La reverie dell’abito
L’abito come arredo del corpo, come design modellato a dissimiglianza del corpo, è una forma d’arte come lo sono la pittura, il mobile, l’oreficeria, ma per essere compreso nella sua realtà di autonoma forma creativa ha bisogno dell’adozione di quella sottile calibratura della macchina percettiva che rende possibile anche l’ascolto profondo della musica, perché necessita di un analogo abbandono al flusso discontinuo e alla contraddittoria interferenza di quel riverbero mnemonico che rimuove lo stagno profondo di tutto ciò che di inconsapevole anche l’abito oscuramente rievoca.
L’abito reclama, nei suoi momenti di alto livello qualitativo, la stessa percezione intima che è necessaria per la comprensione della poesia, perché può essere capace, come la poesia, di confessare struggenti e opache suggestioni interiori, come avviene nel caso degli sconcertanti vestiti tranciati che permettevano ai lanzi imperiali del Sacco di Roma, in una forma di straordinario esorcismo della paura, di indossare le ferite virtuali di tutti i possibili colpi futuri inferti sulla carne viva, come mostrano le straordinarie incisioni di Urs Graf, soldato e pittore.
C’è una trama nella quale il corpo nudo si cala dall’alto per adeguarvisi, per cercare di essere ciò che l’abito stesso, progettato da altri, gli suggerisce di poter essere, un progetto creativo che viene adottato come normativo modello di comportamento e come laboratorio di posture, un modello imprevedibile che può sollecitare e rianimare profondi stati d’animo pescando a strascico in profondità i segnali muti che integrano le carenze e i vuoti della parola stessa.
L’abito dialoga con gli oggetti plastici disseminati al confine del corpo: con gli argenti, gli ori, i bronzi, le monete, i sigilli, tutti detriti inorganici che gravitano alla deriva verso l’accidentata terra di confine che protegge la fragilità organica del corpo nudo per approdare a quella zona di frontiera che viene presidiata soprattutto dai gioielli, calamitati a forza sul corpo con la loro innaturale energia sempre oscillante tra la pietra taumaturgica e il segno che dissimula la prigionia e la sottomissione al potere di altri.
E a volte l’abito può essere anche il verosimile aristotelico che sostituisce l’imponderabile e sfuggente vero naturale.
L’abito è uno strumento calibrato progressivamente nel tempo per intercettare i segni dell’ambiente circostante: lo sappiamo dalle stupefacenti pianete del 1600 e del 1700, che nei loro momenti più autentici mostrano la matrice di un’impressionante, ipersensibile energia visiva come anamorfosi delle forme plastiche dello spazio delle grandi chiese nelle quali si muovono, capolavori plastici visionari che non è possibile comprendere se non rispettando la loro unica condizione naturale che è il puro movimento nello spazio per il quale sono stati previsti e spiandoli nell’illuminazione di una luce naturale che non possa accecarne la trama contraddittoria con la quale si innestano i nervi isterici dell’argento e dell’oro nello spessore epidermico e ferito del tessuto.
Solamente la pittura di Rosso Fiorentino, di Pontormo, di Graf e di Goya, ha saputo raccontare davvero l’abito che esiste nel conflitto che separa ambiguamente il corpo dalla deriva inorganica che ne insidia la stabilità strutturale.
2006
Vedere il corpo sotto la pelle
‘Godi (..) prima che quel che nell’età dorata / fu oro, giglio, garofano, cristallo / non solo argento e viola disfiorata / divenga, ma con esso insieme tu / terra, polvere, fumo, ombra, nulla’.
(Luis De Gòngora)
Nella figura di giovane uomo dipinta da Giorgione da Castefranco nello spazio denudato de La tempesta (1508) vediamo distintamente un uomo privato della sua pelle. Ne vediamo i muscoli rossi volontari (il giacchetto) e i muscoli bianchi involontari (la camicia), vediamo la carne dove il tessuto tranciato imita le ferite di virtuali colpi di spada e vediamo ancora questa divisione nel rosso e nel bianco alternato delle calze. Vediamo la sua carne sotto la pelle.
Il dipinto di Giorgione è il frutto di una rinnovata sensibilità per la materia e per il corpo che dal Quattrocento al Cinquecento viene stimolata anche dalla lettura del De rerun natura di Lucrezio.
Qui, ne La tempesta, il corpo è innestato vivo nel dilatato spazio naturale che lo ospita, ed è spostato di lato perché di quello spazio il corpo umano è solamente una componente, é per questo che vediamo la sua carne apparentemente priva di protezione. Questa lucida visualizzazione è il segno della necessità di alimentare una perturbante reverie del corpo che ci permette forse di capire la realtà creativa dell’abito, che del corpo costituisce da sempre un plastico e malleabile esoscheletro materiato di intensa esteticità.
La realtà inquietante del corpo ha sempre costituito una sfida emozionante per gli artisti; un pittore ipersensibile come Giovanni da Milano ne ha scavato con spietata crudezza la densità più opaca con la sua impressionante Trinità del 1360, realizzata subito dopo l’incubo della peste. Prima di lui solamente Cimabue, con la Crocefissione, ha saputo raccontare davvero la dolente e disarmata fisicità della materia organica, e anche l’opera di Giovanni, come era già accaduto a quella di Cimabue con Giotto di Bondone, è stata poi corretta e tendenzialmente cancellata da una pittura spettacolare come é quella di Altichiero che aveva lo scopo implicito di depurare il perturbante a favore di una seducente osmosi pacificatrice tra la materia organica del corpo e quella inorganica degli oggetti che lo assediano.
