Armonici di memoria nelle opere degli artisti italiani dell’ultima generazione (*)
La memoria del passato recente
Le opere degli artisti italiani dell’ultima generazione mostrano in filigrana innumerevoli armonici di memoria, riverberi mnemonici del passato recente che sono spesso inavvertiti dagli autori stessi, retaggio naturale di tutto ciò che in Italia è stato archiviato e musealizzato dopo il recupero figurativo della Transavanguardia degli anni ‘80.
Leggere e decifrare questi diffusi riverberi mnemonici oggi può contribuire sicuramente a ridimensionare la portata reale di ciò che viene realizzato in questi primi anni 2000, e forse permette anche di alleggerire la pressione accademica che soffoca tanti giovani artisti costretti a recitare senza pudore il ruolo di inverosimili saggi capaci di educare il mondo.
In una situazione come questa la riflessione critica può avere il compito di dare una più serena collocazione a ciò che viene realizzato da quest’ultima generazione di artisti, soprattutto se si guardano le cose da una prospettiva insolita, ignorando il triste contenutismo sociologico che giustifica ogni cosa con una sua meschina pedagogia moralistica.
E ci sono dei limiti da superare. C’è l’eccessiva familiarità nella quale si viene coinvolti con le opere dei contemporanei, che toglie lucidità e serenità; c’è il malinteso rispetto per le opinioni critiche già espresse da altri, che inibisce la capacità di distinguere le poche opere di qualità dalle tantissime prove scolastiche; e c’è il presunto rispetto per gli autori stessi e per le loro dichiarazioni teoriche, che porta spesso la critica d’arte ad una involontaria e reticente ipocrisia.
Una prospettiva diversa
Per tentare un’esplorazione empirica e inusuale del lavoro creativo di questi ultimi decenni si possono però utilizzare due insoliti strumenti: una diversa interpretazione delle forme enigmatiche delle opere concettuali e la mappatura interdisciplinare dell’opera.
Con il primo di questi strumenti, inedito, si può mettere a fuoco un fenomeno straordinario che coinvolge tutta la creatività contemporanea.
Le opere di ambito concettuale si vestono con la forma di un enigma da sciogliere, ma l’enigma concettuale è scisso in due forme diverse e contrastanti tra di loro come lo sono i due sosia del racconto di Edgar Poe William Wilson.
Con le opere concettuali ci troviamo di fronte ad un enigma che risveglia e rivitalizza la percezione oppure ci troviamo coinvolti in un enigma barocco che ci dà scacco facendoci sentire inadeguati e in pericolo.
Come i due sosia del racconto di Poe, queste due forme dell’enigma tendono a sovrapporsi una sull’altra, in un conflitto micidiale e invisibile di reciproca cancellazione che rende sempre più difficile la distinzione tra l’enigma che ci aiuta a vedere meglio e l’enigma che ci costringe ad un perfido gioco barocco che non abbiamo mai scelto volontariamente di vivere.
Il secondo strumento, la lettura interdisciplinare, permette di accorgersi dei continui smottamenti in atto da un contesto creativo all’altro, dal teatro all’installazione o dalla poesia all’immagine visiva. Il disagio che si prova di fronte all’apparente, sconcertante novità dell’installazione concettuale deriva proprio da questa continua e imprevista adozione di forme estranee e di stili abbandonati da altri, un bradisismo che ridisegna ogni volta lo scheletro interno dell’opera.
E l’osservazione interdisciplinare, con il suo visualizzare sempre più chiaramente le coordinate storiche dell’opera, permette di aggirare la sterile formula scolastica e accademica secondo la quale l’opera d’arte oggi non sarebbe più legata all’artista individuale e non sarebbe più neanche definibile coerentemente come opera d’arte, mentre è vero proprio il contrario, perché una volta individuati gli elementi interdisciplinari presenti nel tessuto creativo la lettura critica di un’opera concettuale continua ad essere esattamente la stessa che si utilizza per un dipinto del ‘500 o per un mobile del ‘700, e non potrebbe essere diversamente.
