Reverie del gioiello

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Reverie del gioiello

Una possibile specificità del gioiello é stata già suggerita altrove (Attraversare l’esteticità diffusa), trovando nella straordinaria Collana con arachidi del Signore di Sipan della Cultura Mochica (Perù, II sec dc) un modello di ineguagliabile intensità creativa e concettuale.
Qui preme osservare che la fenomenologia del gioiello può essere interpretata nel contesto più vasto della complessa architettura dell’abito, dove la fragile organicità del corpo viene assediata da una bassa marea che lascia sedimentare sulla superficie del vestito e del corpo i detriti inorganici che sembrano essere irresistibilmente calamitati verso il centro della materia organica.
I gioielli non si limitano a proteggere le parti vulnerabili del corpo, come pensava Levi Strauss dando credito alle dichiarazioni raccolte sul campo, ma riflettono invece con ambiguità tutto ciò che è ostile al corpo, sono la contraddittoria proiezione esterna di tutto ciò che è malato e ostile all’organismo, come dimostra l’uso taumaturgico delle pietre medioevali dove il gioiello è lo snodo insidioso tra salute e guarigione.
I gioielli fronteggiano con durezza la realtà della pelle sul fronte discontinuo dell’abito e delle sue metamorfosi. Se la difendono, la pelle, lo fanno in virtù della loro natura apotropaica, come oggetti che imitano le forme dei grumi da respingere e da espellere.
D’altra parte, i gioielli più antichi come gli scarabei egiziani saldano l’immagine dello sterco a quella del sole perché continuano l’esperienza arcaica del grumo di materia che si colloca insistentemente ai confini del corpo come ganglio vitale e come reliquia, come intercapedine tra il dilagare dell’inorganico e la fragile esistenza dell’organismo (e la perla è infatti un ibrido di organico e di inorganico).

Ebbene, nell’ambito dell’esteticità diffusa sembra mancare una corretta lettura critica di questa interessante forma creativa, manca un’interpretazione che esuli dallo sterile e fuorviante fanatismo sociologico e contenutistico. Unica eccezione, la splendida pagina che Ragghianti ha dedicato a suo tempo al Reliquiario del dente del tesoro del Duomo di Monza databile al sec. VII con possibili rimaneggiamenti nei sec. VIII e IX (L’Arte in Italia, Dal secolo V al secolo XI, 1968) (v Fertilità del pensiero poetante).

Thomas Gainsborough, Ritratto di Lady Innes, 1757

Per capire il senso del gioiello è necessario osservare prima di tutto l’arredo del corpo che può permettersi di esserne del tutto privo. I raffinati ritratti di Gainsborough, realizzati nell’ambito della cultura più matura e civile del Settecento illuminista, mostrano un abito (un corpo) che non tollera costrizioni arbitrarie e che nega il gioiello come strumento di coercizione, come catena o come pietra taumaturgica. La limpidezza disarmante di questi ritratti, la loro freschezza, dice tutto ciò che é importante sapere sul gioiello come strumento di oppressione e di vincolo irrazionale e indesiderato.

Nodi e catene

Gioielli greco-romani in oro con ilnodo erculeo’

Già i nodi dell’oreficeria greco-romana mostrano il visionario carattere trasfigurante del gioiello, una forma ambigua che qui limita e costringe il corpo sequestrando l’immaginazione con il fascino perturbante dell’oro e della sua fragilità; segni anamorfici dell’oppressione e del dolore individuale che vengono poi accettati e amati proprio in virtù nella loro dimensione di retorica, seduttiva trasfigurazione.

Urs Graf, Giovane Donna, 1518, Basilea

I pittori hanno saputo trascrivere questa struggente ambiguità: Urs Graf, pittore ipersensibile e soldato, coglie con estrema acutezza la realtà delle incredibili catene d’oreficeria che gravano pesantemente sul corpo nel Cinquecento, ed è quel suo segno isterico e svuotato che registra il caos di un abito (di un corpo) che è eternamente assillato e sedotto da segni periferici che ne sviano la percezione reale.

