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Fuori dall’incanto ipnotico
Armonici di memoria
John Constable, Studio di marina con nuvolo di pioggia, 1824, studio su carta, Londra
Franz Kline, Crow dancer, 1958
‘Innumerevoli percezioni senza appercezione..’
(Leibniz, Nuovi saggi, 1703)
C’è una materia imponderabile che si insinua inavvertitamente nell’opera degli artisti, anche in quelli più attenti e consapevoli.
E’ quella sfuggente degli armonici di memoria, per usare una suggestiva espressione che qualcuno ha già utilizzato occasionalmente in passato, intensi riverberi di memoria che agiscono più acutamente proprio laddove l’artista si sente libero da ogni condizionamento.
Acuti riverberi della memoria che non sono legati all’idea del plagio, né devono essere confusi con la citazione colta che è tutt’altra cosa.
L’autore, lo sappiamo, è sempre il primo ad essere emozionato (a volte fuorviato) da ciò che lui stesso sta realizzando, e spesso la ripetizione e le inutili varianti del suo lavoro denunciano la necessità di trovare un’impossibile familiarità con l’opera stessa, che è frutto di troppe interferenze inavvertite; quindi ha davvero poca importanza sapere se l’artista sia consapevole o meno di questo inavvertito affiorare dalla memoria profonda, perché questo fenomeno straordinario trascende il singolo autore e la sua isolata vicenda creativa: siano di fronte ad un fenomeno radicale che coinvolge profondamente la percezione che abbiamo dell’arte, un contraddittorio addensamento dei segni che sarebbe impensabile cercare di decifrare senza la lezione della Psicoanalisi e della Fenomenologia.
Se oggi è possibile avere una percezione più intensa di questo fenomeno, dell’irrompere inavvertito nel progetto creativo dei riverberi di memoria, lo dobbiamo all’espandersi progressivo del campo dell’esteticità diffusa e allo strumento della lettura critica interdisciplinare che rende praticabile l’esplorazione di una vasta zona in ombra di opere che non vengono riconosciute come opere d’arte a causa del loro coinvolgimento con il culto religioso popolare, con la creatività infantile, col disagio psichico o con l’illustrazione scientifica. E sono soprattutto le reliquie e gli ex voto che si presuppongono erroneamente del tutto privi di intenzionalità estetica.
Ebbene, se qui adottiamo una diversa prospettiva che ci permetta di cogliere la naturale continuità che c’è tra la creatività del mondo popolare e quella della cultura egemone, allora possiamo essere in grado di accorgersi di quanto sia forte il legame strutturale che salda l’oscurata memoria collettiva del mondo popolare al fronte della ricerca contemporanea e di conseguenza possiamo essere in grado di ridimensionare, anche drasticamente, il valore reale di tutto ciò che nell’arte del Novecento è stato troppo sopravvalutato.
Perché è legittimo pensare che tante opere create durante tutto il secolo con la presunzione di essere forme libere, ariose, eternamente orientate verso il futuro, avverse ad un presunto gusto borghese da superare a tutti i costi, possano essere serenamente interpretate come una stanca declinazione manieristica di segni che altrove sono stati necessari e più autentici.
Queste opere, così pesantemente condizionate per essere forzatamente innovative e per simulare lo scardinamento delle regole accademiche, sono state in realtà sequestrate da un ingenuo contenutismo didascalico e da un grottesco, inaccettabile spiritualismo, e sono destinate a rivelarsi paradossalmente più naturalistiche e più descrittive delle stesse forme del passato che hanno avuto la pretesa di lasciarsi alle spalle.
Questa sezione di Principi dell’esilio non vuole essere in nessun caso un’implicita accusa di scorrettezza rivolta agli artisti che hanno attinto dal deposito mnemonico collettivo senza averne piena consapevolezza, però può essere lo spazio per una inedita riflessione critica.
Ridimensionare, non sminuire. E’ questo che è necessario fare se vogliamo approdare ad una diversa rilettura degli eventi della contemporaneità che coinvolga anche quegli artisti che sono stati dei coraggiosi Principi dell’esilio.
Per una archeologia della memoria
‘Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che accadrebbe? Dica lei.
Non saprei – risposi, stringendomi ne le spalle.
Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
E perché?
( .. ) gli occhi gli andrebbero lì, a quello strappo (..) e si sentirebbe cader le braccia
Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.’
(Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904)
Arte indiana giainista, L’anima liberata, sec. XVIII, metallo, Nuova Delhi (da Philip Rawson, Tantra. The Indian cult of Ecstasy, Londra, 1973).
Lucio Fontana nell’atto di tagliare una tela
In una situazione come questa si indebolisce progressivamente il controllo dell’autore sul materiale che entra a far parte della suo lavoro: il taglio di Fontana si è declinato così in un elemento figurativo paradossalmente tradizionale, in una indesiderata forma descrittiva che gli è stata trasmessa con il retaggio del Simbolismo letterario, e si riduce ad essere il tableau vivant della tela che Dorian Grey lacera pugnalando il ritratto nel romanzo di Wilde del 1890. E l’imbarazzante misticismo che pervade l’opera di Fontana viene giustificato dalle forme del misticismo indiano che ne hanno colonizzato completamente l’opera: la tela tagliata e bucata ha la sua matrice profonda nella forma vuota dell’anima liberata del Giainismo.
Pietra sacra forata, epoca ignota, Ajit Mookerjee, New Delhi (Rawson, 1973)
L.Fontana, Concetto spaziale, 1960
Non ci può sorprendere allora la coincidenza letterale di altre opere di Fontana con certe forme giainiste, come è il caso davvero sconcertante della Pietra sacra di Nuova Delhi e dei concetti spaziali forati del 1960, ma anche di altre opere legate ad esplicite suggestioni erotiche che si addicono perfettamente al sensuale misticismo giainista e alle sue raffigurazioni.
Ritratto del poeta inglese Philip Sidney, militare nella guerra contro la Spagna, Sec.XVI. Sulla corazza indossa un corpetto che un testo di storia della Moda descrive come ‘decorativamente’ tagliato
L. Fontana, Concetto spaziale, 1961
Altrove, in questo deragliare verso un contenutismo spiritualistico, le incisioni profonde sul metallo dei suoi rilievi mostrano invece la memoria vivida delle ferite simboliche che negli abiti del Cinquecento simulano il taglio della spada inferto sul corpo, ed è impensabile che queste struggenti ferite non abbiano condizionato come armonici di memoria il lavoro di un artista che cercava, come tanti altri in quegli anni, il pathos di una rinnovata emozione spirituale.
