Attribuzioni
La difficoltà di accettare l’opera come frammento di un flusso ininterrotto della creatività porta alla ricerca affannosa dell’attribuzione, che spesso però è resa possibile solamente dalla comprensione profonda della simpatia strutturale che lega tra di loro opere diverse all’interno di una stessa cultura.
L’attribuzione d’altronde ha bisogno di passare attraverso differenziate soglie di lettura.
La simpatia strutturale
Lo studio della Croce di Borbona si è esteso dal 1986, anno della mia prima conferenza nel paese, al 1995, quando pubblicai un saggio con l’attribuzione in un giornale locale. Dal 2001 al 2010 il saggio è stato reperibile in rete nel mio website.
Questo lavoro è stato una palestra a tutto campo di critica interdisciplinare, sicuramente il tragitto attributivo più completo che io mai abbia percorso fino a quel momento. Nel 1986 ho riletto prima di tutto un vecchio articolo illustrato che avevo in archivio sull’altare medioevale di Pistoia e poi cercai in Ragghianti (1962) notizie sullo scultore della parte trecentesca, che nel 1962 non era stato ancora identificato come Andrea di Jacopo d’Ognabene. Pensavo che quello doveva essere il contesto giusto per la Croce, lontano dallo stile dei Pisano e isolato anacronisticamente dalla corrente di rinnovamento, ma non avevo ancora consultato il libro di Gai sull’altare di Pistoia del 1984, che ho letto solamente dopo. Nella prima conferenza che feci a Borbona indicai comunque gli evidenti elementi toscani dell’opera.
Dopo la consultazione del testo di Gai non ebbi più dubbi sull’autore della Croce. A quel punto la cosa più importante fu individuare, nel paliotto di Città di Castello, la matrice esplicita delle forme neoromaniche che Jacopo aveva innestato nel suo linguaggio tardo duecentesco, e nella Croce di Torriti in S Giovanni in Laterano il modello concettuale che giustifica l’assetto complessivo della Croce.
La simpatia strutturale tra le opere mi ha guidato per tutto il tempo in questa lunga ricerca.
In rete è reperibile il testo completo corredato da foto.
Quando nel 1991 vidi le foto degli affreschi frammentari trovati nella catacomba di Calepodio avviai subito una ricerca accurata sulla pittura e miniatura altomedioevale e arrivai alle Storie del martirio di s Erasmo in s Maria in via Lata, sec.VIII, vicinissimi a quelli in S. Maria Antiqua (ds), dipinti straordinari che avevo appena visto nella bellissima mostra Fragmenta picta, affreschi e mosaici staccati del Medioevo romano, Castel Sant’Angelo, 1989-90 (dal 2000 questi affreschi staccati sono visibili nella Cripta Balbi, dopo tanti anni di invisibilità nel deposito inaccessibile dell’Istituto centrale del Restauro).
In quella occasione consultai alla Biblioteca Nazionale la bella copia tedesca del Codice purpureo di Rossano Calabro (sec.VIII), un libro straordinario che tanti anni dopo avrei visto in originale durante il restauro romano del 2015, con illustrazioni che mostrano una densa matericità prossima alla scena con la donna inginocchiata di fronte a Cristo di Calepodio che Andaloro nel 1987 interpretava, sia pure dubitativamente, come improbabile Lavanda dei piedi, mentre secondo me si trattava chiaramente della scena della Guarigione dell’Emorroissa o dell’episodio relativo a Lazzaro, come si vede distintamente nei due riquadri nel mosaico ravennate di S. Apollinare nuovo del V sec e nei vari altri codici purpurei.
Collegai infine un frammento di Calepodio con la Sepoltura di s Callisto, redatto in un linguaggio corsivo, franto e sconnesso, alle miniature del Pentateuco di Tours (427 c). La datazione tra la metà del sec. VIII e l’inizio del sec. IX per Calepodio era plusibile, perché si tratta di un momento cruciale di transizione tra la figurazione romana delle chiese di cultura greca e l’avvicinarsi di un linguaggio corsivo, locale e precarolingio che guardava alle miniature più narrative del passato.