Ebbene, la nudità perturbante delle straordinarie figure dipinte da Cimabue e da Giovanni da Milano viene dimenticata anche accentuando la forma dell’abito, prima con l’invasiva ricchezza della dilagante grafia gotica e con lo sperimentalismo del design quattrocentesco e poi con la risoluta plasticità cinquecentesca, in un periodo storico che vede la censura della percezione viscerale del corpo tanto esaltata dagli strumenti ad ancia doppia come il cromorno e la cornamusa che da allora sono confinati nella cultura popolare.
Ecco, la vicenda dell’abito come forma creativa ha il suo momento di massima vitalità proprio quando la visceralità viene segregata nell’ambito popolare, ma da allora sarà impossibile frenare l’emergere intermittente tra le forme dell’abito di una inquieta fantasia di come il corpo potrebbe essere. Un’inquietante reverie dell’abito che si sovrappone alla perturbante percezione della carne indifesa.
Quando Giorgione dipinge la sua affascinante figura nel 1508 è vicino al più intenso lirico della musica rinascimentale, Josquin Desprez, presente in Italia fino al 1505, capace come il pittore italiano di raccontare, con la sua musica reservata, in forme delicatissime, la sensorialità diffusa della presenza.
Siamo al confine estremo dell’irrompere di una potente marea di contrastata creatività che scatena un conflitto inarrestabile tra la suggestione profonda del perturbante e la prepotente normalizzazione imposta dalla cultura egemone.
Il tessuto, trasfigurazione della pelle
Alla percezione perturbante del corpo si contrappone come correttivo la potente visualizzazione del tessuto come pelle trasfigurata, una forma della persistenza neolitica che ha la funzione implicita, da sempre, di strappare l’individuo alla sua storia personale per spostarlo nell’orizzonte di uno spazio destoricizzato e collettivo. La pelle si trasmuta qui nello schermo celeste delle più arcaiche osservazioni astronomiche, lo dicono l’immagine del mantello di Mitra del Mitreo di Marino (III sec dc) e la volta della Cappella degli Scrovegni (1302),
Da questa doppia reverie del corpo nasce l’abito come autonoma forma creativa, oscillante tra la percezione sgomenta di una materia troppo fragile che viene indagata muovendo dall’interno organico verso l’esterno inorganico, e da un’arcaica volontà di perentoria trasfigurazione astorica della realtà individuale efficacemente visualizzata dal tessuto.
L’eterno presente delle forme
Le forme dell’abito perpetuano la memoria viva e contraddittoria di modelli arcaici che nel tempo non sono stati compresi del tutto nella loro realtà e che di conseguenza non sono stati mai abbandonati: basti confrontare il sinistro abbigliamento della Dea dei serpenti della cultura Minoica di Cnosso (c.1700 ac) che scompone oscuramente il suo corpo in fasce digradanti separate nettamente dal busto nudo, con l’infestante ripetizione manieristica ottocentesca che di quella inquietante e minacciosa, disgregante vitalità negativa non mantiene in vita se non una fragile struttura ormai fossilizzata.
Leggerezza e trasparenza
Nella storia dell’abito si intrecciano e si ibridano sentieri diversi e solo apparentemente contraddittori.
Nelle culture più remote, ma ancora vibranti nel tempo con i loro torsi incompiuti da decifrare, l’abito è spesso un tessuto che avvolge il corpo senza negarne la plasticità fluida della pelle, un diaframma che nelle innumerevoli epoche che hanno preceduto queste culture è stato sperimentato all’infinito non coprendo e imitando la pelle, ma coltivandola, la pelle, come schermo capace di trattenere il calore e di respingere il freddo, e questo è accaduto senza mai separare la percezione del corpo dalla primaria esigenza concettuale della collocazione dell’Io nel mondo (Nike di Fida del 438 c, dal Partenone, Londra).
Questo telo che accarezza la pelle senza costringerla ha continuato senza tregua a sedurre l’immaginazione, e dopo la più delicata pittura catacombale nessuno lo ha saputo trascrivere meglio di Guido Reni, che nelle sue ultime opere appena abbozzate ha creato una materia stremata da uno struggente disagio interiore (Figura orante, delle catacombe romane, III sec. dc; Guido Reni, Il suicidio di Lucrezia,1640-1642, Pinacoteca Capitolina).
Una mappa concettuale del corpo
Ma l’abito più antico è anche un rigido e contratto schema concettuale, soprattutto nella cultura di matrice neolitica che si pone l’imperativo di sintetizzare il mondo caotico in forme modulari, come attesta l’oro merovingico del V sec. dc, che di quella cultura é l’eco più intenso, con il suo mosaico di segmenti che corrisponde appunto alla logica neolitica della proiezione del mondo fissata nel telaio geometrico che da un ordine alla discontinuità dell’esperienza individuale.
Il corpo sotto la pelle è invece scansionato dalle impressionanti miniaure mediche del medioevo che selezionano gli organi interni, i muscoli e la circolazione con altrettanto rigore geometrico, riducendo a statica simmetria ciò che nell’esperienza concreta è condizionato da una inquietante e sfuggente, precaria discontinuità (Miniature della Miscellanea medica del XIII sec.).