La forza irresistibile dei modelli
Edward Munch, Il grido, 1893, Oslo, Museo Comunale; Stele paleosabellica, V secolo ac,Chieti
San Nicola, Tavant, Francia, affreschi della Cripta, XII sec. La lussuria, copia moderna, Parigi, Palais Chaillot
La diversa consapevolezza che può essere sollecitata dalla constatazione di un influsso così decisivo, così drastico, da parte degli armonici di memoria, conferma la necessità di adottare uno sguardo diverso sulla realtà dell’arte contemporanea, perché sembra evidente che lungo tutto il fronte discontinuo della ricerca creativa del primo Novecento gli artisti abbiano subito un’alta marea di abbacinanti riverberi di memoria richiamati in superficie anche dal dragaggio intensivo della ricerca filosofica, psicologica e antropologica. E questa irrefrenabile alta marea di suggestioni inavvertite ha portato in dote un’infestante energia emotiva.
E’ per questo che la materia vischiosa dei dipinti di Munch attinge la sua inquietante sostanza oleosa dalle forme di una sconvolgente pittura medioevale sempre agitata da un’acuta percezione sensoriale della sofferenza interiore, quella degli affreschi francesi di Tavant (sec. XII), che negli anni a cavallo tra i due secoli erano sono stati documentati e divulgati dalle copie museali conservate nel Palais Chaillot di Parigi. Ma questa sofferenza interiore è anche quella che domina le grandi, poetiche culture oceaniche, che già in quegli anni venivano studiate con una diversa attenzione. La forma plastica del viso, ne Il grido, d’altra parte, mostra la memoria inequivocabile delle innumerevoli maschere apotropaiche e funerarie di matrice neolitica.
La Natività, Cappella di Saint-Martin-de-Fenollar. Maureillas, Pirenei Orientali, 1125 circa
Pablo Ruiz Picasso, Le ragazze di Avignone, 1907, NY, Museum of Modern art
Annunciazione, Cappella di Saint-Martin-de-Fenollar, 1125 circa
E’ quindi lecito ipotizzare che proprio gli artisti ai quali la storia dell’arte riconosce il ruolo prestigioso di audaci innovatori siano stati quelli più radicalmente condizionati dall’alta marea di questa memoria dissepolta, e niente può registrare più efficacemente questa realtà delle Ragazze di Avignone del sopravvalutato Ruiz Picasso.
La presunta novità formale delle Ragazze di Avignone può essere ridimensionata quando ci si accorge che il dipinto non è altro che il riflesso di un potente riverbero di memoria coniugato ad altre forme della creatività che il pittore ha tentato astutamente di saldare tra di loro.
Il quadro di Ruiz Picasso può sembrarci addirittura una fragile illustrazione priva di vigore, se viene confrontato con l’opera che a quanto pare ne ha costituito un modello di irresistibile fascinazione, mai dichiarato dal pittore e forse neanche mai osservato dalla critica: il ciclo affrescato nel 1125 da un geniale, violento, irrefrenabile pittore dei Pirenei romanici.
E questa di Ruiz Picasso non è una citazione, come lo è quella dei Primitivi catalani visti dal pittore a Barcellona in quegli anni, perché del magmatico affresco dei Pirenei le Ragazze di Avignone ripetono i dettagli più minuti, con una insistenza così impudica da far pensare più ad una memorizzazione inconsapevole che ad un plagio volontario che sarebbe stato veramente troppo scoperto.
Come Gauguin in Oceania aveva trovato non la raffinatissima arte locale, verso la quale sembra essere stato cieco, ma le forme legnose dell’arte popolare bretone che invece conosceva molto bene, così Ruiz Picasso ha creduto di guardare ad una presunta arte africana e oceanica confusamente coniugata ai suoi espressionistici Primitivi Catalani e alle Bagnanti di Cezanne, ma la realtà delle Ragazze è invece tutta nella memoria dello sconvolgente affresco dei Pirenei, che evidentemente il pittore aveva visto e dimenticato, censurandolo nella memoria affinchè quelle forme conturbanti potessero materiare incondizionatamente e senza nessun ritegno il suo dipinto.
‘Dévot Christ’, sec. XIII-XIV, Cattedrale di Perpignan (FR)
Les Demoiselles d’Avignon, particolare
San Giuliano a Brioude, Alvernia, particolare degli affreschi, sec. XII
Les Demoiselles d’Avignon, particolare
Questo dipinto di Ruiz Picasso si inserisce, indipendentemente dalla volontà del pittore, in una tradizione medioevale assai più radicale e duratura, nell’eterno presente di una sofferta autenticità, della sua illustrativa maniera novecentesca, un’arte visionaria che prevedeva anche le scarnificate, ossesse figure lignee del pauperismo e le più esasperate, lancinanti accentuazioni lineari romaniche sulle quali si è innestato l’armonico di memoria dell’affresco dei Pirenei.
La tela picassiana è rimasta invisibile, rovesciata contro una parete dello studio dell’artista, fino agli anni ’20. Il pittore ne aveva intuito i limiti culturali e temeva che potessero essere troppo facilmente individuabili?
Oviri, Paul Gauguin (1894-95)
Picasso, Figura (1907), Parigi, Musée Picasso
Sculture di pellegrini. Dalle sorgenti della Senna, sec.I a.c. (Digione)
Utamaro, Dama di corte e cameriera (particolare),XVIII sec., Epoca Edo, NY;
Pablo Ruiz Picasso, Guernica, 1937, Madrid, Museo Regina Sofia; Guernica, particolare;
Sacrificio di un toro, particolare di un mosaico nel Monastero di Chora, sec. XIV, Costantinopoli; André Kertész, Distorsioni,1933
Ruiz Picasso sembra essere stato la prima vittima consenziente di quella triste mitologia dell’artista innovatore che ha infestato il Novecento nascondendo in un cono d’ombra le opere di autori ipersensibili come Bonnard e rendendo poco visibili le opere più sottili, più autentiche, realizzate da quegli stessi artisti che poi sono stati sequestrati dalla sterile ossessione del continuo superamento dei limiti.
Ogni opera di questo pittore spagnolo è letteralmente dominata dal frenetico bisogno di soddisfare le attese degli intellettuali che aspettavano da lui solamente emozionanti novità: per il troppo celebrato Guernica Ruiz Picasso ha utilizzato, si immagina consapevolmente, le deformazioni visive di Kertész del ’33, ma il segno largo e fluido, sensuale, è quello delle incisioni erotiche di Utamaro.
Il dipinto, troppo sollecitato da altri e troppo riccamente retribuito per essere il segno di una sincera commozione per il bombardamento del paese basco, è diventato, ingiustamente direi, il simbolo dell’orrore della guerra: Guernica non è altro che un calcolato incastro delle spettacolari deformazioni fotografiche di Kertész, già precedute a suo tempo da quelle del film sperimentale di Gance La follia del dottor Tube del 1915, con la maestosa linearità di Utamaro.
