica.
Importanza vitale dell’interpretazione
2010, Auditorium. Pretre interpreta Brahms (3 e 4 sinfonia) eludendo la profonda struttura interna a favore di una insensata enucleazione timbrica: ne deriva un’irritante materia rallentata laddove il magma di Brahms viene raggelato in un mosaico di blocchi trasparenti che vanificano il flusso continuo della sua dolente stimmung. Pretre sembrava pensare a Franck più che a Brahms, e qualcuno ha scritto, il giorno dopo, che P era riuscito ‘magnificamente ad addolcire, a smussare, ad alleggerire i passaggi più impervi di un artista intrinsecamente complesso’ (!).
La troppo debole divulgazione della musica
La Breve storia della musica (1946) di Massimo Mila (con successivi aggiornamenti) mostra un tentativo generoso di associare sporadicamente la musica alle arti figurative, ma il testo è comunque prevedibile e privo di spunti originali; delude il parere riduttivo su Cage, che rivela la troppo grande difficoltà (già osservata in Marangoni per le arti figurative) che incontrano anche i critici più sensibili nel saldare la critica delle opere del passato alla comprensione delle opere contemporanee.
E’ veramente deludente la Storia della musica (1988) di M. Baroni, E. Fubini, P. Petazzi, P. Santi e G. Vinay. che privilegia insensatamente la quantità e il contenutismo sulla qualità e sulla forma specifica della musica. Un’occasione sprecata per la divulgazione in una cultura che conosce poco la musica. Nel libro manca completamente la critica formale, gli autori mettono a disposizione tutte le nozioni tecniche scolastiche, ma evitano di sottolineare la qualità straordinaria dei brani più antichi. Per Fubini, che è uno studioso colto, sembra normale dedicare a Pérotin e Léonin poche righe generiche e scontate, e gli sembra normale citare di sfuggita Bernard de Ventadorn assieme ad altri ‘trovatori illustri’. Per Baroni Gesualdo da Venosa, che sarebbe ‘famoso per aver ucciso la moglie’(!), è degno di mezza pagina: B, che non ha niente da dire sull’incredibile sperimentazione di Gesualdo, afferma con involontaria comicità che ‘il suo stile ( ) ha un che di espressionistico e di sperimentale’ , come se la prospettiva storica fosse ribaltata: sono invece l’Espressionismo musicale e la sperimentazione che non hanno potuto fare a meno di studiare Gesualdo.
Marchetto Cara è nominato di sfuggita da B tra i ‘più famosi compositori di frottole’.
Tutta la musica antica e medioevale è ridotta quindi a poche pagine, soprattutto tecniche e storiche, mentre quasi tutto il resto del libro, come era prevedibile ma non certo inevitabile, è dedicato agli autori da concerto settecenteschi e ottocenteschi dei quali si conosce già tutto e dei quali comunque non viene neanche tentata una seppur embrionale lettura interdisciplinare con la creatività del tempo.
Che un singolo brano, della durata di pochi minuti, di Pérotin o di Léonin, possa essere più intenso e più vero musicalmente, più importante, di tutta l’opera di Ravel, per gli autorevoli e tutt’altro che sprovveduti autori del libro non ha nessuna rilevanza.
Petazzi scrive con competenza i suoi capitoli sulla musica contemporanea, ma le poche righe su Cage ripetono i più stanchi e prevedibili luoghi comuni: minimizza senza motivo il rapporto con Satie e ignora apertamente i rivelatori legami strutturali di Cage con Cowell e con Ives.
Musica e cinema
Trovo solamente adesso (2009) una citazione che conferma quello che pensavo a suo tempo del film Lezioni di piano, di Jane Campion (1993). Schumann ha musicato un lied di Heine dove il poeta dichiara di voler seppellire i suoi vecchi e cattivi canti in fondo al mare, in una enorme bara che conterrà il suo dolore e il suo amore (cfr. Heinrich Heine, Il libro dei canti, 1964, pag. 160, Einaudi).
Ebbene, io avevo letto il film in questo modo: una ideale Clara Schumann si identifica nel marito Robert ripercorrendone le tappe attraverso una musica che sa essere difficile e oscura oppure straniante e leggera, comunque diversa da quanto gli altri si aspettano; c’è nella sua vicenda la mano mutilata di un dito, che fa pensare al danno che S si procurò esagerando nei suoi esercizi al pianoforte, e infine ci sono la morte nel fiume con l’affondamento e l’abbandono del pianoforte.
Il dolcissimo Saint-Colombe è rivelato dal film di Alain Corneau, Tutte le mattine del mondo (1991).
Tutte le mattine del mondo
Nel 1991 Alain Corneau ha tratto il suo magnifico film dal romanzo di Pascal Guignard Tous les matins du monde (1987) avvalendosi della consulenza del più intelligente e sensibile esecutore di musica secentesca, Jordi Savall, che ha eseguito tutti i brani che si ascoltano nel film.
Si tratta senza dubbio della più intensa e fascinosa introduzione all’ascolto profondo della musica che il cinema abbia mai realizzato.
Nella seconda metà del Seicento francese il perturbante struggimento della musica dell’ipersensibile Sainte-Colombe (1640 c – 1700) contrasta la vuota esteriorità del classicismo barocco dominante alla corte di Luigi XIV. La musica intima dell’anziano Sainte-Colombe, che è stato un segreto poeta della musica, si ritrae nella penombra della solitudine sdegnosa di chi rifiuta i rituali del suo tempo. Nella vicenda di questo affascinante lirico ci sono la cultura del Giansenismo, che reclamava un’esistenza austera apertamente contrapposta a quella della mondanità imperante, e il pensiero di Pascal, il giovane filosofo della sensibilità che cercava di far prevalere con il suo esprit de finesse le ragioni del cuore.
E poi c’è nello sfondo storico il convento giansenista di Port-Royal, che nel 1709 Luigi XIV fece rabbiosamente radere al suolo.
Il giovane Marin Marais (1656-1728) è sedotto dalla musica scabra e dolente dello scostante maestro Sainte-Colombe, che lo educa gradualmente a liberarsi dall’esteriorità barocca.
Il regista Alain Corneau, con una straordinaria sensibilità per l’immagine, ha utilizzato pienamente le musiche originali dei due autori, ma ha saputo anche visualizzare il loro mondo attraverso la memoria vivida dei dipinti dell’epoca, dei quali evidentemente è stata controllata con rigore la cronologia affinché risultassero tutti plausibili per gli anni precedenti il 1700.
Così, quando i due musicisti suonano insieme viene rievocata l’atmosfera fascinosa delle scene notturne di Georges de la Tour (+1652); il volto dello scontroso maestro rievoca i ritratti essenziali di Frans Hals (+1666); gli oggetti che il vecchio musicista vede mentre suona da solo nella sua baracca sono quelli di un’opera di Andrè Baugin (+1638) conservata al Louvre (un dipinto dello stesso autore è visibile a Roma nella Galleria Spada).
Gli abiti di corte sono quelli dipinti da Charles Le Brun (+1690), il pittore ufficiale di Luigi XIV; gli ambienti scarni della vita di campagna sono quelli documentati da Louis Le Nain (+1648).