E queste affascinanti visualizzazioni sono già il progetto inconsapevole dell’abito che dal Quattrocento in poi è condizionato dall’ansia di materializzare con crescente intensità la condizione del corpo e la sua difficile collocazione nel mondo.
Persistenza delle forme
La lunga tradizione dell’abito greco romano sopravvive fino alla casta linearità degli abiti fiorentini tra fine Duecento e inizio Trecento, in corrispondenza della piena affermazione della lingua in volgare, una semplicità icastica che emerge ancora limpida nel Fedra Inghirami di Raffaello che indossa i suoi abiti da lavoro.
Geoffrey Chaucer (Londra, 1343-1400), il forte sostenitore della lingua volgare inglese, teorizzò anche l’abbigliamento sobrio e neomedioevale che si vede nella miniatura del primo Quattrocento che lo ritrae a cavallo.
Diversamente da quanto si ripete con sterile ottusità, l’abito ha forme che sopravvivono intatte per secoli senza risentire minimamente dei cambiamenti del gusto: l’equivoco della moda che cambierebbe in continuazione nasce dalla confusione che viene fatta tra l’abito reale, quello diffuso massivamente tra la maggioranza della popolazione, e l’abito che è invece legato alle necessità teatrali di minuscole elite che hanno però la capacità di ingigantirne la presunta portata innovativa attraverso il rigoroso controllo della comunicazione; ma è proprio l’incredibile riproporsi nell’abito da ballo ottocentesco della veste della divinità di Cnosso, creata migliaia di anni prima con una funzione del tutto diversa e opposta, che dimostra chiaramente quanto il mito della moda sia irreale (Annibale Carracci, Mangiatore di fagioli, 1585 c).
Quando si parla di abito, in questa sede, ci si riferisce allo specchiarsi strutturale del design nel contesto dell’esteticità diffusa con opere che hanno un valore qualitativo ben superiore a quello che può conferire l’epidermica, occasionale variazione del gusto, e lo sconcertante approdo finale della forma dell’abito nella sterilizzata e universale icona funebre novecentesca dimostra che questa forma creativa ha sempre subìto la pressione della sua vocazione ad una aderenza morbosa al corpo vissuto, il suo destino di tragica visualizzazione del corpo senza vita.
E la mediocrità imbarazzante della moda femminile contemporanea, che ha ereditato dal passato le forme abbandonate dell’abbigliamento specificatamente maschile, mostra oggi il paradosso di una cultura incapace di leggere criticamente la storia dell’abbigliamento depurandolo dagli stereotipi.
Visualizzare il pensiero
La cultura del ducato di Borgogna, a metà Quattrocento, legittima un gusto che esaspera esplicitamente le forme del corpo. Dopo la razionale linearità duecentesca, e dopo l’armoniosa massa fluida gotica, l’abito sconfina dal perimetro del corpo per suggerire la percezione dell’insieme della materia organica vivente e della materia inorganica, condividendo l’estetica della musica polifonica di Dufay e dei grandi arazzi fiamminghi che proiettano e sciolgono la figura umana nello scenario parossistico del mondo (Rogier van der Weyden, Filippo III di Borgogna (Filippo il Buono, duca di Borgogna dal 1419): arazzo fiammingo del sec. XV, della Galleria Doria, Roma).
Il ritratto di Carlo VIII (1477-1481) dipinto da Jean Fouquet esemplifica l’esasperazione deformante del gusto borgognone: l’abito proietta all’esterno le funzioni stesse del corpo e visualizza il desiderio (e la paura inconfessata) di una espansione infestante della volontà.
Le grandi forme geometriche dei copricapi documentati nella pittura fiamminga del sec. XV visualizzano la necessità di un progetto regolatore del mondo e allo stesso tempo proiettano nello spazio, come un ologramma, l’impressionante visualizzazione della testa pensante, con una sconcertante raffigurazione plastica di ciò che il pensiero sta facendo nel corso del ragionamento, un’indagine empirica sulla struttura della mente che è possibile accostare all’opera del più raffinato musicista di quegli anni, Ockeghem, altrettanto impegnato a rendere percepibile la struttura stessa della riflessione con le sue forme di estrema complessità (Scuola francese, La moglie di Jaques Coeur con copricapo a l’hennin ‘à escoffion’, Bourgos)
E c’è un interessante retaggio di questa ricerca strutturale del Quattrocento fiammingo: nel Novecento il Design ripensa evidentemente a queste forme creando il modello plastico corrispondente alla riflessione razionale cartesiana, e la Dodecafonia, in musica, ripensa analogamente alle forme fiamminghe più complesse per accostarsi alla sfuggente articolazione del pensiero ibridato dalle zone più sfuggenti della coscienza.
Ambiguità del colore
Nel Quattrocento italiano domina invece il colore: per Beato Angelico l’abito risplende tomisticamente di luce irradiante dall’interno, con un impianto timbrico che prevede i due poli estremi del caldo dell’oro e del freddo del blu, e nei pittori senesi come Sassetta il colore vivido indica una frenetica attività emotiva (Beato Angelico, Annunciazione, dall’Armadio degli argenti, 1451-1453, Firenze).