E anche qui agiscono due forme in sovrapposizione: una regolata dalla volontà dell’artista, e l’altra (la calda sensualità di Utamaro) probabilmente inconsapevole.
Ci si rende conto di quanto sia ipocrita la manipolazione seduttiva messa in scena da Ruiz Picasso con Guernica quando incontriamo la riflessione sconvolta, sinceramente sofferta, che Kokoschka ha dedicato in quello stesso anno, nel 1937, al bombardamento nazista con la litografia Aiutate i bambini baschi, un’immagine oppressa da una soffocante afasia in un dissonante lacerto denudato da segni volutamente sciatti e puerili: un’invenzione poetica allo stato puro che si nega alla tentazione di sedurre l’immaginazione che ha portato lo spagnolo alla sua contaminazione di Eros e Thanatos.
Moneta celtica derivata da una moneta greco-romana
W. Kandinsky, acquarello, 1912, Parigi
Disegno infantile
Cy Twombly, senza titolo
Kandinskij è un altro artista che è stato artificiosamente sopravvalutato dalla storia dell’arte, sicuramente con la complicità della sua attività teorica e didattica, ma è anche lui una vittima consenziente della triste mitologia del superamento.
Reduce dalla sua vuota pittura spiritualistica, con una cultura che è più aderente all’epidermica Antroposofia di Steiner che ad un approfondito pensiero filosofico, questo pittore russo ha giustificato la sua debole pittura didascalica con la necessità di visualizzare il suono con il colore e il disegno. Ma l’unica opera interessante che ci ha lasciato, l’acquarello del 1912, è il frutto di una sovrapposizione forzata (non sappiamo quanto consapevole) tra due visioni del mondo che solo apparentemente appaiono inconciliabili: la freschezza della materia ancora fragrante della prima maniera del disegno infantile e lo spazio liberatorio che nelle affascinanti monete celtiche trasmuta la figura greco-romana nelle forme erratiche di uno spazio immisurabile nel quale vanno alla deriva gli elementi costitutivi dell’universo.
L’acquarello quindi è tutt’altro che un’opera astratta, non è concettualmente svincolato dalla materia, è la visualizzazione superficialmente musicale e artificiosamente infantile di uno stuporoso scenario cosmico che si adegua perfettamente allo spiritualismo dell’epoca. Qui alla memoria del disegno infantile, che proprio il Blaue Reiter aveva cominciato a guardare con una diversa attenzione, si è saldato il riverbero di memoria dell’universo aperto della cultura celtica.
E la tediosa geometria inventariale delle opere più tarde di questo pittore attesta il travisamento contenutistico della preziosa matrice celtica, mentre la tarda ripresa che Twombly fa con le sue opere dell’acquarello del ’12 conferma a distanza di tempo la presenza evidente della matrice del disegno infantile.
Larionov, Raggismo
Nel 1910, comunque, era stato realizzato un dipinto autenticamente astratto, assai lontano dal simbolismo contenutistico dell’acquarello di Kandinskij: lo stupefacente Raggismo di Larionov della collezione privata Lorenzelli di Bergamo, un dipinto materiato da una radicale, aggressiva dissoluzione del segno che sfida apertamente il limite dell’informe; un’opera di sconcertante intensità che si colloca al polo opposto dell’epidermica pittura didascalica dell’artista russo.
L’evoluzione dell’Universo, manoscritto,1700 c., Western India, New Delhi (Rawson 1973)
Franz Kupka, Disco di Newton, 1911-1912, Parigi
E anche l’opera di Kupka e di Mondrian, artisti sopravvalutati come Kandinskij, è stata analogamente coinvolta nell’interferenza mnemonica delle figurazioni mistiche indiane.
L’uovo cosmico fecondatore, Rajasthan, XVIII sec., guazzo su carta (Rawson 1973)
Piet Mondrian, Composizione, 1921, L’Aja
Diagramma astronomico per meditazione. Kangra, Himachal Pradesh, XVIII sec. Inchiostro e colore su carta, (Rawson 1973)
La fascinazione del perturbante
Saio francescano, Assisi, Basilica di San Francesco
Alberto Burri, Grande sacco, 1952, gnam
Il meccanismo del forte riverbero mnemonico degli armonici di memoria viene inavvertitamente attivato quindi, come è evidente, dall’arroganza della cultura egemone che ha preteso di considerare interi strati di opere della creatività che sono state disperse nello spazio dell’esteticità diffusa come fenomeni linguistici legati esclusivamente alla funzione pratica del culto e quindi privi di esplicita intenzionalità estetica.
Ma queste opere affascinati, questi inaspriti principi dell’esilio dell’esteticità diffusa relegati ai confini estremi della creatività, hanno invece una loro specifica intenzionalità creativa, ed è sufficiente osservarli nel loro contesto più vero, che trascende la funzione esteriore e occasionale del culto, per accettarle come opere d’arte.
Come è accaduto a Ruiz Picasso, a Kandinskij e a Fontana, anche l’umbro Burri non ha potuto sottrarsi a questa coercitiva invadenza della memoria, che anche per lui si è messa in moto nel momento critico della ricerca obbligata di forme che dovevano sedurre come nuove.
I suoi sacchi sono la riproposizione letterale, non la banale citazione regionale come è stato detto, del saio conservato come reliquia nei luoghi francescani, e questo saio è il frutto consapevole di una volontà estetica che sottrae alla dispersione della storia un oggetto comune per ricomporlo, per adagiarlo al sicuro, in uno spazio neutrale che alimenta, al di là delle intenzioni del culto religioso, un’intensa, sfuggente percezione di una cosa che nel nuovo spazio non è più uno strumento funzionale ma il segno che attesta la possibilità di una perturbante, astorica realtà sospesa.
Presunte impronte a fuoco impresse su abiti di tela, chiesa delle Anime del purgatorio, Roma
Burri, Grande legno G59, 1959, Roma, Gnam
Ed è la suggestione del perturbante che agisce in profondità quando l’artista opera con una fatale disattenzione per tutto ciò che non viene considerato interno al mondo dell’arte: lo vediamo nelle impronte a fuoco che marchiano le vesti nella cultura della devozione al soprannaturale che riemergono inavvertite nei legni bruciati di Burri.
Dipinti parietali della cultura neolitica, grotte di Cala genovese, Levanzo, isole Egadi
Jean Arp, testa, uccello e ombelico, spago su tela, 1929
Giuseppe Capogrossi, Superficie 581, 1966, Milano
La mitologia dell’artista innovatore ha reclamato, negli anni ’60, una rinnovata semanticità dell’arte che forse non era così urgente, e anche nelle opere di Capogrossi un forte riverbero di memoria ha saldato due diverse suggestioni, le forme ad ameba di Arp e, in sovrimpressione, la scrittura iconica neolitica, alfabeto di una interminabile sillabazione delle tracce del mondo.