Sainte-Colombe scelse per la sua musica la viola da gamba perché questo strumento sostanzialmente anacronistico e limitato, superato poi nel tempo dal violoncello, gli permetteva di cercare una forma di acuta intensità che è sempre guidata da un sussurro intimo, una musica sempre dolcemente frenata in un tempo decelerato che si oppone all’infestante ipertrofia barocca: ogni tema viene attirato e accolto dolcemente all’interno di una cripta melanconica dove abita uno spazio rarefatto, in una estrema concentrazione che impone di sostituire alla parola e al ricordo il loro puro riverbero musicale.
Questa scelta appassionata di una musica scritta in versi, in opposizione a una musica retorica scritta in prosa, colloca Sainte-Colombe nell’orizzonte della più inquieta e sottile cultura francese, quella materiata dall’esprit de finesse, dalle ragioni del cuore di Pascal, una cultura che ha la sua fonte preziosa nel tardo Cinquecento con l’affascinante freschezza intellettuale dei Saggi di Montaigne e che arriva al Settecento di Diderot con la pittura poetica di Chardin, dove l’immagine è trascinata musicalmente fino alla soglia estrema del silenzio.
Alla fine del suo viaggio il discepolo è sollecitato dal maestro a definire il significato più autentico della musica. Marin tenta inutilmente di formulare delle risposte suggestive e intelligenti, ma il maestro le respinge tutte con un sorriso.
Allora il giovane si rende conto quasi con sgomento di essere di fronte alla necessità profonda della musica e trova con sofferta emozione le parole per dirlo:
La musica è per gli stati che precedono l’infanzia. Quando si era senza respiro. Quando si era senza luce
Il ritorno alla forma tradizionale
2017. Oggi si assiste a un pieno recupero delle forme tradizionali con Arvo Part, Gyorgy Kurtag, John Adams, Silvia Colasanti, un ritorno alla forma illustrativa che rientra in un più vasto recupero in corso della figurazione e della narrazione (v Il ritorno della figurazione).
Vasi comunicanti. La musica è ovunque in P, in Pensiero poetante, nella voce Musica in Arte popolare, in I luoghi della musica.
In I luoghi della musica ho cercato di indagare la specificità della musica guardando al suo più radicale tempo della necessità, laddove vibra l’intensità estrema della musica australiana, cinese, africana, tibetana.
Stereotipi
C’è una carenza assoluta di conoscenza della musica nella cultura di tutti i giovani laureati in Storia dell’arte che ho conosciuto attraverso il mio lavoro all’Archivio fotografico di Palazzo Venezia. È sicuramente colpevole la continua dispersione della musica nelle colonne sonore del cinema e l’utilizzo della musica come sfondo decorativo di mostre, pubblicità, eventi, segreterie telefoniche, una continuità che rende familiare una patina musicale epidermica e sempre frammentata. Penso all’orribile utilizzo di Mahler per il brutto film di Cavani su Nietzsche e all’orrenda colonna sonora della Medea di Pasolini che sfruttava senza pudore e illogicamente la meravigliosa musica tibetana.
La cultura di chi studia arte purtroppo non impedisce la sordità di fronte alla musica. Tanti anni fa prestai un disco in vinile di Cheap imitation di Cage a una matura studiosa della contemporaneità, e questa mi rese il disco con una espressione di ironica perplessità, secondo lei in quel raffinato brano di Cage non accadeva praticamente niente.
Un giovane storico dell’arte definì noioso (?) il magnifico film di Corneau su Saint-Colombe (a Roma il film scomparve dalle sale in pochi giorni).
La cd Taranta dall’industria turistica nel Salento è un pesante travisamento della musica autentica che Carpitella e De Martino registrarono alla fine degli anni ’50. In una foto che pubblicizza gli eventi della T la penosità struggente della donna sdraiata a terra sul telo, visibile nei documentari e nelle foto di De Martino, viene trasformata esplicitamente in una scena erotica.
2016. L’equivoco più grave: la presunzione di chi pensa alla musica come ad una fonte di stimoli dalla quale è possibile attingere liberamente senza amare e rispettare l’integrità delle opere.
Una musicista, AU (The Wandering Spirit, 2004) giustifica la sua presunta ibridazione dei generi affermando la ‘convinzione che musica e poesia non possono rimanere circoscritte in uno spazio e in un tempo precisi, ma che debbano invece viaggiare ed incontrare altri mondi culturali, ispirarli ed essere da essi ispirate e trasformate ( ) musica etnica-world-tradizionale-folk-celtica ( ) atmosfere e sonorità Country & Blues anglo-afro-americane, appena sfiorate da suggestioni orientali ( ) la ricerca è andata ben oltre i confini geografici regionali, a scoprire, confrontare, ri-interpretare e inevitabilmente fondere sonorità e atmosfere apparentemente lontane fra di loro, senza remore conservatrici o timori di una crisi di identità ( ) il confronto e lo scambio tra modi diversi, filtrati attraverso la proprie esperienze e vissuti con sensibilità, sincerità e rispetto, non possono che apportare arricchimento morale, psicologico ed emotivo ad un società’.
2007. L’insidiosa ambiguità dell’Eclettismo. Nell’opera Bomarzo (1967) dell’argentino Ginastera una lunga introduzione strumentale utilizza senza ritegno varie forme già esistenti, da Varèse a Boulez, per arricchire di suggestioni l’ouverture strumentale dell’opera, restando però assolutamente estraneo alla musica intesa come esplorazione di nuovi spazi della percezione. Lo spazio musicale dell’opera si delinea gradualmente con un pianissimo di crescendo germinale, tra il ricordo del flauto di Debussy del Pomeriggio d’un fauno e l’inizio lievissimo di Ionisation (1929-1931) di Varèse. Questo spazio viene progressivamente e nervosamente animato da un’insistente frantumazione segnica e timbrica, desunta anche questa dal Varèse orchestrale, e da improvvise eruzioni di magma sonoro che sono l’eco della musica concreta della prima maniera di Kagel e di Boulez.
A tratti si distendono inquietanti spazi vuoti di silenzio, di stupore metafisico, come quelli che si trovano in Gyorgy Ligeti (il suo impressionante Lux Aeterna è del 1966, un anno prima di Bomarzo). Si consolida nel tempo un’esplicita atmosfera di naturalismo organico, quello che l’opera di Yannis Xenakis degli anni ’50 ha reintegrato nella musica materica sperimentale con la sua musica stocastica, un materismo delicato e continuo, vibrante, vicino alla pittura informale di quei primi anni ’60. Poi si insinua la voce, un canto mormorante a bocca chiusa che deriva dal Debussy di Sirènes (1899), da La creazione di Haydn e da Ligeti, arrivando quasi, con l’inserto di voci di bambini, allo Stockhausen di Gesang der Junglinge (1956), inquietante rielaborazione elettronica di voci infantili.
La frantumazione segnica (da Boulez) continua a logorare il tessuto fonico; un corno ricorda improvvisamente il sonorismo di Mahler, sempre presente nella memoria dei musicisti novecenteschi. Poi ancora suggestioni naturalistiche da Xenakis e ancora la voce che canta a bocca chiusa da Ligeti.