Nel 1999 vidi una foto in bn di un bellissimo Cristo deriso, e dissi che doveva essere certamente un’opera importante di Simone Cantarini. Il dipinto era stato attribuito a Bernini dal proprietario che lo proponeva per la mostra Bernini regista del Barocco in preparazione a Roma. Fu esclusa l’autografia, ma l’opera fu poi riproposta e confermata in un’altra mostra con quella stessa attribuzione che in seguito è stata definitivamente consolidata da un libro. Eppure il dipinto mostrava tutte le inconfondibili caratteristiche della bella pittura materica di Cantarini, che nel 1997 (tre anni prima dell’apparizione a PV del dipinto) era stato celebrato con un grande mostra, Simone Cantarini nelle Marche (1997). Il magnifico Cristo deriso è sicuramente un’opera importante di Simone Cantarini, databile verosimilmente tra il 1643 e il 1650, gli anni della sua pittura più materica e sofferta.
(1999-2010)
Nel 2005 un goffo rilievo erratico attribuito a Donatello è stato esposto a PV e identificato come parte integrante del sepolcro di Caterina da Siena (1430) in S. Maria sopra Minerva, disgregato nel 1579.
Le motivazioni dell’attribuzione erano ridicole e burocratiche, basate sull’autorità (discutibile) di Zeri.
Entrando nella sala nella quale il rilievo era esposto pensai, mentre mi avvicinavo, che non poteva essere un’opera del mio amato Donatello, ma semmai del geniale michelangiolesco che fino ad allora avevo chiamato Maestro del Monumento Grifoni (2011).
Dopo aver visto più volte il delicatissimo rilievo napoletano di Donatello a S. Nilo, esplicito modello del rilievo romano, non ho avuto più dubbi: il fanatico, affascinante allievo di M ha ripercorso uno per uno tutti i dettagli donatelliani di Napoli leggendoli attraverso il filtro dell’incompiuto del maestro.
Ho ricostruito tutto il percorso analizzando i dettagli più minuti e rivelatori del ductus e inventariando tutti i riferimenti letterali a Donatello. Successivamente il rilievo è stato esposto ancora in una mostra sul ‘400 al Museo del Corso, con la stessa grottesca attribuzione sulla quale sembra che nessuno abbia mai avuto niente da ridire, ma che forse provoca un po’ di imbarazzo.
Nell’orribile mostra dedicata a Michelangelo dai Musei capitolini nel 2014 ho osservato bene la piccola scultura in legno con un Crocefisso abbozzato che conoscevo dalle foto e che mi aveva sempre incuriosito per la sua anomalìa. Dopo averla esaminata da vicino ho escluso che potesse essere di Michelangelo (1563): è molto vicina alla Pietà di Palestrina, altrettanto sgrammaticata anatomicamente e disordinatamente, meravigliosamente corrusca, e l’ho attribuita senz’altro al mio Maestro del monumento Grifoni.
Dopo aver studiato le varie opere attribuite allo scultore quattrocentesco Amadeo a Cremona, Milano, Pavia, Parma e Bergamo, ho ipotizzato che dietro un gruppo di opere attribuito da sempre a questo scultore ci sia invece un autore che ho chiamato Maestro dei rilievi neotestamentari della Certosa di Pavia, un collaboratore del maestro dotato di una sua peculiare, riconoscibilissima personalità e di una maniera più aspra di quella degli espressionisti Mantegazza attivi negli stessi spazi. Se Amadeo è stato un abile organizzatore di committenze, estese dall’architettura alla gestione capillare di una vasta bottega di scultori, è possibile che uno dei suoi collaboratori (magari uno dei due Cazzaniga) possa aver elaborato una sua tecnica espressiva di grande e acuta aggressività segnica, con una insofferenza estrema per l’ordine prospettico e per la solidità plastica dei volumi che nei suoi rilievi sono sempre assottigliati e tesi fino allo spasimo, spesso traforati quasi con rabbia e ridotti a due sole spettrali dimensioni.
Il corpus ristretto di opere che attribuisco a questo maestro è vincolato da una ineludibile simpatia strutturale.
2014
L’immediato riconoscimento della forma
Quando mi mostrarono le foto a colori del grande ciclo di affreschi ritrovati a Roma nel 1989 nel monastero dei Santi Quattro Coronati e allora visibili solamente in foto grazie ad un restauro iniziato nel 1997, riconobbi facilmente che c’erano di mezzo i Maestri di Anagni. Chi ha scoperto e studiato il ciclo lo data infatti al 1246 con riferimento esplicito alla Cripta di Anagni (1231 c).