Tra autenticità e accademismo: Eva Marisaldi
Base, 2000
Eva Marisaldi, Base, 2000
Nell’installazione Base (2000) di Eva Marisaldi, visibile a Contemporaneo Temporaneo, il paesaggio si desertifica dolcemente nella forma dei tappeti morbidi. Nello schermo liquido dei monitor accesi si versa lentamente tutto ciò che precedentemente occupava quello spazio svuotato, e il tedioso elenco inventariale recitato dalla voce impersonale significa questo, che quelle tre pozze luminose sono l’incavo prospettico nel quale irresistibilmente scivolano gli oggetti, prima dislocati concretamente nello spazio e ora gradualmente trascinati fuori dallo spazio svuotato delle colline desertificate. Nel momento in cui entrano (si versano) nella pozza liquida del video le cose vengono rinominate e inventariate, lo schermo vivo del video è un’arca che ospita ciò che il mondo desertificato non può continuare a mostrare nella sua tangibile concretezza materiale.
In questo modo l’installazione recupera la struttura prospettica tradizionale, che coniuga alla scenografia di origine teatrale. La percezione dell’opera qui è dominata da una lettura visiva che a ridosso della nitida dorsale prospettica porta dalle colline miniaturizzate al fuoco prospettico dei video accesi.
Questa di Marisaldi è quindi una pacata correzione dell’enfasi retorica delle installazioni che impongono con durezza accademica il rigore della tautologia e l’insidia di ciò che sembra puerile per essere invece un monito moralistico.
La visualizzazione naturalistica di Base si avvale del precedente di Vettor Pisani del 1980, Lotta della luce e delle tenebre, dove si fronteggiavano il paesaggio miniaturizzato a terra e il monitor luminoso in alto; e anche nell’opera di Pisani si recuperava senza inibizioni una forma di teatrale naturalismo prospettico e narrativo (Theatrum, 1980).
V. Pisani, Lotta della luce e delle tenebre, 1980; Theatrum, 1980
L’idea della materia ridotta al panno morbido deriva da opere come Macchina da scrivere fantasma (1963) di Claes Oldenburg.
C.Oldenburg, Macchina da scrivere fantasma, 1963
Ma la più intima matrice strutturale di Base e del successivo, splendido lavoro di Marisaldi, Legenda (2002, allestito al DARC), è da cercare nell’opera più poetica di Giulio Paolini, nel suo emozionante Lo sguardo della medusa che nel 1982 occupava limpidamente un’intera sala della GNAM di Roma.
G. Paolini, Lo sguardo della Medusa, 1982
In quel gioiello del lirismo concettuale italiano più autentico le sconnesse linee prospettiche, visibili sui frammenti di carta a terra e alle pareti, sono ancorate al delicatissimo frammento di testa rovesciato, allo sguardo, unico punto focale emergente attorno al quale possono dislocarsi i frammenti cartacei.
Una straordinaria soluzione pittorica, quella di Paolini, che dimostrava (che dimostra) come l’opera concettuale italiana possa continuare serenamente ad avvalersi del disegno prospettico e di una disadorna freschezza grafica per riunificare nella percezione retinica tutto ciò che nello spazio reale è disseminato in profondità.
E questa pudica e poetica contrazione prospettica che raccoglie nella retina ciò che è disseminato nello spazio della scenografia teatrale è il segno perturbante e intenso di Legenda.
Legenda, 2002, DARC
I teli pendenti nella grande aula desertificata sono schermi da proiezione sui quali l’impronta delle cose lascia un segno labile e fresco, appoggiato più che cucito. Evidentemente, come in Base di due anni prima, tutto ciò che occupava fino ad un attimo fa questo grande spazio ora si è appena ritratto dentro la verticalità piatta degli schermi.
Anche qui la scena teatrale si desertifica, e il flusso migratorio che porta gli oggetti concreti a schiacciarsi nel disegno a rilievo dei teli è organizzato da una visione prospettica che ha il suo fuoco visivo nel cubo giallo collocato in fondo al cono prospettico.
E anche il mondo sonoro che è legato agli oggetti, la voce umana, viene contratto e raccolto nei sacchetti di telo sospesi, seguendo la sorte delle immagini stesse.