Ma più tardi, dopo la metà del secolo, il colore è attribuito prevalentemente ai giovani eccentrici e ai soldati, con le immagini coloratissime dei balordi violenti che colpiscono il Cristo sul Golgota.
I vestiti dei giovani mostrano un dissonante impasto acido di rosso e verde che costituisce l’alternativa incattivita alla serenità timbrica del tomista Beato Angelico. Il colore è quindi, nell’abito, una forma ambigua della vitalità stessa (Abiti nella pittura del sec. XV).
Eros
Il gusto quattrocentesco per le forme che esaltano il corpo porta all’esibizione degli abiti maschili in forme che nel Novecento diventeranno poi esclusivamente femminili, uno scambio sessuale che ha un limpido precedente storico nell’abito greco, nella delicata sottoveste trasparente che Teseo indossa in un vaso istoriato della bottega di Eufronio, quando gli stessi abiti succinti delle Amazzoni sono imitati esplicitamente da quelli dell’uomo (Bottega di Eufronio, Teseo presso Anfitrite (part.), 500 c, Louvre; particolare da una miniatura; L. Ghiberti, particolare dalla Porta est del Battistero, 1425.1452, Firenze).
Davide e Golia, da una miniatura del sec. XV
Storie di Griselda, 1474 c, affreschi staccati, Castello Sforzesco, Milano
Densità e osmosi tra le forme
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento l’abito rispecchia la densità drammatica di un’estetica che predilige l’intensa visualizzazione del dolore nel contesto di una teatrale catarsi di impronta aristotelica.
Le prime forme del violino di Gasparo da Salò e di Andrea Amati mostrano magnificamente questa intensa necessità di visualizzare il dolore con la straordinaria architettura di uno strumento che unifica le forme precedenti introducendo strozzature e bombature delle superfici di immensa fascinazione e apertamente debitrici delle più acute forme plastiche in un’irripetibile unità di forma e contenuto (Antonio del Pollaiolo, Ercole e Anteo, 1475 c, Firenze; Andrea Amati, Violino, 1559 c, MET,NY).
Uno strumento per suonare il corpo
Pittori come Rosso, Pontormo e Goya hanno capito la realtà profonda dell’abito, hanno capito che l’abito è possibile solo in movimento dentro uno spazio pittorico vivo, nella vibrazione inquieta del corpo in eterna collisione con i corpi inanimati degli oggetti e con gli altri corpi in movimento.
Questi pittori sono lirici estremi, ed è naturale che la loro sensibilità si sia rivolta alla descrizione (all’ulteriore elaborazione) di abiti che sono già plasmati da un’eccezionale creatività diffusa.
Nel Ritratto di giovane del 1525-1526 (Lucca) Pontormo rielabora un abito che doveva essere, nella realtà, magnificamente espanso e costruito a fasce sovrapposte come un territorio privo di confini, libero da costrizioni e assolutamente privo di decorazioni. L’accordo struggente tra il verde e il rosso, il protagonismo assoluto della materia dilatata sul piano, la luce bianca che irradia debolmente la parte alta del dipinto, il disegno fragile e unificante, tutto contribuisce a rendere questa immagine indimenticabile un vero e proprio progetto che non riguarda solamente l’abito in sè stesso, ma la postura di chi lo può indossare per sperimentarne la trasognata e liberatoria immaterialità. Qualunque sia stata l’affascinante realtà materiale di questo abito, Pontormo l’ha ridefinita esasperandone la sconcertante componente sensoriale. Evidentemente il pittore ha continuato a sviluppare il progetto di questo abito nell’ambito di una cultura sofisticata, perché ne ha capito profondamente la struttura liberatoria, memore di quei tessuti più antichi che non legavano il corpo, per aderire invece al suo respiro più intimo.
Questo stupefacente abito dipinto da Pontormo mostra la pura specificità di questa tipologia creativa: una struttura che ridisegna il corpo e la sua postura, che ne ridefinisce l’architettura specchiandone l’interno, con le sue fluide fasce organiche, e l’esterno con l’esoscheletro liquido esportato sulla superficie del mondo. E’ evidente la corrispondenza con i testi di anatomia editi in quegli anni, come il trattato bolognese del 1535.
Uno strumento per pensare il corpo, per suonare il corpo, che poi ha dovuto attraversare infinite metamorfosi fino a cancellarsi nell’incredibile, triste abito funerario dell’omologazione novecentesca.
E quando Pontormo guarda con l’Alabardiere del 1529-1537 un abito militare che costringe il corpo in forme chiuse e opprimenti, la sua inquietante interpretazione poetica della realtà non cambia: l’accordo perturbante del grigio e del rosso contro lo sfondo verde, le sottolineature fredde agli estremi del corpo, la massa luminosa che divarica sotto i nostri occhi le due valve opposte del rosso, tutto conferma la volontà del pittore di riscrivere in versi la realtà materiale dell’abito.
Negli stessi anni anche Rosso Fiorentino esplora, con il suo Ritratto di giovane del 1522, la realtà poetica dell’abito e l’anomalia preziosa della postura che suggerisce a chi lo indossa. Negli abiti magnifici che ritrae Rosso vede le fasce di ombra che avvolgono il corpo senza requisirne la plasticità,
e plasma (nel dipinto del 1527) la straordinaria freschezza di un abito fatto di strati leggeri e slegati, un abito che respira liberamente.