2009. Il Battesimo di Cristo, nella chiesa di S. Michele di Arpino, restaurato nel 2008, è stato attribuito ad anonimo pittore fiammingo del sec. XVII, ma il dipinto è invece evidentemente un’opera magnifica e inedita di Fabrizio Santafede (Napoli,1576-1624), realizzata probabilmente negli anni attorno al 1608-1609. Ho ricostruito accuratamente tutte le fasi dell’attribuzione. Sono stato attratto per la prima volta dai dipinti di Santafede scoprendo una bella foto in bn della suggestiva Deposizione del 1603 (Napoli, Monte di pietà) erroneamente assegnata al territorio laziale confinante con la Campania e priva di autore.
Un bel dipinto di Della Vecchia, privo di didascalia, era facilmente attribuibile a vista nel Castello di San Giusto a Trieste; nella mostra dedicata all’Antiquariato in PV (2012) è stato facile individuare subito dei bellissimi dipinti di Ippolito Caffi e due opere di Carpioni.
Nel Museo Civico Lia di La Spezia (2014) ho riconosciuto un bel dipinto di Cariani mai visto prima.
In un’altra Biennale di Antiquariato in PV (2014) ho identificato, prima di leggere la didascalia, una bella tavola greca a due ante databile al Seicento, parte di un recinto liturgico, che poteva far pensare al medioevo bizantino se le figure dense, i visi carnosi, e l’intensità materica di tutta l’opera non mi avessero fatto capire che si trattava di un’opera di area tirrenica del 1500, come infatti era classificata.
Ignorare gli stereotipi
Contro l’idiozia di chi per i Bronzi di Riace nominò subito Fidia pensai invece immediatamente a Pitagora di Reggio e semmai a Kalamide, l’autore che poi è stato nominato più spesso in attesa dell’attribuzione di Paolo Moreno per Agelada (Bronzo A, 450, Tideo dei Sette contro Tebe) e per Alcamene (Bronzo B, Anfiarao, 440). Ho pensato prima a Pitagora perchè i bronzi mi sembravano troppo superficiali e troppo esplicitamente spettacolari per essere opera di un autore colto come Kalamide, mi interessava il fatto che di Pitagora di Reggio fosse sopravvissuta solamente la fama di grande cesellatore dei dettagli descrittivi, e nel 2000 Daniele Castrizio, contraddicendo il bravo Moreno, ha comunque attribuito i due bronzi proprio a Pitagora (Etocle il b.B e Polinice il b.A) citando Plinio il Vecchio (77 dc) e Pausania (110-180 dc).
Ho attribuito un monumento a Francesco Cavallini nonostante i pareri autorevoli di studiosi specialisti che lo davano a Guidi a causa, suppongo, delle evidenti e inevitabili riprese stilistiche e iconografiche.
Percezione della qualità
Lo smalto straordinario di PV con il Pantocratore è facilmente identificabile se messo accanto agli smalti magnifici della Pala d’oro di Venezia (XII secolo), con i quali condivide i minimi dettagli costruttivi e iconografici, eppure si continua a pensarlo come opera italiana della metà del Duecento.
Importanza della prima impressione
Ho provato spesso la piacevole sensazione che può dare l’immediato riconoscimento a prima vista di un autore. Mi è capitato a Lucca, nella Pinacoteca di Palazzo Mansi, con un grande e raro dipinto di Ferdinand Bol (Olanda, 1680), un Sacrificio di Isacco che non conoscevo. Che si trattasse di Bol me lo diceva l’impasto arioso di segni di Rembrandt e di Rubens, la sua cifra stilistica.
Quando lavoravo alla GNAM negli anni ’80 un restauratore mi mostrò le foto di una piccola Croce intagliata in legno di bosso e coperta di scritte conservata al Monte Soratte. Vedevo per la prima volta quella forma insolita, costruita con anomali spazi cubici alleggeriti in filigrana da una densa decorazione a traforo, però dissi che doveva essere un’opera tardo bizantina. Era bizantina la severità delle forme serrate e amare, la contrazione della materia architettonica analoga a quella degli edifici greci visibili in Italia, il sapore suggestivo del mondo mediorientale che ci arriva dalle opere ibride della cultura ebraica e tirrenica. Per confermare la mia attribuzione studiai quella tipologia atipica e ricostruii un piccolo corpus di opere analoghe (altre le vidi più tardi nei depositi del museo di PV): oggi, nel 2011, nel catalogo delle sculture in legno del Museo di PV rivedo quelle due piccole croci veneto cretesi (Sockeljreuze), una in acero, del sec. XVI, e l’altra in corniolo, del sec XVII. L’autrice del catalogo classifica la Croce di Soratte come postbizantina, sec XVI, confermando pienamente ciò che avevo pensato a suo tempo vedendo le foto. E ora si conosce anche il nome di uno di questi autori adriatici, Zuan Zorzi Lascaris, un artista forse greco e attivo a Venezia.