Anche in Capogrossi, come in Kandinskij, in Fontana e in Burri, la ripetizione ossessiva dei segni ha portato le opere nel piano inclinato della fornace dell’entropia.
Perché questa ossessa ripetizione, ce lo dice l’esperienza della storia dell’arte, è il segno inequivocabile di un disagio fatale.
Reliquiario in s Stefano, Bonaccorsi, Catania
Duchamp, Scolabottiglie
Reliquiario, Giuliano da Firenze e Lorenzo Ghiberti, 1436, Basilica di s Antonio, Padova
Per quanto possa essere spiacevole ammetterlo, anche gli artisti più autentici, quelli che al di là delle apparenze contrarie sono stati in realtà meno passivamente coinvolti nella frenetica ricerca del superamento a tutti i costi del passato, Duchamp, Beuys, Cage, non hanno potuto evitare la collisione con il mondo degli armonici di memoria.
Nella diversa prospettiva che qui stiamo adottando, uno dei cardini più insensati della triste mitologia della contemporaneità, quello dell’inesistente ready made, può apparirci adesso nelle dimensioni più modeste di un fenomeno che indica semplicemente il punto di contatto tra due diverse zone della creatività, quella dominante della cultura egemone e quella periferica e sminuita della tradizione popolare, laddove l’oggetto comune è sempre stato spostato nel contesto esteticamente condizionato che ne altera irrevocabilmente la percezione.
La pratica delle reliquie e degli ex voto ha coltivato da sempre, nel mondo popolare, lo spostamento di contesto di un oggetto banale che viene strappato dalla precarietà della storia quotidiana, dalla crisi dell’esserci, per essere collocato con una intenzionale e inequivocabile volontà creativa in un contesto estetico che ne rinnova radicalmente la percezione affinchè possa esistere intensamente altrove, in quella ricerca di un collettivo orizzonte della presenza che De Martino ha individuato così chiaramente nelle tradizioni più arcaiche del mondo rurale.
Nella realtà concreta dell’arte intesa come esteticità diffusa, quindi, non si vede come gli oggetti isolati da Duchamp fuori dal loro contesto possano avere rivoluzionato qualcosa, né l’autore, che è stato un uomo di grande intelligenza e sensibilità, oggi lo sappiamo con certezza, ha mai desiderato una cosa del genere.
Duchamp, deluso forse della sua orribile pittura, come intimamente potevano esserlo stati all’inizio della loro carriera anche Picasso e Kandinskij, cercava una strada diversa, affascinato dalle scene teatrali di Roussel e dalle sperimentazioni disintossicanti di Picabia.
I suoi dubbi, però, le sue caute dichiarazioni, mostrano uno sgomento sottile che potrebbe anche essere stato alimentato dal sospetto che tutto ciò che stava facendo potesse avere una intensa esistenza parallela in un mondo creativo ancora invisibile perché svalutato, quello degli oggetti perturbanti che si nutrono di un humus occasionale che solo apparentemente è esterno all’ambito della creatività.
Impronta paranormale ottenuta all’interno di una cassetta blindata nel 1932
Duchamp, Foglia di vite femmina, 1950, gesso galvanizzato
E’ interessante osservare come le opere più delicate di Duchamp, le meno note, siano legate a certe forme che mostrano tutte le caratteristiche della reliquia, dove la materia è dilavata dalla sua funzionalità pratica per essere poi segregata in uno spazio che è sempre fortemente caratterizzato esteticamente, come in quella impronta digitale paranormale del 1932 che sembra essere la matrice dell’opera realizzata da Duchamp nel 1950, Foglia di vite femmina.
Un’opera, quella del ’32, che sembra essere più inquietante e poetica di quella del ‘50. Ed è difficile credere che Duchamp sia rimasto indifferente al fascino di un’impronta che risultava impressa su cera all’interno di una cassetta sigillata, come dichiarava il curatore dell’evento.
Reliquiario, Napoli, Duomo, cappella di S. Gennaro
Duchamp, Aria di Parigi, 1919
Come non è possibile separare l’ampolla con l’Aria di Parigi dal sangue rappreso nell’ampolla conservata a Napoli: anche qui è difficile credere che non abbia agito con forza in Duchamp un involontario riverbero di memoria delle reliquie.
Foggia, Santuario dell’Incoronata, tronco di quercia, ricordo dell’albero dell’apparizione
M. Duchamp, Dati: 1. La caduta d’acqua / 2.Il gas d’illuminazione,1964-1966. Portone dell’ambiente postumo ricostruito al Museo di Filadelfia
Noi sappiano che negli ultimi anni di vita Duchamp lavorò ad un’opera, Dati, dove il portone chiuso, come è noto, è quello che si vede in ogni raffigurazione antica dell’Annunciazione (dietro il portone c’è una scena che forse coniuga sincretisticamente il rapporto erotico tra Giove e Danae con l’immagine della Vergine savia che reca l’olio).
Ebbene l’autore si è limitato a concretizzarlo, quel portone, con un procedimento di materializzazione, di tableau vivant, che verrà utilizzato poi, fino ad oggi, con una patetica foga demenziale da centinaia di artisti di tutto il mondo ignari del carattere di unicità dell’opera irripetibile di Duchamp, come Mallarmè voleva che fosse la sua.
Gli sterili imitatori accademici di Duchamp hanno utilizzato all’infinito il tableau vivant di forme già esistenti, ma Duchamp stesso aveva ripercorso senza saperlo la trasposizione elaborata dalla cultura popolare che vede l’oggetto occasionale legato alla provvisorietà della storia spostarsi nello spazio estetico che lo sottrae alla sua (alla collettiva) condizione di precarietà.
Per Dati Duchamp lavorò in segreto, come aveva lavorato quasi in segreto Joyce al suo Finnegans Wake, che non era propriamente un libro, ma piuttosto un modo per immergersi indifeso anche lui in quella materia della discontinuità che tormentava di giorno in giorno il linguaggio e la vita della figlia Lucia.
Possiamo chiederci perché Duchamp sia arrivando a far credere a tutti di averla fatta finita con la creatività.
Forse aveva intuito l’esistenza di un universo sdoppiato, dove i paradigmi imposti dalla cultura egemone rappresentano solamente una delle tante altre zone di un territorio infinitamente più vasto.
Se fosse così, il suo disarmante portone potrebbe essere inteso allora come una dolente autocritica di chi aveva involontariamente contribuito all’ulteriore oscuramento di quella landa remota nella quale esistono mute le reliquie e gli ex voto, abbandonati da sempre nei tristi tropici della creatività.