I timbri vivaci a grappolo e le note tenute irrompono come un segnale allarmante, e contraddicono lo stupore melanconico del canto sommesso e dolente. Queste voci frantumate che si muovono nello sfondo sono l’ombra proiettata di una presenza umana ancora assente.
La voce solista ora sfora con forza, come nelle opere più intense e scure di Luigi Nono scritte prima del 1966. Si impone un lirismo naturalistico volutamente ambiguo nel suo essere allo stesso tempo popolare e artificiosamente straniante.
Ginastera cerca un effetto perturbante con le voci prigioniere in questa landa deserta di suoni disgregati. Emerge in tutta la sua evidenza la memoria poetica collettiva de La terra desolata di Eliot (1922), il testo normativo che suggerisce l’incubo lucido del mondo spopolato e dolente.
C’è nelle voci l’inserto di un tono quasi neomedioevale, preso forse dallo Stravinskij neoclassico, che vuole riformulare la possibilità della voce in attesa di uscire dalla miseria materiale di questo deserto. Il Coro si afferma un poco alla volta, emerge trainato da allarmanti riverberi sonori; poi esplode la voce solista con più decisione, con teatrale icasticità. La voce di basso è introdotta da un rantolo materico, c’è un recupero wagneriano del recitato passionale, una voce che contrasta acutamente con il canto puerile. Siamo dentro la tradizione dell’opera tradizionale, dove prevale il contenuto cantato sulla materia sonora. Qui finisce l’incanto materico nel quale dominava un’esplicita seduzione dell’ascolto, un trascinarsi verso l’uscita dalla landa deserta in attesa di ristabilire l’ordine accademico del parlato ottocentesco, del racconto. La fascinazione era interamente costruita sull’eclettico e superficiale riutilizzo di suggestioni musicali dedotte da grandi autori come Varèse. Ma se il sordo, accecante splendore di Ionisation è autentica ricerca di uno spazio interamente musicale, interamente affidato alla realtà della dimensione sonora, Bomarzo è invece un’opera tradizionale che recupera una fascinazione pseudo-moderna solo per arricchire di sfumature suggestive il suo racconto.
Non mi meraviglia sapere che l’argentino Ginastera sia stato allievo dell’illustrativo americano Copland e maestro del focloristico Astor Piazzolla, che oggi seduce i giovani con tanto calcolata, teatrale passionalità.
Le idiozie sulla musica
2011. Su La Repubblica un articolo di B, Per favore, non mettete più Bach e Boulez nello stesso concerto, e un frammento di un libro di Alex Ross, critico del New Yorker, Le note senza pubblico. Come far uscire dal ghetto la musica classica contemporanea, riassumono con imbarazzante stupidità tutti gli stereotipi più insensati sulla musica contemporanea.
Il profondo disagio verso la musica novecentesca è già avvertibile nei ridicoli errori inseriti da un redattore nei riquadri che introducono i due brani: Schonberg avrebbe delineato il sistema delle dodici note ‘negli anni Dieci del ‘900’, dove si confonde banalmente il sistema atonale con la dodecafonia, elaborata dieci anni dopo; la musica seriale avrebbe avuto il suo acme negli anni ’50 con Boulez e Cage, mentre la serialità di Webern ha il suo acme, ovviamente, entro gli anni ’40 con le opere dello stesso Webern; Boulez, che è stato nel ’50 un colto sperimentatore, non può essere considerato un semplice continuatore della serialità weberniana, e Cage deriva da Ives e dal materismo di Cowell e di Varése, autori che non hanno niente a che fare con la musica seriale: ciò che si afferma, tra l’altro parzialmente, nel ’50, è la maniera cd postweberniana, che non significa musica seriale.
Sotto il titolo ‘I neoclassici’ figurano Stravinskji, Ravel e Bartok, ma il termine neoclassicismo è adeguato solamente per una certa, limitata fase dell’attività di Stravinskij mentre gli altri due musicisti non possono essere definiti in nessun caso neoclassici. Evidentemente si confonde il neoclassismo con una generica fedeltà al sistema tonale. Questi tre autori poi avrebbero attinto ‘nuovi ritmi’ dalla musica folklorica: ma Ravel i suoi ritmi li ha attinti direttamente dal sinfonismo tradizionale, nella sua musica non c’è nessuna traccia di folclore, ed è per questo che non ha senso accostarlo a Stravinskij e a Bartok (l’ingenuo redattore pensava evidentemente al Bolero come ad un ritmo folkloristico).
Infine si legge che ‘oggi la musica colta trova la sua diffusione maggiore nelle colonne sonore’ (?) ignorando che la musica è sempre stata (vergognosamente) asservita dal cinema e snaturata come banale fonte di suggestioni sonore strettamente dipendenti dall’immagine. Basti pensare alla magnifica musica tibetana violata impudicamente da Pasolini per il suo Medea e alla raffinata musica di Mahler disgregata malamente in frammenti insensati per il brutto film di Cavani dedicato a Nietzsche.
Una pagina redazionale anticipa poi i temi dei brani di B e di R con affermazioni involontariamente ridicole: il pubblico non apprezzerebbe la musica ‘classica contemporanea’, però ‘tutti amano Pollock e Duchamp (e) nessuno più contesta l’Ulisse di Joyce’.
Affermazioni incredibili, che si basano in parte sullo stravolgimento di quanto sostiene Ross nel suo pezzo: per Ross le alte quotazioni di mercato di un’opera di Pollock dimostrerebbero un grande interesse pubblico, ma Ross confonde evidentemente il gradimento pubblico con il collezionismo; nessuno ha mai appeso un poster con un lavoro di Pollock alle pareti di casa, destinate invece, come è noto, alle forme assai più concilianti di Matisse, Mirò, Klee e Folon.
Il pubblico quindi amerebbe non solo Pollock, ma (addirittura) Duchamp (!). Ed è ancora più incredibile sostenere che nessuno più contesta l’Ulisse di Joyce, che proprio in questi ultimi anni è stato definitivamente archiviato e apertamente contestato: Natalia Ginsburg a suo tempo dichiarò con legittima ma scostante franchezza di non aver mai letto Ulisse e di non sentirsi affatto in colpa per questo, e in realtà oggi nessuno legge l’Ulisse, che da un sondaggio recente (2011) risulta essere anzi il romanzo meno letto.
Ross nel suo brano sostiene con candore che il pubblico fa la fila per vedere le opere d’arte contemporanee, ma diserta i concerti di Schonberg e Cage, e si chiede perché, annotando come quella musica così tenacemente respinta come inascoltabile venga poi tranquillamente accettata come colonna sonora per il Cinema.
Ebbene, Ross, che è uno studioso di musica, non si accorge di una cosa che è del tutto evidente: di fronte a qualunque opera d’arte, fosse anche la più provocatoria, si impone subito con forza una giustificazione contenutistica che rende ogni tensione più sopportabile, ma quando ascoltiamo un brano di Webern siamo meravigliosamente abbandonati in uno spazio profondo che possiamo abitare solo interiormente.