Se Pontormo interpreta l’abito con la sua acuta poetica del colore stremato e dolorosamente irradiante, Rosso lo interpreta invece con la sua poetica della divaricante dissociazione segnica, nascondendo nella penombra ciò che Pontormo porta in piena luce.
Lo stesso abito liberatorio, debitore sicuramente della cultura umanistica più colta devoluta alla ricerca di franchezza e di allentamento dagli stereotipi, come poteva essere quella di Erasmo, è ridisegnato da due diverse sensibilità che ne esaltano i due valori più sottili: l’espansione luminosa priva di ostacoli e la più intima fasciatura di ombre.
Il perturbante
E poi ancora una volta si intrecciano due diversi percorsi: nel Cinquecento, accanto all’abito liberatorio che sembra vicino alla musica reservata della cultura umanistica più fertile si impone con forza un abito che al contrario esaspera il perturbante, una forma che risente delle strutture chiuse più antiche e anche del potere taumaturgico legato irrazionalmente alle pietre preziose.
Il Ritratto di donna del modesto Benedetto Ghirlandaio (sec.XV) espone la sintassi di questo linguaggio inconsapevolmente perturbante: le fasce si schiacciano una sull’altra chiudendo ogni spiraglio e saldando i profili inerti; gli oggetti, la collana, il pendente, gravano su questi strati sedimentati e ne convalidano l’anossia, il copricapo sequestra l’attenzione con la singolare e inattesa fuoriuscita dei capelli da quella opaca fasciatura. Un perturbante che nasce dalla passiva registrazione di un abito concreto fatto di sovrapposizioni e di segnali fuorvianti.
Più tardi, il ritratto di Laura Battiferri, poetessa e moglie di Bartolomeo Ammannati, dipinto dal Bronzino nel 1555 (Firenze) riprende la soluzione perturbante dei capelli intravisti nell’eccentrico copricapo, e anche Bronzino si limita a riprodurre un abito reale plasmato di inquietanti sovrapposizioni, dove le velature trasparenti raccolgono come un filtro la luce spinta verso l’alto dal buio del tessuto scuro.
L’autore di un interessante dipinto di maniera del Pontormo sa decifrare diversamente questi abiti inquietanti intrisi dell’ambigua amarezza che rievoca le poesie petrarchesche più malinconiche: nel luttuoso Ritratto di Maria Salviati (1545 c) il pittore reinterpreta un abito di impressionante fascinazione materiato di ombre e di grigi polverosi, dove le fasce aderiscono all’inerte corpo plastico con una sconcertante e dolorosa intensità che permane anche nell’attonita fissità iconica della parte alta del dipinto.
Ferite e catene
Gli abiti militari del nord Europa cinquecentesco mostrano invece un’altra storia: ostentano le loro ferite simboliche nascondendo la paura di morire dietro l’apparenza di una aggressiva eccentricità.
Sono abiti affascinanti che rivelano in tutta la sua intensità l’ambiguità dell’abito stesso, che qui è appunto uno strumento ideato per simulare e sperimentare (per esorcizzare) la propria morte violenta in battaglia (Lucas Cranach, Ritratto dell’Elettore di Sassonia Enrico il Pio, 1514, Dresda; Pieter Bruegel il Vecchio, Soldati).
E c’è un pittore straordinario, negli anni che precedono il sacco di Roma degli imperiali (1527), che ha saputo tradurre in pittoricità pura la massa contraddittoria di quegli abiti da guerra perché anche lui, lo svizzero Urs Graf (1485-1529), era un soldato mercenario.
Graf è un violento, va in carcere più volte, è inquisito per omicidio; nessuno ha ritratto come lui gli abiti dei lanzichenecchi deformati da una violenta metamorfosi che li trasforma in una forma ibrida dove la condizione contraddittoria di chi è pronto a uccidere coincide con la vittima della violenza stessa perché questi abiti prefigurano come in un incubo tutte le ferite future che verranno inferte al corpo.
Graf, con il suo irrequieto, poetico segno espressionista, ha indagato il disfarsi caotico dell’abito militare materiato di violenza e di paura, con una freschezza immaginativa che condivideva con i grandi lirici dell’area tedesca e svizzera: Altdorfer, Grunewald, Leu, Huber (Opere di Urs Graf).
D’altra parte le ferite simboliche hanno una lunga storia nella vicenda dell’abito: la decorazione frontale della divisa degli ussari di Kiev durante la guerra di Crimea a metà Ottocento deriva dalle tibie dei nemici uccisi che gli Unni cucivano sui loro mantelli, e non è necessario ricorrere alla psicologia per capire che questa ambiguità, l’esposizione delle ossa del nemico che si trasforma nella visione delle proprie ossa, del proprio scheletro visibile dopo la morte, costituisce una forma arcaica di esorcismo della paura non diversa dalla pratica delle maschere apotropaiche destinate a difendere chi le indossa dagli spiriti che esse stesse rappresentano.
Ed è impossibile non pensare alla manica ripiegata del braccio amputato di Nelson che si cristallizza poi nelle decorazioni della divisa militare inglese.