Lucas Cranach, Ritratto di una principessa di Sassonia, 1517

E anche Cranach capisce perfettamente la metamorfosi che spinge la catena a mutarsi da strumento di sofferenza in una dolente e compressa panoplia di armi individuale, in una parossistica cancellazione della sua vera funzione.
Se Urs Graf esaspera la maglia grafica dell’opera per saldare la catena al corpo in una soffocante e irrevocabile simbiosi, Cranach, con un espressionismo più statico e ancora più incattivito, mette a fuoco con esasperante lucidità la lenta mutazione che annulla la discrepanza tra organico e inorganico.

Sofonisba Anguissola, Ritratto di Bianca Ponzoni, 1557

Nella meno aggressiva cultura figurativa italiana una pittrice colta come Sofonisba Anguissola mette in scena il gioiello nelle sue forme più addolcite e inoffensive, ma lo colloca in uno scenario di struggente intensità, nella reverie che lo mostra come confine sfuggente sullo schermo tendenzialmente piatto di un abito dilatato come un vasto territorio miniaturizzato.

Francois Clouet, Elisabetta d’Austria, 1570 c.

Nella cultura francese di Francois Clouet, più epidermica, il corpo è invece interamente colonnizzato dalle materie inorganiche che qui dilagano ovunque in un assetto di stilizzata e devitalizzata catalogazione.

Ritratto della Contessa di Leicester, 1585 c

E anche nella cultura inglese di fine Cinquecento si impone un’ossessa stilizzazione che occulta la presenza del gioiello nello sfondo di un abito dilatato fino alla perdita della percezione della forma del corpo stesso, momentaneo inabissarsi del perturbante nel tunnel della ripetizione manieristica.

P. P. Rubens, Ritratto di Hélène Fourment, 1638 c, particolare
Francia-Olanda, Gioiello,1630, Coll. privata

Il ritratto della moglie Hélène Fourment di Rubens permette di visualizzare il ruolo del gioiello nell’estetica barocca: un grande gioiello del 1630 (oggi conservato in collezione privata) è collocato al centro dell’abito come unico punto focale e come massa implosa dotata di una energia centripeta che contrasta quella centrifuga che invece espande e scioglie liberamente nello spazio l’abito e il corpo stesso, divaricati e quasi privi di ostacoli.

Ritratto di Margherita d’Orleans, fine sec. VII

Poi, nel ritratto di Margherita d’Orleans, regnante in Toscana fino al 1721, gli oggetti dell’assedio inorganico al corpo sembrano radicarsi come oscure minacce all’integrità del corpo stesso, in un contesto estetico che respira la loro ambiguità come catarsi di una sfocata e sgradevole, dannata memoria storica.
Il gioiello adesso va alla deriva lungo il confine dell’organico trainato dall’espansione di un abito al quale oppone la sua perturbante, morbosa fissità iconica.

Spagna,Pendente, fine sec XVII, Poldi Pezzoli, Milano

Se il magnifico Collare Mochica sconfina quasi dalla specificità del gioiello con la sua radicalità concettuale che permette al dettaglio più infimo della sopravvivenza materiale (il seme di arachide) di comporre un mosaico di trascendente luce solare e lunare (l’oro e l’agento), l’inquietante pendente spagnolo del Poldi Pezzoli, databile a fine Seicento, incarna invece perfettamente tale specificità: le deformi, malate perle barocche del pendente sono inserite con morbosa icasticità in un telaio delineato nello spazio nudo dai bordi neri smaltati dei castoni; dall’alto, dalla fragile struttura in oro che si espone in filigrana sostenendo quasi in bilico le perle più piccole e isolando quella più grande come una minacciosa reliquia, cala pesante e ossessivo il mosaico di grumi opachi con un’affascinante luce olivastra che costringe lo sguardo ad una innaturale fissità.
Ecco, qui domina con una forza inedita e irripetibile il perturbante, la reverie pura, la stimmung del gioiello inteso come reliquiario di un malessere indefinibile che si nutre della sua stessa raffigurazione plastica.