Indagini sul territorio
Per Borbona ho lavorato per anni all’attribuzione del maggior numero possibile di opere. A parte la Croce, sono soddisfatto per l’attribuzione a bottega di Simon Vouet della Crocefissione della parrocchiale, degli affreschi di Vincenzo Manenti e bottega, degli affreschi del Maestro della Madonna della Misericordia di Amatrice scoperti in s Anna, della Crocefissione da Stradano, dell’Ecce Homo da Ludovico Carracci e della lastra erratica romanica.
A queste opere aggiungo il corpus di sculture varie, soprattutto la bella testa in terracotta che ho attribuito a Carlo dell’Aquila.
Nel website della Biblioteca comunale di Borbona sono reperibili in pdf i testi completi.
E’ di Flaminio Torri la s. Barbara di Poggio Mirteto, in s.Agostino, inedita, che può essere messa a confronto con le numerose opere di Torri della galleria Pallavicini, soprattutto con la Madonna in preghiera.
Riflettevo da tempo sulla qualità di una bellissima Madonna orante conservata in una chiesa del Lazio meridionale in provincia di Latina.
In un primo momento, guardando le foto in bn, ho pensato allo scultore napoletano Tommaso Malvito, vista la forte impronta lauranesca della scultura e il modellato atipico della veste plastica che ricorda quello singolare del monumento Carafa del Duomo di Napoli che avevo notato come opera di singolare qualità; successivamente però un saggio sul Bollettino d’Arte (1991) mi ha convito che l’opera può essere attribuita senz’altro all’anonimo autore lauranesco della Vergine annunziata del Museo diocesano di Squillace, conservando un forte interesse per il ritratto Carafa di Napoli, attribuito a Giovanni Antonio Malvito, figlio di Tommaso, che a quanto pare era considerato dai contemporanei ‘più bravo del padre’.
Imparare dagli errori
Loreto, Santuario (2012). Gli stucchi di Francesco Silva (1611), nell’ambiente che precede la sacrestia, mi sono sembrati a prima vista di Federico Brandani (+1575), lo stuccatore delicatissimo che scoprii tanti anni fa a Senigallia e attivo anche a Loreto. E’ evidente la derivazione dell’opera di Silva da quella di Brandani, nonostante la sua forte qualità autonoma.
I due bellissimi, vividi dipinti del Museo del santuario (marine in tempesta) li ho attribuiti immediatamente a Magnasco, ma a quanto pare sono invece di Antonio Francesco Peruzzini, un pittore anconetano che sembra essere stato messo in ombra come paesaggista proprio dalla notorità di Alessandro Magnasco, con il quale collaborava.
Attribuzioni inaccettabili
Il Doppio ritratto del museo di Palazzo Venezia è stato attr. da sempre, e quasi senza discussioni, a Giorgione, nonostante le vistose incongruenze che lo rendono incompatibile con l’opera di quel pittore. Io ho sempre pensato invece a un’opera significativa di Giovanni Busi d. Cariani (+1547) e oggi ne sono più che mai convinto. E penso che anche la Maddalena (mercato antiquario) attribuita da Longhi a Giorgione giovane possa essere invece una bella opera di Cariani analoga a un altro ritratto del pittore che ho visto nella Pinacoteca del Museo Sforzesco, una maestosa figura di donna. Per la Maddalena, Antonio Pinelli, inflessibile fustigatore delle cattive attribuzioni, ha messo apertamente in discussione l’attribuzione di Longhi sostenendo in un suo articolo che il quadro non mostra ‘nulla di particolarmente giorgionesco. Può essere un belliniano qualsiasi’.