Sappiamo inoltre che la cravatta novecentesca deriva dal cappio al collo che i marinai portavano come monito, come esplicita minaccia di impiccagione in caso di ammutinamento, un efficace memento mori trasformato dall’uso in una forma della quale si è persa la memoria a parte la sopravvivenza fossile nell’espressione avere un nodo alla gola; ma la cravatta dell’abito funerario dell’omologazione novecentesca mostra chiaramente lo sterno tra i muscoli involontari (il bianco della camicia) e quelli volontari (il colore della giacca) ed è il caso più incredibile di assuefazione generalizzata ad un segno sinistro e minaccioso (e chi si vergognerebbe a mettersi una cravatta lo sa).
Ferite, catene. Gli abiti dipinti da Cranach esaltano acutamente il fenomeno delle catene trasfigurate in decorazione: pesanti gioielli che si espandono privi di pathos sopra la chiusura ermetica dell’abito (Lucas Cranach, Ritratto di donna, 1538).
In questa seduttiva poetica della ferita simbolica e della catena si consolida la memoria arcaica della drammaturgia dell’abito, che prevede una continua oscillazione tra la mappatura concettuale, che include la fossilizzazione dei detriti inorganici che minacciano il corpo (i gioielli) e la necessità opposta di formulare una liberatoria e impossibile, fluida continuità tra il corpo vissuto e il mondo circostante.
I pittori del primo Cinquecento, nei diversi contesti culturali del sud e nord Europa, hanno scavato lucidamente in queste due possibilità mostrando a sud la fresca fasciatura dei grandi abiti italiani, così coerente con le necessità di un raro, faticoso pensiero critico oppositore della dogmaticità, e a nord il pathos della ferita e della catena che viene assorbito a forza nel linguaggio dell’abito per poterne dimenticare il dolore.
I gioielli, una fragile barriera di segni enigmatici
Nella planimetria dell’abito i gioielli fissano gli snodi di un linguaggio che si crede a torto materiato di esplicito simbolismo (Michael Sittow, Caterina d’Aragona, 1503, Vienna).
In realtà il significato profondo del gioiello è invece quello di una materia inorganica che viene calamitata a forza verso il centro del corpo, non come scontata, epidermica formula simbolica da decifrare, ma come perturbante insidia rivolta all’integrità della stessa materia organica.
Il gioiello non protegge le parti indifese del corpo, come credeva Levy-Strauss, le minaccia, e l’abito vive la sua specificità anche in questo conflitto tra organico e inorganico.
In un ritratto di Rembrandt del 1662 i gioielli stridono crudelmente in contrasto con la matericità opaca del corpo: sigillano le aperture dell’abito stringendo il busto, in alto, e arginando la carne all’uscita dalle maniche, in basso.
Raccontare la vicenda del corpo
In un tale contesto di contraddittoria creatività l’abito è ormai la tormentata periferia di un territorio senza dimensioni sul quale si registrano gli eventi del corpo: il vestito descritto in un dipinto attribuito al Parmigianino, un altro straordinario pittore di abiti, indica la consueta, netta separazione degli arti dal busto, ma questo ipersensibile pittore ha saputo vedere l’incredibile stesura di tessuto bianco che divarica i bordi del velluto mentre attorno, lungo il confine di questo territorio senza dimensione, i gioielli segnano i presidi dell’estraneità inorganica.
I bambini, in basso, si aggrappano al grande gioiello da cintura con testa di martora per restare ancorati al corpo della madre, mentre la delicatezza estrema dei gioielli attorno alla testa mostrano la presunzione di poter dominare il mondo, ma l’insieme di questo abito affascinante parla di precarietà e di insicurezza (Camilla Gonzaga con i figli, 1540 c)
Gli abiti italiani di questi anni della prima metà del Cinquecento replicano sempre lo stesso schema, che poi continuerà ad agire nell’abito ottocentesco: una serena spianata luminosa separa la testa, lo sguardo, dal resto del corpo che esalta enfaticamente la sua funzione ampliando il volume muscolare (Bronzino, Ritratto di donna,1530-1532 c, Londra).
Nel Cinquecento l’abito elenca le funzioni, come nell’architettura medioevale, e offre una mappatura minuziosa del corpo come una facciata architettonica del tempo espone in proiezione gli spazi interni (Tiziano, Ritratto di giovane donna, 1556).
Ma una inquietante contaminazione di questo schema logico emerge a fine secolo, quando ogni cosa deve dissimulare e far dimenticare la sua funzione (Frans Pourbus il Giovane, Ritratto postumo di Anna Bolena, inizio sec. XVII).
Nascondere la funzione
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento le grandi gorgiere di pizzo separano nettamente la testa dal corpo, e l’assedio inorganico dei gioielli è esasperato proprio da questa separazione in strati di un corpo che adesso si è reso finalmente invisibile (Anonimo fiammingo, Ritratto, 1610)
Lo scopo di questa scelta estetica è esplicito: nascondere e dissimulare la funzione delle cose esasperandone la deformazione stilistica, come si vede nelle bellissime armi di quegli anni.
Nel primo ventennio del Seicento, nella temperie culturale già segnata dall’Inquisizione e dalla Controriforma, sono coinvolti in un conflitto senza fine la scienza e la filosofia, il teatro, la musica, la letteratura, l’arte ; il corpo è nascosto all’interno di una struttura rigida che lo scompone in parti separate, perchè, come scrive John Donne nel 1611, la nuova filosofia pone tutto in dubbio e l’omologazione dell’abito è una contraddittoria risposta a questo disagio (Abiti del 1625 c).