Chi non tollera di vivere il dolcissimo trauma che viene inferto alla nostra sensibilità da questa musica dell’interiorità proverà una gratificante consolazione nel sentire dei frammenti deformati e neutralizzati di quella stessa musica mutilata e ridotta a sfondo emozionale per una scena drammatica di un film che poi magari si risolve nel commento musicale più illustrativo di una fresca aria cantabile o addirittura con un finale orchestrale da concerto classico. E’ così difficile capirlo?
E’ davvero patetico che Ross, critico musicale del New Yorker, pensi davvero che la musica respinta nelle sale da concerto sia poi accettata come colonna sonora. I brani di accompagnamento di un film usano continuamente frammenti elettronici, forme stranianti e dissonanti, tensioni timbriche e armoniche, ma queste sono forme musicali che non hanno niente a che vedere con la musica di ricerca poetica, sono tasselli di un mosaico privo di struttura coerente che hanno il compito funzionale di rafforzare la percezione visiva di una scena.
Non mi risulta che nessuno abbia mai usato esplicitamente la musica di Schonberg (autore nel 1930 di una Musica per film, mai utilizzata), di Webern o di Boulez per commentare una scena. Ci sono delle eccezioni significative, certo, in Muriel di Resnais (1963) c’è uno splendido accompagnamento musicale scritto e diretto appositamente per il film dal modesto Hans Werner Henze, autore caratterizzato da una struggente maniera desunta da Berg.
Quindi è lecito chiedersi: davvero Ross non sa distinguere le forme spurie e decorative usate dal cinema per le scene inquietanti dalla più intensa musica novecentesca?
B sostiene a sua volta che unire in un concerto la musica di Bach e di Boulez porterebbe addirittura a una ‘grande truffa’ perché si tratta di ‘cose differenti’, e la truffa consisterebbe nello smerciare l’indigesta musica contemporanea insinuandola tra due brani di musica classica.
Sembra davvero incredibile che qualcuno possa essere così cieco: Pollini ha costruito i suoi concerti più emozionanti cercando proprio la continuità tra le forme della sperimentazione musicale di ogni tempo quando, trent’anni fa, presentò in uno stesso affascinante concerto Schonberg, Stochkausen e Beethoven (in questo ordine), e l’effetto fu straordinario, le Variazioni Diabelli di Beethoven, ascoltate subito dopo gli altri due brani apparvero a noi tutti (giovani) di una intensità sconvolgente.
Chi pensa che la musica novecentesca di ricerca e quella cd classica siano cose diverse evidentemente non sa di che cosa sta parlando.
B ignora le intelligenti e umili rivisitazioni condotte da Webern sulla musica di Bach e di Schubert, ignora lo studio accurato e vincolante che Schonberg dedicò alle forme di Mahler e di Brahms, e ignora sopprattutto l’interesse sincero di Boulez per Debussy e quello altrettanto sincero e fruttuoso di Cage per Satie; ignora l’amore disinteressato che legò Berio alla memoria viva della musica di ogni epoca, e ignora soprattutto che da Schumann in poi la musica ha offerto l’opportunità di scavare una stanza interiore in chiunque ne avesse la necessità, uno spazio intimo di necessità interiore che porta dal Trecento di De Machault a Webern con una musica che ha una bellezza intima e sofferta, che non ha bisogno di essere imposta a nessuno perché può essere solamente scelta, una musica che non è né antica né moderna.
Quello che i due autori sembrano non capire è questo: nel percorso iniziato da Schumann la musica più intensa e autentica, meno condizionata dal contenutismo, non può più essere equivocata, non può più essere il contenitore di qualcosa, come avviene in parte per qualsiasi altra forma di arte, può essere vissuta solamente in una perturbante profondità che nessuno è costretto a subire forzatamente, ma che si può solo scegliere e desiderare per sé.
Non è una musica che ha bisogno di essere fruita quantitativamente, come accade con altre forme d’arte che prevedono una condivisione pubblica, ma solo qualitativamente, come possibile maturazione individuale. E’ pura disponibilità, come la è la poesia non descrittiva, e non ha senso porsi il problema quantitativo della sua fruizione.
B non è in grado di capire cosa accade davvero quando la gente si alza e esce da una sala da concerto perchè la musica che viene eseguita appare spaesante o addirittura angosciante, non capisce a cosa quella gente sta reagendo.
Io ricordo molto bene questa sensazione provata a un concerto del perturbante, meraviglioso Sestetto di fiati di Schonberg. In quel caso la reazione del pubblico fu astiosa, emozionale, di violento rifiuto, ma infinitamente più genuina dello stare seduti attoniti a pensare ad altro durante un concerto edulcorato che non trasmette nessuna emozione profonda e non provoca nessun turbamento.
Un lettore scrive alla rubrica di A (su La Repubblica) a proposito di questi due articoli, e già la sgradevole goffaggine della lettera denuncia i segni dell’incattivimento travestito da ipocrita gentilezza:
‘Potrà essere consentito a chi ama le tonalità di Mozart e Beethoven di non digerire (o digerire con difficoltà) la musica atonale senza per questo sentirsi tacciato di immaturità o esser considerato fuori del tempo?’ No, rispondo io, non ‘potrà essere consentito’, perché quella che viene definita genericamente e stupidamente ‘musica atonale’ è parte integrante dell’azzardo e della libertà della quale viviamo oggi, mentre quelle presunte tonalità ascoltate spesso con distrazione non sono altro che lo strumento della più meschina passività. Chi non può rispettare l’azzardo e la libertà è sicuramente ‘immaturo’ ed è sicuramente ‘fuori del tempo’, come scrive questo lettore, perché prova disgusto per tutto ciò che lo può turbare.
Il rozzo lettore conclude sostenendo la legittimità della ‘perplessità’ che si prova di fronte ad ‘opere d’arte’ che cercano di ‘riscuotere l’apprezzamento dei più per essere riconosciute autentiche Opere d’Arte’. Gli si può rispondere indirettamente che le opere autentiche non hanno mai bisogno di essere riconosciute ‘dai più’ e neanche dai pochi. Esistono e basta, possono essere ignorate o amate, sono disponibili, come la poesia appunto, e nessuno è costretto a nutrirsene.
E’ illegittimo denigrarle, questo si, perché è dignitoso e doveroso essere deboli con i deboli e forti con i forti.
A risponde a questa violenza mascherata da buone maniere con argomenti insensati, e si chiede subito: ‘perchè la musica contemporanea piace – indiscutibilmente – così poco?’
Indiscutibilmente. Per A la musica contemporanea sarebbe molto genericamente quella che viene ‘dopo Schonberg, Berg e Webern, per avere un riferimento’.
Ma la musica contemporanea come è noto, vive in una moltitudine di percorsi diversi che si snodano autonomamente in direzioni diverse, e la musica meno accettata oggi è semmai quella che deriva dall’esperienza dell’indagine materica che va da Varese a Cage, che con gli autori della tradizione viennese non hanno niente a che fare; e anche un autore vitale come Berio nasce da una complessa cultura composita che non è assolutamente spiegabile con il lascito dei viennesi.