Nel 2004 arrivano i primi dubbi sul dipinto di PV: si legge che un restauro dovrà risolvere ‘L’annoso problema dell’attribuzione’ (L’enigma del doppio ritratto, GdA n.235).
2013. Il dipinto è in mostra a Padova (Pietro Bembo e l’invenzione del rinascimento) e sull’inserto domenicale de IlSole24Ore Gonzales Palcios dubita con eccessiva prudenza dell’autografia: ‘problematica resta la scelta dei quadri di Giorgione, quattro lavori che presentano qualche difficoltà di lettura. Parlo ( ) di tre ritratti conservati a San Francisco, a Budapest e a Roma ( ) certe durezze formali non fanno che acuire l’incertezza’ (ho visto altrove la foto di uno dei tre dipinti, un giovane con un libro aperto in mano, molto vicino con le sue dure squadrature e le sue sottolineature segniche a quello di PV).
Una mostra recente in PV (2017) invece ribadisce, a quanto pare, l’autografia del dipinto. Pazienza.
2009. Un modesto e illustrativo Lorenzo dè Medici (Londra, mercato antiquario) viene attr. a Raffaello anche dal Giornale dell’arte, ma un ingrandimento a piena pagina mostra il dipinto in tutta la sua pochezza. E’ opera di un mediocre discepolo di Sebastiano del Piombo?
2006. Un bel disegno è stato attr. a Leonardo (Testa di vecchia, coll. privata) con l’approvazione di una esperta di grafica antica. Ma il segno leggerissimo e fresco fa pensare a un disegno settecentesco, una caricatura esplicitamente legata anche troppo vistosamente ai prototipi di Leonardo che non mi sembra abbiamo mai questa svogliata lievità (l’autrice dell’attr. comunque ammette interventi settecenteschi).
2009. Il Venerdi pubblica un ridicolo ritratto di Bianca Sforza attr. a Leonardo con l’approvazione di Pedretti. Sembra invece un brutto disegno ottocentesco, come infatti è stato considerato in passato, assolutamente privo di realtà e frutto del più timido e incolto eclettismo neocinquecentesco.
Il dipinto è stato messo in mostra a Monza come opera di Leonardo.
Faenza. Nella pinacoteca comunale c’è una bella scultura lignea (s Girolamo) attribuita a Donatello. A me sembra invece un’opera di un autore del nord Italia vicino a Mantegazza o ad ambiente di Amadeo, un espressionista disordinato, ossessionato dalle torsioni del corpo e dalla testa tormentata, ma trasognato e insensato, lontano dal rigore estremo di Donatello.
2009. E’ davvero sconcertante e incredibile il caso del ridicolo s Giovanni attr. universalmente a Leonardo (Louvre), ben visibile a Roma nella mostra Patroni d’Italia, Viaggio nei secoli fra potere e santità, Pal. Venezia, 2009. Si tratta evidentemente di un goffo e sgrammaticato autoritratto alla maniera leonardesca che l’insulso e capriccioso Salai (Gian Giacomo Capriotti) può aver desunto dal bel disegno del maestro che lo ritrae (con il suo inserto erotico) come sensuale ermafrodito. Con l’occasione della trasferta italiana del dipinto tutti gli studiosi hanno scritto delle cose davvero insensate. E’ uscito di recente un libro su Salai che ignoro perché non ho motivo di avere dubbi sul brutto dipinto del Louvre.
Adesso (2013) un’orribile ‘Testa di cristo’ attribuita a Salai è stata donata all’Ambrosiana di Milano (GdA, 5,13): il ductus opaco e la goffaggine dei dettagli, i ridicoli capelli posticci, il corpo inerte e privo di anatomia, accostano questo brutto dipinto al deprimente S. Giovanni del Louvre.
2009. Nel bel museo Colle del Duomo di Viterbo c’è una Crocefissione (che avevo già notato in una foto in Archivio) attr. a Michelangelo, un dipinto che rientra invece evidentemente, in parte, nel gruppo delle opere desunte dai modelli di Venusti.
Nel 2000 è stato messo in mostra, a Palazzo Giustiniani, il goffo e neoclassico Cristo Redentore proveniente da Bassano Romano con una risoluta (e inverosimile) attr. a Michelangelo che nessuno ha osato contestare.