E si impone un paradosso: la tragica Guerra dei Trent’anni (1618-1648) porta anche la necessità di un linguaggio unificato dell’abito che sia apparentemente in grado di eludere le profonde divisioni tra stati europei.
L’ossessiva omologazione secentesca
Franz Hals, con la sua amara, scabrosa pittura terragna, ha tradotto in versi magnifici la parossistica volontà di unificazione dei corpi del Seicento olandese, un livello di omologazione linguistica che è stato superato solamente dall’abito universale novecentesco.
Rembrandt ha conferito a questo abito comune (1641), che riduce a strati sempre più sottili le divisioni plastiche imposte nel Cinquecento, il fascino morboso di un viso che ci scruta senza posa, con angosciosa rassegnazione, dall’interno di un telaio fossilizzato,
mentre Franz Hals, ritraendo lo stesso abito, elude la suggestione del corpo imprigionato perché la sua pietà antropologica gli impedisce di giudicare e biasimare le incongruenze del comportamento individuale.
L’artificio barocco
Intanto altrove Rubens progetta per l’Europa cattolica l’estetica barocca. Con gli abiti che ritrae simula la liberazione del corpo dalla presunta prigionia delle costrizioni e mostra di ristabilire la diversità dei corpi attenuando l’enfasi retorica che divideva il corpo in zone.
Ma questa di Rubens è l’effimera ariosità barocca che ha lo scopo implicito di depurare il linguaggio dalla presenza del perturbante e del dubbio, Rubens lavora solamente per il predominio barocco sulle altre possibili forme secentesche (P. P. Rubens, Ritratto della moglie Helene con il figlio,1633).
E all’ipocrisia del raffinato barocco rubensiano risponde, nell’Olanda protestante, ancora, la sobrietà poetica di Hals, che declina l’omologazione dell’abito in una struggente, patetica condivisione che riguarda anche gli umili, mentre un seguace di van Dick attesta invece quanto la stessa gorgiera dipinta da Hals possa essere declinata in sofisticata scrittura aristocratica.
Disperdere il profilo
Nel Settecento, nell’epoca di Leibniz, l’abito è coinvolto come forma creativa nel processo in corso di illimitata estensione del segno ad ogni dettaglio del visibile, un fenomeno che riguarda anche gli strumenti musicali, perfezionati affinché possano miniaturizzare autonomamente interi brani sinfonici, e gli arredi, estesi e complessi come maestose architetture implose.
Il ritratto dipinto da Ghislandi Frà Galgario nel 1740 (al Poldi Pezzoli) esemplifica un fascinoso congegno creato per diffondere il segno disseminandolo musicalmente lungo ogni profilo del corpo, e un abito come questo deve essere immaginato in uno spazio analogo, come la Sala degli specchi di Amalienburg a Monaco (1734-1739) di Francois Cuvilliès, paragonabile per simpatia strutturale ai Concerti grossi di Handel degli stessi anni (1740).
Nei delicati dipinti di Gainsborough, a metà Settecento, un pittoricismo estremo è devoluto nell’abito inteso come dipinto da indossare, e perfino la pettinatura è intesa come materia pittorica ricca di sottili sfumature.
Gli abiti ritratti da Gainsborough, come questo del 1757, non hanno bisogno di gioielli perché sono il segno di una dignitosa civiltà intellettuale che ha preparato la strada all’Illuminismo europeo.
C’è ancora, nella pittura inglese di metà Settecento, una fresca memoria del corpo fasciato senza costrizioni e senza l’assedio della materia inorganica.
In contrasto con l’abito della retorica autoritaria, che adotta invece la parrucca come azzeramento della storia individuale (Ghislandi Frà Galgario, Ritratto).
Il pessimismo illuminista di un pittore come Goya, però, a fine Settecento, suggerisce la percezione più intensa e perturbante dell’abito come pelle vulnerabile, come si vede nel suo stupefacente Francisco Bayeu di Madrid (1795) (v Attraversare l’esteticità diffusa).
L’impossibile ibridazione tra organico e inorganico
Goya, con la sua estrema. morbosa ipersensibilità, conferisce all’abito una perturbante densità visiva perché vede acutamente, senza farsi vincere dallo sgomento, l’osmosi impossibile che l’organico e l’inorganico cercano caoticamente per uscire dall’incubo della precarietà fisiologica.
Goya ha capito che l’abito è una insidiosa pelle esteriore e sfuggente che sdoppia il corpo in una massa di velature delicatissime con le quali la materia si disperde per sfocarsi nella nebulosa di una seconda, ibrida, intollerabile altra materia (F. Goya, 1785).
Ma questa è l’ultima volta che l’abito viene compreso nella sua pura specificità, come congegno poetico innestato vivo nel tronco del corpo per una diversa, possibile identità.
Da questo momento in poi l’abito è attirato invece sempre più rapidamente nel tunnel della ripetizione e dell’entropia fino a schiantarsi contro la parete dell’ottusità novecentesca che lo svuota per sostituirlo con la sconcertante icona della sua memoria fossile.