A, che pure ha un intenso passato di divulgatore musicale, davvero non sa di cosa sta parlando: allinea degli stanchi luoghi comuni fossilizzati da decenni. La lettera di questa persona normale è l’occasione per fare un po’ di demagogia populista.
La ‘filosofia di oggi’, sostiene A nel suo pezzo, approfittando dell’occasione per estendere la sua critica a tutta la detestata cultura della riflessione individuale, ‘parla ai filosofi e non (diciamo) alle persone normali’.
Evidentemente qui A confonde i (vecchi) testi degli oscuri francesi del poststrutturalismo con quelli (attualissimi) di Morin, di Habermas e di tanti altri pensatori della contemporaneità che operano nella prassi neoilluminista dell’esposizione limpida ed esauriente di problemi concreti, filosofi che tutti leggono e capiscono benissimo. Dove sono questi filosofi che parlano ad altri filosofi?
A confonde il dibattito interno del mondo accademico con la ‘filosofia di oggi’. E’ l’unico a non sapere che la ‘gente normale’ riempie (senza annoiarsi) gli spazi del dibattito pubblico dedicati al pensiero della contemporaneità, come accade con gli annuali festival della Filosofia di Modena.
A riporta il parere di un noto restauratore, BZ, eternamente irritato con il mondo intero, presentato impropriamente come ‘storico dell’arte’ per dare peso alle sue grottesche dichiarazioni. Pur di parlare con astio della presunta musica contemporanea Z scrive che ‘l’arte contemporanea non è arte, ma critica d’arte ( ) avvitata in opere che stanno tra gioco e decorazione: un quadro di Pollock è una macchia decorativa che fa parete’ (?).
Quindi Z è l’unico ancora fermo alle barzellette sull’arte moderna, ed è l’unico che non sa che nel frattempo la cd ‘arte contemporanea’ è rappresentata universalmente dalla figurazione assolutamente tradizionale di Freud (scomparso da poco) e di altri giovani pittori e scultori che non sanno neanche chi sia Pollock.
Per quanto riguarda la musica, Z sostiene che la destrutturazione (destrutturazione?) della musica classica operata da una generica e indefinita musica contemporanea porterebbe ad effetti talmente ‘insostenibili’ di ‘disarmonia’, da ‘consigliare la fuga in massa dalla sala da concerto’.
Ebbene, Z ignora che quella che lui definisce musica contemporanea, cioè la musica che domina davvero la cultura contemporanea, in realtà è quella che viene scritta da Ennio Moricone e da una massa incredibile di autori analoghi di musiche per film e per spettacoli televisivi. Musica tonale e ‘classica’ quindi, che si aggiunge alla mole sconfinata di musica leggera, alla ipertrofica musica Rock, al territorio vastissimo del Jazz, e alla enorme quantità di musica settecentesca e ottocentesca che viene eseguita tutti i giorni in tutto il mondo nei concerti della cd musica classica. In nessuna di queste forme della modernità dominante si destruttura la tradizione, evidentemente.
I due non sanno che la vera ‘musica contemporanea’ deriva esplicitamente dalla cultura del ‘Gruppo dei sei’ di Parigi, da Ravel, da Gershwin, dai remoti canti di lavoro della schiavitù negriera (con il Jazz) e dall’operetta ottocentesca (con la canzone popolare), niente che possa o voglia destrutturare il sistema tonale.
La musica che fa uscire dalla sala da concerto Z, purtroppo, è rarissima e pochissimo eseguita: dopo la scomparsa di Berio non la si ascolta più neanche all’Auditorium, che aveva esordito a suo tempo con il più raffinato Boulez.
Perché quindi accanirsi su qualcosa che oggi non incide minimamente sulla cultura contemporanea?
A osserva infine che la ‘febbre avanguardistica’ sta ‘scemando’ (come una malattia, appunto), e cita il fascinoso e superficiale Einaudi come esempio di saggia moderazione, per concludere con un quesito irrazionale: perché il linguaggio tonale appare ‘logoro’ e il genere romanzo no?
Gli si può rispondere: ma perché il linguaggio tonale non è affatto logoro, né lo è mai stato, come non è mai stato logoro il linguaggio in prosa che viene utilizzato per la comunicazione diretta e anche ora, in questa pagina descrittiva.
Non c’è mai stato nessun presupposto perché il linguaggio tonale potesse logorarsi, come non c’è mai stato nessun presupposto perché la concezione (mai abbandonata) dello spazio architettonico chiuso potesse essere superata, e come non c’è mai stato nessun presupposto perché la figurazione tradizionale, naturalistica (come quella del celebratissimo Freud) dovesse sparire dal mondo della creatività; perfino la poesia in rima non è mai scomparsa, perché sopravvive vitalissima nei testi delle canzoni canticchiate da milioni di persone in tutto il mondo.
Questi autori intravedono il percorso sottile e quasi invisibile che ha portato (pochissimi) musicisti a cercare una diversa strada alla creatività e credono che quel percorso sia la ‘cultura moderna’ di cui farebbero volentieri a meno.
Per loro è difficile rendersi conto che la storia ufficiale della creatività, con le sue tappe forzate e le sue ipocrisie retoriche, la scrive la cultura egemone con lo scopo neanche tanto nascosto di musealizzare tutto ciò che può turbare, spingendo rabbiosamente nella devastante fornace dell’entropia le forme più delicate della ricerca creativa più autentica.
Nella realtà di tutti i giorni, invece, la cultura che agisce davvero nel mondo, creando comportamenti concreti e riempiendo davvero la vita delle persone, non ha niente a che vedere con la Storia dell’arte e della Musica che la cultura egemone monumentalizza per i suoi scopi.
La gente ascolta per ore e ore musica Rock e Jazz, va a sentire Mozart e Beethoven, legge B, si commuove con Prevert, segue avidamente il cinema narrativo più corsivo, legge l’invito generico a indignarsi del filosofo Morin, legge avidamente le opinioni e i libri di A, non passa il tempo a riflettere sulla pittura di Fautrier e sulla musica di Varese.
L’aspetto più triste di tutto questo è nella viltà con la quale ci si avventa con arroganza sulla risibile minoranza di coraggiosi, generosi poetici sperimentatori invece di limitarsi a constatare che la cd musica contemporanea, cioè quella che esiste concretamente ogni giorno come forma che educa e condiziona incessantemente la cultura delle persone, è semplicemente la musica tonale della tradizione ottocentesca miscelata nelle sue varianti con un dosaggio inoffensivo di musica extraeuropea (i ritmi percussivi del Rock) e all’occorrenza con le forme spurie dell’espressionismo più esteriore (Strauss).
Questi detrattori della creatività più generosa sono liberissimi di studiare il moderato e conciliante Morin, ascoltare l’insipido e sensuale E, leggere il piacevole e vuoto B e godere della sterile pittura descrittiva di Freud, però dovrebbero ignorare e lasciare in pace i già sfortunati e tormentati poeti che hanno cercato con passione di offrire a se stessi e agli altri dei pensieri più delicati che hanno messo (incondizionatamente) a disposizione di tutti, affrontando oltre tutto l’alta marea devastante della ripetizione accademica delle loro opere.