Santuario di Caravaggio, frammenti di legno conservati come memoria di un evento
Kurt Schwitters, Breite Schnurchel, 1923, Berlino
E’ evidente a questo punto come gli armonici di memoria emergenti dai territori di confine della creatività non abbiano condizionato solamente l’opera di astuti seduttori come Ruiz Picasso e Kandinskij, ma anche quella dei grandi lirici della sensibilità, la cui opera non viene assolutamente sminuita da questo fenomeno intrusivo della memoria, ma semplicemente ridimensionata.
Panini benedetti, Santuario di San Nicola di Tolentino
Piero Manzoni, Achrome, panini ricoperti di caolino, 1961-62
Uno dei più vulnerabili lirici della sensibilità, sequestrato anche lui, questa volta drammaticamente, dalla cultura egemone, è stato Piero Manzoni, vergognosamente trasformato in un imbarazzante Parsifal dell’arte.
Ebbene, l’aspetto meno duraturo del lavoro di questo sensibilissimo poeta è il frutto di sottili riverberi di memoria che finora, a quanto pare, nessuno ha mai voluto prendere in considerazione per non disturbare le macchinazioni in corso di chi ha interesse ha creare una fossilizzata accademia della contemporaneità.
Anche Manzoni, come Duchamp, non aveva nessuna prospettiva concreta come pittore, e ha dovuto necessariamente percorrere il sentiero insidioso, allora già trasformato in prassi scolastica, dello spostamento dell’oggetto dal contesto originario, con l’avallo della cultura dominante che si è mostrata pienamente disponibile a giustificare l’apparente sconfinamento di Manzoni nel candore puerile come apertura verso una presunta, accresciuta complessità del mondo.
Bustine con la spazzatura e con la polvere della Casa di Loreto, sec. XIX
Manzoni, Contenitore con escrementi
E tutte le opere dell’artista mostrano in filigrana una matrice popolare che dobbiamo presupporre come del tutto inavvertita dall’autore.
Capelli conservati in una teca, Chiesa di S. Chiara, Assisi
P. Manzoni, Senza titolo, Lana di vetro, 1960
Impronta paranormale ottenuta all’interno di una cassetta blindata nel 1932
Manzoni, Uovo con impronta digitale, 1960
Reliquia, S. Nicola, Bari
Ray, Pacco
Tutto quello che è possibile intravedere nelle opere di Manzoni proviene dalla stessa matrice popolare che emerge anche nell’opera di autori assai meno spontanei e generosi di lui, come Man Ray, che con la sua maniera riformata dell’opera di Duchamp ha preparato la strada a una meschina vulgata che è responsabile della successiva infestante ripetizione di insensati stereotipi.
Reliquia in pietra, S. Antonio, Padova
Beuys, Olivestone, 1984
Ma la splendida vicenda creativa di Beuys ci dà la conferma della presenza dell’arcaica matrice popolare che si era già imposta con la sua perturbante suggestione nel lavoro di Duchamp.
Le pietre di Beuys hanno un incunabolo nella pietra conservata come reliquia a Padova, in quel masso gettato dall’alto a turbare lo stagno dell’ordine iconografico del culto.
Beuys, vittima innocente della greve mitologia dell’artista veggente generata dal goffo tentativo di cauterizzare le ferite aperte dell’opera poetica di Rimbaud, è stato uno dei lirici più autentici del Novecento, forse il più puro, ma il suo lavoro è prezioso per motivi del tutto diversi da quelli celebrati retoricamente e imposti da chi ha cercato con accanimento di musealizzarne il lavoro già durante il suo farsi concreto, come è accaduto anche con Joyce, anche lui stupidamente divinizzato in vita.
Beuys non è stato un pensatore, come si ripete troppo spesso, ma un istintivo, impulsivo poeta, e le sue imbarazzanti e innocue teorizzazioni didattiche, così ingenuamente segnate anche queste da un incolto spirito antroposofico, sono state forse il segno di un profondo disagio avvertito da un artista ipersensibile che era dotato di una inedita capacità di percepire sensorialmente il dolore nascosto nelle tracce del mondo, nei lacerti materiali che ha poi sempre rielaborato in forme acutamente ed esclusivamente pittoriche, mai concettuali.
Nodi spontanei in casi di presunta attività paranormale
Beuys, Sedia e grasso, 1964
L’estrema sensibilità di Beuys, che è romantica nel senso più bello e profondo, più delicato, ha permesso che tutta la sua opera fosse il nudo ricettacolo naturale di infinite suggestioni, tutte proveniente da quel mondo popolare arcaico che tanto lo aveva affascinato ai suoi inizi di artista. La sua sedia del ’64 condivide la realtà estetica degli analoghi oggetti di uso comune che nel mondo popolare sono strappati alla funzionalità dalla condizione magica.
Se Kandinskij aveva teorizzato il suo spirituale nell’arte per nascondere la pochezza culturale della sua creatività, Beuys sembra aver teorizzato invece il suo impegno sociale nell’arte per difendersi in qualche modo dall’intensa passionalità sensoriale che lo divorava e che forse lo angustiava se lo ha portato ad un precoce logoramento fisico.
Giubbotto di salvataggio ripescato dopo l’affondamento del Lusitania (1915)
J. Beuys, Corsetto per uomo del XX secolo dalle membra deboli (tipo lepre), multiplo, 1972
L’artista tedesco, che ha guardato le ferite del mondo esclusivamente e umilmente da pittore, cogliendone appieno la densa, complessa esteticità, non può non aver visto la foto del giubbotto ripescato dopo il naufragio del 1915, e non può non aver avvertito intimamente che quell’oggetto, quella reliquia alluvionale del mondo, calamitava su di sé già per il fatto di essere scelto, fotografato e visto, la memoria arcana e perturbante di altre remote reliquie, delle rappresentazioni antiche delle armature deposte e svuotate dalla materia organica del corpo di cui conservano la devastante, indelebile impronta.
Il suo Corsetto del 1972 è condizionato a distanza dall’immagine atroce del giubbotto del ’15, ed è anche questo il relitto di un naufragio, il calco doloroso di una assenza.
Così anche il suo abito di feltro è il ricettacolo mnemonico di forme già esistenti: l’abito vuoto nel trono dell’Etimasia che aspetta il corpo che dovrà nuovamente abitarlo e il vestito disteso sul letto che in Un Chien Andalou del 1929 aspetta che il corpo si reincarni in esso.
Biglietto ferroviario dei deportati di un lager nazista
Beuys, Noiseless Blackboard Eraser, 1974
Nell’opera di questo puro lirico della contemporaneità anche i minimi documenti più amari del passato recente diventano inconsapevolmente, sensorialmente, una reliquia del presente, perché l’artista tedesco non è mai stato un inverosimile sciamano, ma una calamita ipersensibile di segni già esistenti che marcano il tracciato epidermico del dolore.