Nel tunnel dell’entropia
Dopo le vicende che vedono l’abito riflettere l’inquietudine del corpo vissuto, la tunica neoclassica si limita a ripensare il passato greco romano, retaggio dell’abito maschile che è stato abbandonato nel deposito inerte dell’abbigliamento femminile.
La rigidezza della divisa militare mostra le ultime tracce fossili delle ferite simboliche.
L’abito romantico ripete stancamente le forme cinquecentesche private del pathos dell’ibridazione (Ritratto del 1834);
La frenetica densità settecentesca cede alla moderata citazione eclettica,
E quando Molteni ritrae Manzoni (1835) l’abito maschile è già pronto a essere declinato nella rigida icona fossilizzata novecentesca.
La delicatezza delle velature ottocentesche, in questo dipinto del 1848, non ha memoria del perturbante delle forme passate;
il manierismo più epidermico verso la fine dell’Ottocento prevede la netta profilatura del corpo vestito contro lo sfondo luminoso degli spazi aperti, oppure contro lo sfondo in penombra degli interni (a sn: Corcos, 1892)
E’ il momento, questo tra Ottocento e Novecento, nel quale una pastosa sensualità viene spostata gradualmente nell’abito femminile abbandonando per sempre l’abito maschile (Laurenti, 1889).
La reverie erotica di questi anni tra i due secoli segna l’abbandono definitivo dell’abito perturbante del passato: l’immagine della donna viene costruita con i resti dell’abbigliamento maschile, non esclusa la nudità eroica della scultura greca, con lo scopo implicito di costruire due culture che siano più che mai separate.
La volontà di seduzione domina incontrastata un mondo che si prepara alla più impressionante metamorfosi che l’abito abbia mai subìto, mentre si moltiplicano gli equivoci più incredibile sull’uso dell’abito.
Gli equivoci
Jean-Etienne Liotard visitò la Turchia nel 1738 e contribuì a diffondere in Europa l’idea dei pantaloni femminili che stava creando i presupposti per un imbarazzante equivoco: il progressismo femminile viene quasi identificato nell’uso di un abito che è legato alla più degradante servitù subita dalla donna nell’harem.
Oltretutto gli zoccoli altissimi ritratti da Liotard erano già noti in Europa con le figure di cortigiane incise da Vecellio nel Cinquecento (Liotard, Due donne turche del XVIII secolo, pastello).
Un altro significativo equivoco legato alla cecità relativa al significato storico dell’abito è rivelato da I vespri siciliani (1846) di Hayez. Seguendo la logica romantica della musica verdiana e della narrativa manzoniana, Hayez ha dipinto l’ufficiale francese cattivo con un tenebroso abito scuro, equivalente in una scena verdiana della voce del basso, ma se avesse conosciuto la realtà storica avrebbe saputo che un ufficiale a fine Duecento deve essere vestito invece con una delicata veste chiara dai colori pastello indossata con eleganza sopra l’armatura.
Il ritratto di uomo di G. Ter Borch del 1673 può farci sorridere, eppure questo abito composito dimostra che in quel momento storico la tradizionale sensualità dell’abbigliamento maschile antico stava per essere cancellata dalla tentazione irresistibile di creare per l’uomo una icona fossilizzata capace di assicurare una volta per tutte una forma universale astorica e immutabile nel tempo.
L’uniformità funeraria novecentesca
Nel suo Autoritratto del 1879 Manet mostra l’abito terroso e sfatto che dall’Illuminismo in poi ha definitivamente sostituito le forme contraddittorie dell’abito maschile del passato introducendo una rigorosa censura su tutto ciò che l’abito aveva sempre lasciato trasparire della sua realtà sensoriale.
L’impressionante icona funeraria del Novecento, introdotta forse con inconsapevole sollievo liberatorio, espone in piena luce l’abito maschile come reverie del corpo raggelato dalla morte.
Dopo aver depositato nel mondo dell’arredo femminile tutto ciò che così a lungo lo ha caratterizzato nel tempo come progetto variabile destinato al corpo, adesso l’abito maschile si congela in questa forma sconcertante che viene adottata acriticamente in ogni parte del mondo, da tutti, senza la minima esitazione, e il modello che permette questa radicale metamorfosi è quello che era stato offerto dall’omologazione dell’Olanda secentesca.
Nel tempo del manierismo novecentesco, siamo di fronte all’esito di un lungo percorso che ha portato l’abito ad assorbire le ferite simboliche all’interno di un telaio di segni ambigui che permetteva la visione del corpo assediato dall’inorganico, e adesso emerge dal contesto archeologico di questa storia una icona fossile del corpo visto sotto la pelle che è altrettanto suggestiva e prepotente di quelle forme dimenticate dalla cultura egemone (come le reliquie) che nel frattempo hanno condizionato in profondità, attraverso gli armonici di memoria, anche tutta la creatività novecentesca.
Oggi l’ipertrofia quantitativa dell’abito destinato alla donna crea l’illusione ipnotica di una sconfinata e inesistente creatività, e si stratta della stessa illusione ipnotica che provoca la percezione alterata e altrettanto sterile di un’arte contemporanea che sembra essere un inesauribile e inedito deposito di soluzioni creative mentre nella realtà è solamente l’ipertrofica estensione manieristica di segni di altre epoche che, senza essere stati annientati da questa feroce e folle riduzione entropica, restano vivi nell’eterno presente con la loro fresca vitalità e con la loro necessità.
2001/2016