Nella mostra La forma del Rinascimento, a Palazzo Venezia, figurava un grottesco Eolo (da S.Maria Maddalena di Capranica Prenestina) che sarebbe opera di Michelangelo solamente perché imita in forme ridicole la capigliatura del David; un lavoro banale e sgrammaticato che può essere opera semmai dell’autore dei mediocri rilievi michelangioleschi murati dell’atrio della Galleria Borghese.
L’ossessione caravaggesca
2006. Nella mostra su Caravaggio dell’Ala Mazzoniana di Termini è stata presentata una Chiamata di Pietro e Andrea, di proprietà reale inglese, attribuita a C da Denis Mahon, un venerando studioso che nessuno osa smentire neanche di fronte a questa ridicola attribuzione.
Musei Capitolini. Ho sempre pensato che la Buona Ventura non sia affatto un’opera di Caravaggio: il mediocre autore del dipinto ignora il saldo naturalismo lombardo, non ha nessuna sensibilità per la corposa verità materica di Lotto, e ignora l’anatomia delle figure, collocate peraltro contro uno sfondo insensato. Il pittore inoltre ha utilizzato un incolto e inerte ductus, e sarebbe comunque ridicolo pensare che C abbia voluto replicare così banalmente il suo dipinto del Louvre.
Brera. Cena in Emmaus. Confermo, dopo varie visite a Brera, la mia impressione che la Cena non sia un dipinto di Caravaggio, ma di un generoso caravaggesco limitato dal suo pensare la pittura solamente come insieme di pacati tasselli tonali legati da un disegno devitalizzato che non fa certo pensare al rigore icastico lombardo di C. Ed è proprio la ripetizione insensata dei troppo puntuali dettagli caravaggeschi che conferma per me questa estraneità da C.
In una mostra recente, Caravaggio e il genio di Roma, 1592-1623, Palazzo Venezia (2001), la Sacra Famiglia con San Giovannino proveniente da New York, collezione privata, è stata attribuita senza motivo a Caravaggio. Mi è stata subito chiara la presenza di Giovanni Battistello Caracciolo.
Il mio testo è rimasto leggibile in rete dal 2001 al 2009.
2002. Incredibile e imbarazzante l’attribuzione a Caravaggio dell’interessante ma goffo S. Gennaro di Palestrina, avallata da vari studiosi. Si tratta di un dipinto che è evidentemente il frutto di un generoso e immaturo pittore napoletano caravaggesco, magari un maldestro seguace di Battistello Caracciolo.
2009. Una goffa Incoronazione di spine (Genova) è attribuita senza motivo a Caravaggio.
2010. Grottesca attribuzione (L’Osservatore Romano) a Caravaggio di un inverosimile S. Lorenzo. Sui giornali ho visto all’inizio solo un particolare, più che sufficiente per sorridere dell’attribuzione, poi ho visto il dipinto esposto nell’anticamera della Sacrestia del Gesù e non ho avuto dubbi: insignificante e sciatto, può essere al massimo un’opera mediocre di ambito di Caroselli o di Tommaso Salini.
2011. Ennesima e ridicola attr. a Caravaggio: un inverosimile s. Agostino in collezione privata. L’inserto del Sole24Ore lo mette in prima pagina senza pudore:‘sempre citato dalle fonti, il quadro era sparito nell’Ottocento’.
Ricordo le polemiche di trent’anni fa sui brutti dipinti di natura morta che Zeri aveva attribuito a Caravaggio esponendoli a Palazzo Venezia. Oggi sono riconosciuti come opere del modesto Maestro di Hartford. Allora trovai subito grottesca l’attribuzione.
2012. Luglio. Due studiosi sostengono di aver trovato cento disegni di Caravaggio (!) nel Fondo Peterzano del Castello Sforzesco, ma già dalle prime foto si vede benissimo che si tratta di studi rigidi e pienamente secenteschi. In uno ho riconosciuto fin troppo facilmente lo Schiavone di Reni che tanti pittori del primo Seicento hanno usato come modello. Un articolo recente su IlSole24Ore mette a confronto questo insignificante disegno con la terracotta di Reni senza dire però che quel modello è stato usato in tantissimi dipinti romani e definendolo ‘accademia’, come se fosse stato uno studio di anatomia e non una preparazione destinata esplicitamente alla pittura (lo stesso Reni lo ha inserito nella sua Adorazione dei pastori).
Nei mesi seguenti tutti hanno riconosciuto l’assurdità dell’attribuzione.