Reliquia con iscrizione su legno, S. Croce in Gerusalemme
Beuys, lavagna
Le sue ingenue lezioni teoriche con le lavagne registrano i graffi incisi sulla pelle del mondo, come fanno le delicate iscrizioni sulle reliquie.
Reliquiari, Germania
Beuys
Nella sua opera si registrano i segni più scabrosi dai quali non si riesce a distogliere lo sguardo, Beuys ne ridisegna le forme con quel dolente, esasperante decentramento del segno che è sempre tendenzialmente orientato pudicamente verso la periferia o verso il fondo neutro del campo visivo, trainato nell’implosione da un severo sguardo antico che può essere stato educato solamente dalla pittura dei magnifici pittori danubiani del Cinquecento tedesco e dal grande lirico segreto del primo Novecento, Kurt Schwitters, ai quali Beuys deve tutto.
Blocco di pietra conservato come reliquia in una teca di vetro in un santuario italiano
Beuys, Infiltration Homogen fur Konzertflugel, 1966
Altrove, nel suo lavoro, si avverte con una inedita, morbosa, opaca intensità sensoriale, l’eco degli oggetti che pur essendo stati sequestrati a forza dal culto popolare conservano indelebile il sapore di un passato remoto che non ha mai smesso di agire sulla creatività.
Una tarantolata nella cappella di S. Paolo a Galatina (da, De Martino, Sud e magia, 1959)
Beuys, Bog action, 1971
E niente si addice meglio all’opera generosa di Beuys dell’idea di crisi della presenza studiata De Martino: le performance di Beuys hanno la stessa inequivocabile matrice delle performance dei tarantolati descritte in Sud e Magia e ne La terra del rimorso (1959).
Come avviene nelle azioni di Beuys, anche l’evento individuale dei tarantolati e di chiunque altro soffra in pubblico nel mondo popolare è strappato dalla sofferenza del precario tempo storico per assumere una condivisa, consolidata esteticità che sposta l’avvenimento dal momento privato alla drammaturgia collettiva, la sola capace di trasmutare la sofferenza individuale in esperienza di tutti.
Ricostruzione di un caso di ‘vessazione notturna’ (De Martino, Sud e Magia,1959)
Beuys,
Non sappiamo se Beuys, così sinceramente interessato al meridione italiano, possa aver visto le immagini di Sud e Magia del 1959, probabilmente si, ma le sue performance ripetono comunque quelle registrate da De Martino.
Ricostruzione di un caso di ‘legamento notturno’ (De Martino, Sud e Magia, 1959)
Vitex Agnus Cactus, azione di J. Beuys alla Galleria Amelio di Napoli (1972)
Una delle opere più affascinanti di Beuys, solo apparentemente enigmatica, aderisce con stupefacente naturalezza al mondo della tradizione rurale: L’Agnocasto (Vitex Agnus Cactus) è una pianta sedativa e calmante, e Beuys la porta sulla testa per rivivere con incondizionato trasporto la condizione popolare del malessere psichico esibito in pubblico.
E qui è ancora più evidente come, nell’opera di autori autentici completamente immersi nel flusso continuo della creatività, sedotti dalla propria opera e disinteressati a sedurre l’immaginazione degli altri, l’irrompere degli armonici di memoria non possa provocare il deragliamento del progetto creativo come è accaduto invece nel lavoro diversamente motivato di altri. Cambia solamente, certo, e viene adeguatamente ridimensionata, la posizione che questi autori occupano nello scenario più vasto della cultura contemporanea.
Gli equivoci dell’arte contemporanea
Ma lungo il fronte vastissimo della sperimentazione contemporanea i casi di autenticità e di generosa apertura, anche di messa a rischio di sé stessi, sono rarissimi, e ogni tappa prevista dalla storiografia accademica per un progresso che sarebbe in marcia verso una sempre più purificata, presunta immaterialità concettuale, viene investita da un accecante, liberatorio riverbero di memoria che frena e in parte vanifica la presunzione degli artisti e della cultura che li giustifica.
Globo cristallino per veggenti
Duchamp, Ottica di precisione,1920 (apparecchio ottico con lastre di vetro colorato ruotanti)
Così, un’opera minore di Duchamp che ha generato un vero e proprio museo degli orrori con l’arte cinetica degli anni ‘60, l’Ottica di precisione, dipende semplicemente dalle innocenti ossessioni retiniche del passato.
Esperimento degli emisferi di Magdeburgo, illustrazione del sec. XVII
Magritte, La voce del vento, 1928
Le invenzioni più esteriori del Surrealismo, come le sfere di Magritte, matrice di tanta vuota illustrazione successiva, derivano dal puerile interesse maniacale coltivato dall’immiserita cultura dei surrealisti per le più sensazionali illustrazioni scientifiche.
Piranesi, Appia, Judd
L’arrogante minimalismo concettuale di Judd può essere riconsiderato nella più modesta prospettiva teatrale e spiritualista che inizia con le descrizioni architettoniche del visionario Piranesi per arrivare alle neoclassiche, scarne scenografie di Appia e di Craig di inizio Novecento.
E. Maignan, meridiana a riflessione, Trinità dei Monti, 1637
Sol LeWitt, Wall Drawing, 1975
Il minimalismo di LeWitt perde la sua troppo suggestiva, apparente asetticità, se viene riportato alla sua matrice, ad opere scientifiche permeate di forte esteticità come la stanza disegnata con la meridiana del cartesiano Maignan.
Palermo, epigrafe su diaspro nero, sec. XVII
J. Kosuth, One and three,1965
La troppo celebrata concettualità di Kosuth può essere interpretata in realtà come un frutto tardivo e fossilizzato della tradizione epigrafica, e la splendida iscrizione al neon posta pochi anni fa dall’artista nella metropolitana di Napoli conferma tardivamente questa sua inconsapevole, innocente nostalgia dell’epigrafia antica.
Roma. S. Agnese, mosaico absidale, particolare dell’iscrizione, VII sec.
Joseph Kosuth,‘Queste cose visibili’, iscrizione al neon, 2001, Napoli, Stazione della metropolitana di Piazza Dante
A Napoli il riferimento tautologico alla luce rispecchia quello analogo del mosaico del VII secolo nell’abside romana di Sant’Agnese: se l’iscrizione luminosa di Kosuth esalta la luce stessa con le parole del Convivio (1304) di Dante, tutte le iscrizioni a mosaico dell’abside medioevale alludono indirettamente alla luce e al fuoco, simbolo della santa, e ad Onorio I che ha riportato ‘alla luce’ le sue spoglie (Rosario Assunto scrisse in uno dei suoi libri più belli, La critica d’arte nel pensiero medioevale, del 1961 (pag. 364), che queste iscrizioni in s.Agnese costituiscono una vera e propria critica incorporata nell’opera d’arte che illustra ( )la metafisica della luce).