Tutto si stacca da terra, perché qui è in corso un dragaggio radicale della materia concreta; i sedili sospesi e oscillanti invitano a sedersi per staccare i piedi da terra e assecondare (decifrare) questa alta marea dei segni.
Il fulcro percettivo dell’insieme è nel giallo che vediamo in fondo al cono prospettico, le pareti dell’unico spazio chiuso di Legenda. All’interno del cubo giallo, nel film, tutto ciò che è stato dragato dallo spazio concreto viene rifondato e rinominato; nello schermo vivo del filmato, nella penombra del cubo, il mondo ricomincia da capo ad essere formulato, si riparte dalle forme più elementari che ancora non hanno una forma antropomorfica e il miagolìo elettronico qui sostituisce le parole perché siamo nel luogo di una riformulazione arcaica dove ogni cosa deve essere nuovamente modellata.
Come in Base, anche in Legenda lo spazio concreto è prospetticamente inclinato verso il fondo liquido e vivo di una pozza luminosa (lo schermo), ed è in quella pozza che ogni cosa viene versata per essere rinominata.
Una scena teatrale desertificata suggerisce il periodico rinnovarsi della percezione atrofizzata, senza pathos e senza demagogia, senza educare e senza sedurre.
Marisaldi per Legenda ha lavorato con un materiale già esistente, e non importa sapere se c’è stata consapevolezza o no perché in questo modo, con l’autenticità e la freschezza dell’opera, ha semplicemente e serenamente continuato ad arricchire di ulteriori sfumature quella poetica dello spazio desertificato che la contemporaneità ha formulato da La terra desolata di Eliot (1922) e da Ionisation di Varése (1929) al nomadismo di Deleuze.
Nei Tavoli di Mario Merz (Biennale di Venezia del 1976) gli oggetti sopravvivono nell’impronta che hanno proiettato sulle pareti. Dalle opere di Luciano Fabro proviene la struttura fisica di Legenda: I teli sospesi da terra e tenuti in tiro da un peso sono quelli de La groma (1984).
M.Merz. Tavoli, 1976; L. Fabro, la groma, 1984
I corpi ricondotti alla loro struttura minimale nel video di Legenda sono quelli che Fabro ha usato per Il giudizio di Paride del 1979, ricordo delle forme cicladiche di Arp (Demetra, 1960), ma sono anche il corpo scomposto in zolle di fango dell’opera di Alighiero Boetti del 1969 (Prendendo il sole a Torino il 24 febbraio 1969).
Legenda, Fabro, Arp
Boetti, 1969, Prendendo il sole a Torino il 24 febbraio 1969
Le opere di Nino Longobardi (che ha usato spesso i teli sospesi) hanno fornito a Legenda l’elemento concettuale che giustifica quella pesca a strascico verso lo schermo asettico dello schermo di telo: la sua pelle di tigre del 1979 (c. p. Stuttgart) sembra sul punto di essere strappata a forza dal suolo e per metà e già nella parete verticale; nella vasta Installazione del 1980 il cane disegnato sul telo trascina con sé un lembo di tessuto.
N.Longobardi, Installazione, 1980, Guggenheim, N.Y.
Lo sguardo della medusa (1982) di Paolini ha portato in dote il candore luminoso della configurazione complessiva, la lievità del disegno arioso e l’impaginazione prospettica dell’insieme. E’ da Paolini che deriva l’immediatezza concettuale dell’opera di Marisaldi: ne Lo sguardo della medusa e in Legenda tutto è destinato all’azzeramento di una percezione atrofizzata per offrire un antidoto corroborante alla violenta ipertrofia dei segni.
E l’installazione (1989) di Bruna Esposito per la Biennale del 1999, la panchina trasparente alla deriva in mare, mostra tutta la debolezza concettuale della strada opposta a quella scelta da Marisaldi: il singolo oggetto sopravvive spaesato alla spettacolare (retorica) sottrazione dello scenario. Esposito ci offre l’opportunità di un singolo, inerte racconto suggestivo ma non ci regala un modello percettivo da adottare.
Gennaio 2003
(*) Questo testo è il materiale di base del ciclo di conferenze illustrate che è stato ospitato nei locali di Spazio Mostre (Testaccio) dal gennaio al maggio del 2003.