Il gioiello contemporaneo nella palude della stilizzazione

Lontano dalla necessità perduta del gioiello antico, le opere del Novecento europeo hanno subìto lo stesso triste degradarsi stilistico e la stessa perdita di necessità che porta all’inaridirsi anche la numismatica, la sfragistica e l’abito stesso.
Gli autori novecenteschi hanno creduto, come i pittori, gli scultori e gli architetti, di dover superare le forme di una presunta tradizione, che poi si riduceva alle forme dell’eclettismo ottocentesco, senza rendersi conto che nella loro opera, in questa condizione di ossessiva e irrazionale ansia del superamento, agiva con una prepotenza devastante la memoria sfocata e a volte inconsapevole delle forme d’arte già collocate ai margini della cultura occidentale.
E accanto alla consapevole ripetizione scolastica delle forme etrusche e greco-romane, dell’aggressiva memoria delle pietre barbariche e del pittoricismo settecentesco, si è insinuata nel lavoro dei gioiellieri contemporanei la memoria inavvertita di forme di grande intensità che il mito equivoco del progressivo superamento ha sempre fatto immaginare come inesistenti anticipazioni del manieristico gusto contemporaneo.
Non c’è un solo stile della gioielleria novecentesca che non sia esplicitamente debitore di forme già sperimentate in passato, forme che non sono state ulteriormente sviluppate e indagate, ma solamente stilizzate e neutralizzate nello spazio del più ottuso accademismo scolastico.

Orecchino etrusco; Cartier

Le opere di Cartier fanno sorridere se messe a confronto con gli sconcertanti modelli originali.

Bracciale greco-romano; Cartier; Bulgari

Cartier e Bulgari trascrivono i delicati braccialetti in oro del mondo greco-romano in una insignificante materia goffa e inerte del tutto priva di verità.

Corona aurea; Bulgari

Le pesanti pietre di Bulgari sono desunte dalle oreficerie medioevali, dal culto barbarico per le pietre, ma non conservano niente di quella stuporosa icasticità che anzi vanificano.

Oro etrusco; Bulgari

Ciò che sembra essere un ingenuo aggiornamento sulle forme della scultura contemporanea non è altro che la memoria confusa delle forme più antiche che giustificano il loro design abbreviato e sintetico all’interno di un più ampio e complesso contesto formale fondato sull’irregolarità della luce e del movimento del corpo, sulla reverie del tempo astorico che il Novecento scolastico invece ignora.

Croce di Berengario; Faraone

Anche altri, come Faraone, guardano alle pietre medioevali senza rendersi conto del contesto che rendeva quelle opere necessarie.

Orecchino da una tomba romana; Morellato

Le forme aperte di Morellato sono mutuate in realtà dagli orecchini romani.

Armille romane; Buccellati

Il pittoricismo epidermico di Buccellati è memore delle vibranti superfici d’oro delle armille romane.

Parigi, Chaumet, 1894; Balestra

L’ariosità pittorica delle opere di Balestra mostra i segni della gioielleria settecentesca trasmessa al gusto eclettico dell’Ottocento.

Pomellato; Eleuteri

Il naturalismo devitalizzato di Pomellato e di Eleuteri ripete stancamente i modelli arcaici.

Romania, epoca preromana; Montebello

Opere come quelle di Montebello, che ostentano un’ingenua stìlizzazione e un assetto apparentemente informale, non mostrano altro che l’eco attenuato di forme antiche trasmesse al gioiello dalla vuota scultura novecentesca.
Il segno perturbante della ferita simbolica, la stigilatura sulla pelle d’oro, si riduce tristemente ad una insensata frattura priva di necessità.
2011-2014