Cerimonia dell’Okipa, cultura Mandan del North Dakota, sec. XIX
Sterlac, Performance, 1976
Negli anni della massima diffusione dell’antropologia strutturale la Body art non poteva eluderne i riflessi indiretti, e le performance di Sterlac ne subiscono gli effetti: le sue avventure emotive non sono una presunta, ambiziosa indagine sulla realtà del corpo nell’epoca della tecnologia, per la quale viene tanto celebrato, ma sono assai più modestamente la rievocazione teatrale delle più remote prove iniziatiche nell’epoca della tribalizzazione delle aree metropolitane.
Il taglio del solco dritto (Valentano, VT)
R. Long, Walking a Line in Peru,1972
Anche la Land art, come la Body art, non ha potuto evitare gli effetti indiretti dell’indagine etnografica del mondo rurale: le linee tracciate da Long non sono percorsi disinteressati, e non sono raffinate tautologie del puro muoversi nello spazio, ma sono invece la memoria insopprimibile di arcaici rituali agresti, come il ben più affascinante taglio del solco dritto che perpetua nel tempo l’opportunità di sospendere il tempo storico del lavoro produttivo per creare una parentesi di sospensione della necessità, laddove il solco nega la profondità prospettica e spreca la fatica del lavoro riscattandola alla dignità collettiva come in un potlac.
Roccaporena, Santuario di Santa Rita, 1946: cappella costruita attorno ad una pietra sulla quale pregava la titolare del santuario
Michel Heizer, Ten granite mass in cement depression, 1969
Nello stesso contesto, così fortemente colonizzato dagli inavvertiti armonici di memoria, le opere di Heizer hanno un precedente ineludibile nei grandi massi segregati altrove del culto religioso, residuo della complessa cultura megalitica.
Effetto corona della macchina Kirlian
Klein, Antropometrie, anni ‘60
E anche un autore come Klein, che ha condiviso con Manzoni e Fontana sia la sensibilità per una delicata immaterialità che il disastroso sequestro da parte della cultura dominante, è debitore di troppo forti suggestioni provenienti da un territorio confinante con il mondo dell’arte.
‘Turner dipinge uno dei suoi quadri’, dal ‘The Almanack of the Month’, 1848;Turner, Disastro in mare, 1835 c.
Ora, in questo diverso scenario, la vicenda di Pollock è particolarmente rivelatrice dei limiti dell’arte contemporanea, che invece di essere affrontati con sincerità e rigore vengono ancora colpevolmente lasciati in pasto alla più demenziale cultura reazionaria.
Ma prima di riflettere sulle forme di Pollock è bene soffermarsi su uno degli equivoci più incredibili della cultura contemporanea, quello che contrappone l’inesistente forma pura al contenuto in una faida senza fine e assolutamente insensata.
C’è una sconcertante ossessione puritana che domina l’arte dal secondo dopoguerra, ispirata al culto dell’autore e allo stupore religioso dell’opera esoterica, che ha esasperato una forma di ottusa superstizione relativa alla presunta negatività dei contenuti illustrativi dell’opera: così, tutto ciò che nei dipinti di Turner era intensamente gestuale e materico viene considerato una anticipazione dell’informale da parte di un pittore che non si era ancora liberato del racconto.
Ma non ha senso interpretare le opere del passato come se fossero la preparazione di qualcosa che poi inevitabilmente accadrà nel nostro presente. L’arte contemporanea non è lo sviluppo progressivo di conquiste formali precedenti, né potrebbe esserlo, dato che quelle forme sono spesso, come tante altre opere della creatività e come ogni forma di pensiero, torsi incompiuti che aspettano ancora di essere pienamente compresi.
Pollock è stato, anche lui, una delle tante vittime dell’ottusità spiritualistica, e anche la sua opera è stata sequestrata e accecata dal triste mito dell’artista rivoluzionario.
Turner fu deriso e calunniato alla sua epoca più di quanto lo sia mai stato un autore contemporaneo; la vignetta del 1848 che lo ritrae mentre dipinge con una scopa è la remota matrice ludica del culto deteriore che poi ha voluto fare di Pollock un inesistente eroe del gesto liberatorio.
Larionov, Raggismo, 1910
Pollock, Danzatrice notturna, 1944
Con questo pittore americano si assiste più che mai alla dispersione di un momento fertile che poteva fare di lui un pittore dignitoso, con un numero ristretto ma esaltante di opere magnifiche. Ma Pollock, come altri, ha rinunciato a quel percorso fertile a favore di una distruttiva accelerazione, indotta e direzionata dal mercato dell’arte che lo ha portato a smarrirsi in un forsennato labirinto di equivoci.
Quando Pollock dipinse il suo splendido Danzatrice notturna, nel 1944, era forse nell’unico momento autentico della sua carriera di pittore.
Questo dipinto, con la sua acre scabrosità, è debitore dello sconvolgente Raggismo (1910) di Larionov, e la sua materia implosa è mutuata dalla massa opaca di Ionisation (1931) di Varèse, che il pittore conosceva, e rappresenta il risultato più importante di un autore che fino a quel momento aveva dovuto attraversare faticosamente l’esperienza di una confusa sperimentazione.
James Ensor, Folgorazione degli angeli ribelli, 1889, Anversa; Pollock, Occhi nel calore, 1946
E anche un’opera magnifica e dolente come Occhi nel calore (1946), dipinta in quello stesso momento di felicità creativa, dimostra che Pollock poteva essere un amaro principe dell’esilio, anche se è evidente che questo dipinto non esisterebbe senza la devastante Folgorazione degli angeli ribelli (1889) di Ensor.
Ebbene, se Pollock si fosse fermato a questi risultati, se li avesse capiti e coltivati, oggi noi potremmo considerarlo un affascinante lirico degno dello stesso spazio sdegnoso, in ombra, che hanno abitato con struggente intensità Bonnard, Fautrier, Schonberg, Webern, Kahn, Celan, Merleau Ponty.
Arte Navajos
Pollock
Ma le cose non sono andate così, come sappiano, come non sono andate bene per l’opera delicata di Fontana che è stata abbandonata e in qualche modo involontariamente tradita in quegli stessi anni. I due autori hanno avuto una stessa sorte infelice, tutti e due attirati irresistibilmente nel tunnel cieco dell’invenzione forzata e costretti a sedurre gli altri rinunciando a sedurre se stessi.