2011
2011. Si legge in un articolo sulla musica nella rubrica Tendenze di Donna (La Repubblica) che ‘c’è ancora troppa divisione tra il mondo accademico, la musica classica e i giovani’. Lo dichiara D. O’Halloran, un musicista che si ispira (?) a Rothko e a Kandinskij (su YouTube ci sono i suoi brani tediosi). Torna ancora una volta l’equivoco degli stereotipi sulla presunta distanza tra la cultura alta e i giovani, che è forse l’idiozia più radicata.
La musica classica i giovani possono sentirla facilmente e quando vogliono, con una possibilità di scelta enorme, dai nuovi Auditorium sparsi in Italia e per il mondo ai concerti universitari. L’Auditorium di Roma organizza incontri didattici di ascolto e discussione, invita alle prove, promuove concerti in orari e in giorni che permettono a chiunque di partecipare, cosa dovrebbe fare di più?
La realtà è altrove: la cultura egemone manovra la fruizione della musica guidata dalla demagogia della quantità contrapposta al dovere civile di coltivare la qualità. Altro che cultura alta e giovani.
La realtà è che viene costruita sistematicamente una giustificazione per un musica ibrida e snervata (nell’articolo di D. si annotava, a proposito delle opere di un gruppo di quarantenni ‘protagonisti di una nuova corrente musicale’ che ‘hanno voglia di stupire e emozionare e catturano un pubblico sempre più vasto’).
Non c’è nessuna divisione tra l’inesistente musica classica e i giovani, c’è il predominio assoluto della musica Rock e Jazz, un dominio che non è neanche imposto dal mercato perché i giovani scelgono liberamente di nutrirsi quotidianamente di questa musica. Questo predominio trova semplicemente la sua giustificazione nella demagogia della cultura dominante.
I giovani scelgono liberamente di ascoltare Einaudi invece di Berio, non esiste nessuna barriera, e non c’è nessun motivo per farne un problema; se qualcuno ha voglia di ascoltare Berio sa benissimo dove andare ad ascoltarlo, altrimenti vive benissimo lo stesso.
2012. C’è una ridicola e incredibile presentazione, sul sito dell’Auditoriun, del pasticcio musicale di GB Experimentum mundi (visto su Youtyube), con passaggi involontariamente comici:
‘Experimentum mundi è forse la composizione più significativa della musica contemporanea degli ultimi decenni. Con quest’opera Giorgio Battistelli realizza le aspirazioni e i sogni dell’arte del suo secolo. Dopo aver compiuto in tutti i modi, in tutti i rami dell’attività creativa, il tentativo di infrangere il diaframma tra arte e vita, in questo lavoro, della durata di un’ora, all’improvviso la musica riesce sul serio nell’intento’ (GP).
2011. Il sopravvalutato romanzo di Thomas Mann, Doctor Faustus, 1947, è una vera antologia di stupidaggini sulla musica.
L’impudica citazione di Dante con la quale Mann apre il romanzo rivela fin dall’inizio un’arrogante Io ipertrofico di chi sentiva forse di essere il cantore della tragedia tedesca, il Goethe del XX secolo.
Il suo Faustus è tedioso e a tratti grottesco, perché all’interno dell’anacronistico schema letterario è innestato artificiosamente un progetto, più ideologico che culturale, che lo scrittore sembra voler portare a termine ad ogni costo: la dimostrazione che gli eccessi dell’arte rispecchiano la negatività stessa e gli azzardi della società.
M separa fin dall’inizio la responsabilità dell’Io narrante, dolente testimone del degrado dei tempi, da quella del personaggio di cui narra confusamente una storia sostanzialmente insensata: lo scopo implicito del racconto è quello di stigmatizzare la creatività contemporanea immersa in una negatività rivelatrice dei tempi che M sembra aver dedotto dalla cervellotica riflessione di Adorno e forse da una conoscenza epidermica di Hegel coniugata ad una generica conoscenza di Nietzsche.
E’ significativo che un pensatore come Lukacs, che ha definito con il suo sterile fanatismo ideologico Nietzsche, Kafka e altri generosi pionieri di un fertile pensiero liberatorio ‘distruttori della Ragione’, abbia esaltato invece in Mann l’avvento di un autentico e corroborante realismo critico degno di raccogliere (appunto) il lascito di Goethe.
Perché è l’adesione incondizionata al pensiero di Goethe che domina l’immaginazione di M.
Lo scrittore ripercorre il tragitto che aveva portato Goethe ad affrontare con la sua opera la realtà ineludibile e devastante della negatività con lo scopo di superarla per approdare a una serena catarsi nella forma di un classicismo moderatore, dal suicidio romantico del ‘giovane Werther’ alla caduta e salvezza del Faust, e c’è un episodio rivelatore nella vita di Goethe che può essere forse la chiave di lettura per il Faustus di Mann.
Beethoven cercava in Goethe una giustificazione filosofica della sua poetica romantica, del suo Io kantiano che lotta contro le avversità del mondo, ma il contatto con G fu deludente per il musicista, perchè il pensatore tedesco accettò con freddezza la sua musica, arrivando solamente fino allo scalino drammatico della Quinta sinfonia, dopo di che non volle ascoltare più niente di lui (dopo il primo movimento della Quinta G avrebbe detto, prima di abbandonare il concerto: ‘sembra che la casa stia per crollare’).
Ecco, anche per Mann sembra che la casa, con la musica che forza le strutture, stia per crollare.
Perché nella prospettiva reazionaria e demagogica del fanatismo ortodosso di Lukacs e dell’affine classicismo neogoethiano di Mann l’esasperazione della ricerca esperita dall’arte contemporanea è la spia rivelatrice di un malessere profondo che mina l’intera società, e va affrontata e attraversata, con un sano realismo, certo, ma con l’ansia, con l’accorata preoccupazione etica di chi spera di poterla presto superare a favore di una confortante riconciliazione con il mondo.
E’ una prospettiva assurda e illogica, che può essere elaborata solamente da chi, accecato dall’ideologia, non sa vedere ciò che rappresenta davvero l’arte contemporanea, un potente antidoto all’eccesso di senso comune del mondo postilluminista e una fonte inesauribile di malleabile libertà interiore destinata non alla collettività, ma ai singoli individui, che di quella collettività sono gli elementi costitutivi.
Mann nel suo Faustus assembla una ridicola (e inesistente) forma musicale che si muove contro lo sfondo del banale paesaggio tedesco fatto di ordine e di tradizioni locali, un mostro composito che si aggira come un Golem disorganico che ha il compito di visualizzare in vitro l’effetto di superficie del disagio della civiltà tedesca, spaventando chi lo ha creato, ma destinato comunque ad essere neutralizzato dalla presunta umanità di chi non lo teme.
Quella di Mann è la tesi più reazionaria che si possa immaginare, e poteva essere concepita solamente da chi non ama l’arte e la musica.
In tutto il libro ricorrono solo espressioni negative (pauroso, diabolico) riferite prima alle opere tarde di Beethoven e poi al pasticcio grottesco dell’opera musicale faustiana con la quale la negatività del mondo mostrerebbe quel volto demoniaco che è necessario fissare per poterlo poi dimenticare.
Nella lettura dell’opera 111 di Beethoven, dettata come è noto da Adorno, M prepara il terreno a tutte le scontate idiozie sul significato della musica che poi infestano il suo romanzo e allinea senza ritegno tutti i luoghi comuni più stupidi sul grande artista incompreso, un argomento che oggi fa sorridere e che era già ridicolo anche nel ’47.
I luoghi comuni raccolti da Mann sono davvero degni dello sciocchezzaio di Flaubert:‘Già in Beethoven troviamo passi di una libertà ritmica che fanno presagire sviluppi futuri’(?); un’affermazione ridicola, infatti è vero il contrario: sono le difficili forme del tardo B che hanno condizionato la musica successiva nel momento in cui sono diventate più agevolmente eseguibili, nel Novecento, come è successo anche per le Suites per violoncello solo di Bach, quindi non fanno presagire proprio niente, è la musica successiva che si è affannata a decifrare (peraltro incompiutamente) delle strutture profonde delle quali si era persa la necessità. Le opere tarde di B sono ancora lì, nell’eterno presente della creatività, non sono nel futuro. D’altra parte oggi le Variazioni Diabelli sono infinitamente più difficili da ascoltare e da accettare delle Sonate per pianoforte di Boulez.
M sembra incapace di leggere nelle opere tarde di B l’angoscia concreta di un uomo che ha lottato per elaborare una struttura musicale profondamente interiorizzata e che studiava Bach per ritrovare la necessità interiore che aveva dimenticato e disperso, sprecato, con la sua retorica Nona sinfonia.
Per M, infatti, il B più tardo ‘supera se stesso’ e sale alle ‘sfere’ di un mondo superiore, come vuole la deteriore mitologia dell’artista che progredisce senza sosta.
Il suo Faustus crede di avere qui, nell’analisi della 111, il suo punto di partenza, il fertile retaggio del passato, e si droga con il (demenziale) patto demoniaco perdendo il controllo di se stesso e della musica, che poi assembla in un’opera ‘totale’, dove l’orrore del mondo e la possibile delicatezza dello spirito dovrebbero convivere in un equilibrio ideale.
Ora, a parte questi invecchiati stereotipi, è interessante osservare quanta ignoranza della musica antica si nasconda nel Faustus di M dietro la tediosa ostentazione di conoscenza, e questa ignoranza è lo stesso limite che permette poi allo scrittore di assemblare senza ritegno segmenti musicali tratti da un contesto troppo complesso che evidentemente non capiva e che nonostante Adorno non poteva padroneggiare.
M ostenta una presunta conoscenza della musica facendo ricorso alla lettura dello spartito (cosa del tutto normale nel mondo tedesco), ma certe citazioni di musicisti lasciano dubitare che la sua frigida conoscenza accademica potesse mai essere anche una conoscenza profonda.
Nomina fuori luogo il meraviglioso Josquin Desprez, citato distrattamente di passaggio e incongruamente con una mediocre nota scolastica, e mostra di ignorare quasi Pérotin, che viene erroneamente descritto come ‘direttore’ (!) della musica a Notre Dame, intento a ‘sviluppare la giovane arte della polifonia’ nel sec. XII. Ma quella di Pèrotin e di Leonin non è ‘giovane arte della polifonia’ è la guglia estrema della polifonia, di una purezza imparagonabile alla scolastica formalizzazione successiva, un irripetibile eterno presente di immenso fascino. Nel 1898 era stato scoperto a Firenze un manoscritto prezioso che ha permesso la conoscenza approfondita di questi due autori straordinari, il cd Anonimo IV (cronista inglese del 1275) che parla di Pérotin e di Léonin trasmettendoci le loro opere. Possibile che solo l’arrogante e saccente Mann, nel 1947, non ne sapesse assolutamente niente?
Tutti i riferimenti al passato remoto della musica sono incredibili e penosi: con una goffaggine davvero imbarazzante M crede che la più antica conquista dei suoni sia stata, come ‘tutti sappiamo’, scrive, il denaturare il suono. Se il canto in origine era ‘un urlo su diversi gradi tonali’ si trattava di ‘strappare al caos il sistema tonale’. M a quanto pare non aveva la minima idea della complessità della creatività più arcaica. Immagina scimmioni che urlano suoni confusi e ignora lo straordinario sviluppo della percezione che stava sperimentando in profondità l’armonia e la tonalità attraverso l’esperienza del mondo fenomenico prima di coagularla in forme definite.
Secondo M la ‘musica antica’ non conosceva il ritmo (!) come fu inteso dalla musica posteriore. Mi chiedo: M conosceva la raffinata musica trecentesca di De Machault, tanto amata e studiata da Webern?
I vari riferimenti all’opera musicale faustiana del romanzo creano nel loro insieme sconnesso un grottesco museo degli orrori, in una vera e propria crisi di avversione per la creatività contemporanea, e mostrano una confusione involontariamente comica tra generi musicali che nel Novecento non si sono quasi mai incrociati né tanto meno contaminati tra di loro.
M illustra con una incredibile banalità le ‘difficoltà enormi’ poste dall’esecuzione dell’Apocalisse, il grottesco capolavoro del musicista indemoniato, mostrando una singolare insensibilità per la bellezza struggente delle opere di Schonberg e di Webern (che non sono mai nominati).
Nel romanzo non si parla mai di emozione, di struggimento, di bellezza amara e difficile che sposta di lato una bellezza epidermica e troppo facile, si parla sempre e solamente di orrore e di spavento perchè in realtà lo scrittore è eternamente ancorato a quello sconcerto provato dal suo indiscutibile maestro spirituale, da Goethe, nell’ascoltare le dissonanze inquietanti e inedite del primo movimento della Quinta.
I brani corali arrivano con i più ‘strani’ passaggi dal parlato alla musica vocale: se si tratta di un riferimento alla tecnica vocale di Schonberg è davvero triste che M definisca strano ciò che era già sperimentato anche nel teatro musicale di Wagner.
M poteva non conoscere il Mosè e Aronne (postumo, 1957) e Un sopravvissuto di Varsavia (1947), ma non poteva ignorare l’affascinante sprechgesang usato da Schonberg in Erwartung del 1909. Come si fa a definire ‘strana’ la voce in Erwartung? Chi ascolta Erwartung si innamora perdutamente della musica, di quella musica, ed è tutto il resto che diventa ‘strano’.
E’ lecito chiedersi se M fosse capace di provare vere emozioni musicali.
Nel romanzo i riferimenti generici e incoerenti alla musica contemporanea creano artificiosamente e intenzionalmente un caos insensato.
I suoni del suo pasticcio musicale vanno dal ‘puro rumore’ (ricordo dell’Intonarumori di Russolo e delle opere di Varèse) al ‘gong magico’ ‘degno dei negri’ (un goffo riferimento forse a Ionisation di Varesè, ma il gong è magico solamente negli spettacoli popolari e nell’operetta, e poi perché sarebbe degno dei negri? semmai del gamelang indocinese, noto già all’epoca di Debussy e amato poi da Artaud.
Il musicista di M compone una ‘musica minacciosa’ che vuole svelare la ‘bestia’ che c’è nell’uomo (e qui si pensa confusamente a Stravinskij, mai nominato, ma anche al Boris Godunov di Mussorgsky), una musica colpita dal rimprovero di ’barbarismo’ e di ‘esangue intellettualismo’ (dove si salda incongruamente lo Stravinskij iniziale alla sua fase Neoclassica).
L’effetto del glissando è ‘spaventevole’, i clissando del timpano provocano un ‘panico acustico’. M, come il suo amato modello Goethe, detesta la musica che impressiona e scuote.
Altrove si parla di ‘gruppi contrapposti e intrecciati’ del ‘corpo vocale’ (un generico riferimento alla Messa solenne di Beethoven e alla faustiana Sinfonia fantastica di Berlioz).
Le durezze polifoniche dell’opera (della musica atonale e dodecafonica, si immagina) pur avendo provocato ‘molto scherno e molto odio’, devono essere accettate ‘con docile stupore’, ma lo scherno si scatenava anche contro i concerti Dada e il primo Stravinskij, non solo contro i viennesi.
Non si parla mai dell’emozione profonda che può dare la musica di Schonberg. M, dopo anni di Espressionismo nelle arti figurative, sembra ancora ignorare il fatto che una forma inizialmente spiacevole possa portare ad uno spazio di grande, inedita bellezza dalla quale poi non si torna indietro.
In mezzo a tutti coloro che all’inizio hanno provato l’iniziale fastidio per la musica di Schonberg ci sono stati anche coloro che l’hanno trovata subito liberatoria e magnifica e M non era evidentemente tra questi, perché non contrappone mai, in nessun momento del libro, la fascinazione liberatoria della forma di S al fastidio epidermico che può provocare.
Mann non era innamorato della musica contemporanea, come non lo era mai stato Goethe della musica di Beethoven.
Per M è un ‘paradosso’ che la dissonanza esprima ‘tutto ciò che è serio, elevato’. Probabilmente lo scrittore pensava confusamente alla fascinosa atmosfera inquietante che apre l’oratorio La Creazione di Haydn, dove le dissonanze ci spingono verso l’accordo tonale corrispondente alla creazione della luce, e sembra quindi aver equivocato il senso di quella intimità dolcissima e tendenzialmente atonale che precede l’irruzione del mondo (tonale), dove la dissonanza esprime efficacemente la fragile interiorità, ma non ciò che è ‘serio, elevato’.
L’osmosi tra le forme musicali per M crea una ‘unità artistica’ che ha comunque ‘qualcosa di opprimente, di pericoloso, di maligno’. E’ significativo che la matrice formale della musica di Schonberg, dal Tristano e Isotta a Brahms, sia quasi del tutto assente nel libro. M ignora il percorso formale che porta dal Tristano a Brahms e a Schonberg. Probabilmente si era nutrito più dell’espressionismo epidermico e illustrativo di Strauss che non delle prime raffinate opere di Schonberg e di Webern di inizio secolo.
Secondo M, al rigore ‘spirituale’ del linguaggio che sta alla base dell’orchestra ‘severa, oscura, difficile’ si contrappone la ‘parodia’ dei più svariati stili musicali. Lo scrittore qui confonde maldestramente elementi musicali estrapolati da contesti culturali diversi: ha in mente nebulosamente l’eclettismo che suggeriva esplicitamente citazioni della Music hall con la scuola dei Sei di Parigi e con la musica teatrale di Kurt Weill.
M insiste sul concetto di barbarie, legato evidentemente alle opere di Stravinskij, che non viene mai nominato.
I ‘suoni del jazz usati solo occasionalmente e per fini puramente infernali’ sono quelli, evidentemente, de La création du monde, 1922 1923, di Darius Milhaud, che aveva collocato nell’orchestra, assieme ad un sassofono, a una batteria e a brani blues, un piccolo complesso strumentale Jazz che doveva rappresentare (appunto) il caos.
I comici ‘effetti d’altoparlante’ distribuiti ‘in vari luoghi’ derivano, a parte l’innocuo Intonarumori futurista, da Edgar Varèse, Ionisation, 1929-1931, dove vengono usate sirene e rumori accanto alle percussioni. Nel 1935 Artaud utilizzò ne I cenci (1935) violenti effetti sonori con lo scopo esplicito di creare una sensazione di panico in quello che definiva ‘teatro della crudeltà’. Varèse utilizzò poi, nel 1958, per il suo poema elettronico, 350 altoparlanti nel Padiglione Philips di Le Corbusier. Sono esperienze culturali eclettiche che M non sembra aver mai sfiorato seriamente e che non hanno niente a che fare con la musica dell’Espressionismo viennese.
I ridicoli ‘stridi gelidi’ nelle note alte degli evirati e l’inverosimile risata infernale sembrano derivare più dal teatro leggero del tempo che dalla Sinfonia Fantastica di Berlioz.
Il sonorismo materico di Varése emerge a caso: ‘un traboccante e sardonico fortissimo di tutte le voci e di tutti gli strumenti’.
L’eclettismo di M è imbarazzante: la grottesca descrizione della ‘raffica di riso infernale’ con ‘urli, latrati, stridii, muggiti’ che adesso rivela all’io narrante ‘il più profondo mistero della musica, che è un mistero di identità’ perché la ‘risata diabolica’ è contrapposto al ‘meraviglioso coro di fanciulli’ (vedi Mahler e l’uso delle voci infantili) e legato ad un ‘brano di musica delle sfere cosmiche, gelida, limpida, diafana, aspramente dissonante, ma d’una dolcezza di suoni che direi ultraterrena, inaccessibile e tale da riempire il cuore di nostalgia senza speranza’, dove si rievoca (consapevolmente?) la suggestione della ‘musica delle sfere’ che secondo Aristotele poteva essere udita solo da Pitagora (cfr. Diogene Laerzio), quindi una musica che si presume fondata sul calcolo matematico dei pitagorici.
La musica del protagonista è quindi confusamente ‘Calcolo elevato a mistero’.
Mann aveva in mente forse la mediocre Antroposofia tanto fanaticamente Goethiana di Steiner, e il suo scopo, non proprio progressista, era quello di immergersi con il suo romanzo nel mondo caotico della modernità per trovarne una confortante (Goethiana) unità, lasciando al senso comune del lettore il compito di commiserare e respingere le forme dell’estremismo sperimentale che lui non fa niente per trasmutare in preziosa esperienza.
La rabbia provata da Schonberg contro M dopo l’uscita del romanzo è più che comprensibile (l’esecuzione dell’Apocalisse avviene nel 1926, l’anno in cui Schonberg lascia la Germania per la California, dove Mann arriverà più tardi).
Ci sono tante diverse interpretazioni di questo dissidio tra Mann e Schonberg, quasi sempre a favore dello scrittore e avverse al cattivo carattere del compositore, ma una cosa è certa: anche se non sappiamo con esattezza se S abbia letto o meno il romanzo, è impossibile che non gli sia stato riferito che la sua tecnica musicale viene comunque ibridata da Mann con forme di musica materica, eclettica e teatrale assolutamente estranee alla sua cultura. Penso che l’ira di S sia dovuta alla confusione che M ha introdotto nella già difficile comprensione della sua musica.