Negli anni ’50 il pittore americano è stato tristemente forzato dalle circostanze ad operare una sintesi delle sue esperienze, dal lavoro a contatto con la materia minerale del Grand Canyon e con la pittura Navajos alla conoscenza dei testi di Jung, che aveva ideato una terapia con la sabbia colorata.
Ed è tristemente significativo che proprio il cruciale contatto di Pollock con l’arte dei Navajos venga sempre citato con noncuranza dagli studiosi del pittore: la poetica pittura della cultura più civile, più colta, che abbia mai abitato il territorio americano, tanto ammirata da Jung, viene menzionata come una delle tante componenti occasionali che preparano l’avvento di un genio innovatore.
Monet, I quattro pioppi, 1891 (NY); Pollock, Pali azzurri, 1952
Sezione ingrandita di un minerale
Ma lo stile spettacolare che Pollock coltiva nel dopoguerra, cancellando quei suoi fertili anni ’40, è il frutto di una osmosi forzata che poteva portarlo solamente ad un deprimente, inaridito accanimento.
Nell’opera esemplare di questa fase, già così invecchiata precocemente, Pali azzurri, del 1952, Pollock innesta il ricordo del Monet de I quattro pioppi (1891), con il quale impone istintivamente un ordine naturalistico e prospettico ad una massa solo apparentemente caotica che poteva nascondere in filigrana la dolorosa reverie delle sezioni stratigrafiche minerali, un armonico di memoria che non può averlo mai abbandonato se aveva lavorato a sedici anni con il padre e il fratello a rilevazioni geologiche nell’Arizona, dove poteva anche aver visto al lavoro i Navajos.
Una memoria quindi, forse consapevole, di Monet e della pittura su sabbia dei Navajos, si è sovrimpressa ad un oscuro armonico di memoria di quella materia minerale informe e continua che stava interessando in quegli anni anche altri autori, da Tobey a Dubuffet, altrettanto sedotti dalla sognante reverie che quella stratificazione cieca poteva provocare.
Se Bachelard avesse scritto anche una Reverie del mondo minerale, magari ricordando il testo di Panofsky che descrive lo stato di trance dell’abate Suger di fronte alle pietre preziose, oggi accetteremmo forse più serenamente l’idea che una sezione minerale, con la sua ossessa chiusura, con la sua dolorosa, intollerabile anossia, possa provocare un indelebile tormento interiore.
E non possiamo escludere che il giovanissimo Pollock, purtroppo già allora gravemente alcolizzato, abbia sofferto per questa arcaica, ipnotica reverie, cercando di dimenticarla scacciandola fuori dal suo cono visivo, nell’ambiente esterno, proiettando una ingigantita opprimente parete minerale purificata dall’imitazione del gesto sovrano dei Navajos.
Forse dovremmo avere il coraggio di ammettere che l’opera tarda di Pollock concretizza l’incubo del pittore protagonista del racconto di Balzac, Il capolavoro sconosciuto del 1832: ‘io qui non vedo che un ammasso confuso di colori delimitati da una quantità di linee bizzarre che formano una muraglia di pittura’ ( ) ‘ma finirà pur per accorgersi, prima o poi, che non c’è niente sulla tela!’ ‘ infine gli indicò la tela dicendo: guardate!’ ( ) ‘Frenhofer contemplò un momento il suo quadro e vacillò. Niente, niente ( ) si sedette e pianse’. ‘ma io la vedo, gridò, ed è meravigliosamente bella!’.
C’è un episodio che attesta l’inaccettabile culto dedicato a questo pittore, che è stato forse più di quanto si voglia ammettere un cinico o maldestro amministratore della propria emotività: si tratta dell’equivoco in cui è caduto uno studioso intelligente e colto come Argan, che associò alla pittura di Pollock la musica jazz, una forma creativa che semmai può condividere una forte simpatia strutturale con la fresca improvvisazione segnica di pittori come Sam Francis (Nero Brillante del 1958). Il jazz ha un legame con l’epidermica fragranza segnica di Masson, che sembra essere il corrispettivo visivo de La Création du monde di Milhaud che nel 1923 integrava nel suo organico strumentale un’orchestrina jazz, ma non certo con la matericità opprimente di Pollock.
Evidentemente Argan preferiva pensare la gestualità di Pollock nel registro di una forma di spontanea, liberatrice casualità, perché in questo modo diventava più agevole sostenere la positività della sua esperienza, ma la densità asfittica dei suoi dipinti ha il suo equivalente strutturale solamente nella massività sorda di Ionisation (1931).
La memoria imbarazzante di un Cinesarge ottocentesco
‘Potrei credere solo a un Dio che sappia danzare. E quando ho visto il mio demonio, l’ho sempre trovato serio, radicale, profondo, solenne’
(Nietzsche, Così parlo Zarathustra)
Quando ripercorriamo le tappe evolutive della contemporaneità, ci imbattiamo nelle forme retoriche della presunta astrazione tanto banalmente venerate come icone sacre. Ebbene, queste opere sono state profondamente infiltrate dalla memoria di una forma creativa ottocentesca praticata da un modesto e inoffensivo Cinesarge moderno, quello degli Incoerenti, un modesto Cinesarge della modernità che ha un senso nello scenario più ampio della tradizione dello stupore ludico maturata da Villon e Rabelais fino al tardo Rossini, a Daumier, a Jarry, a Laforgue e Jacob, a Roussel e alle opere più delicate e stranianti di Picabia.
Oggi sappiano che Duchamp stesso ha maturato la sua singolare attitudine al distacco sdegnoso per gli stereotipi dell’arte frequentando ai suoi inizi gli umoristi parigini di inizio secolo, e sappiamo che l’artista ha reclamando fino agli ultimi giorni della sua vita una più degna attenzione per Allais, il personaggio più noto del cenacolo ottocentesco degli Incoerenti, e, cosa ancora più importante, sappiamo che Joyce riconobbe apertamente il debito che il suo Ulisse aveva contratto con l’ultima opera di Flaubert, Bouvard e Pécuchet, scritto nel 1880, negli stessi anni in cui operavano gli Incoerenti: la materia del cattivo gusto della mediocrità messa in scena da Flaubert era destinata ad essere accolta nell’affascinante magma di Ulisse senza perdere la sua inquietante ambiguità che la fa oscillare tra il gioco ludico e l’amara constatazione di quella stupidità che prima di Flaubert aveva tanto ossessionato e affascinato anche Baudelaire.
Robert Fludd, il nero prima dell’universo nel trattato Sui due mondo, 1617
Malevic, Quadrato nero su bianco, 1915
Paul Bilhaud-Alphonse Allais, Des negres dans une cave, pendant la nuit (1883)
Ricostruzione del 2009 dell’opera
Ebbene, le opere degli Incoerenti, esposte nel 1882, sono l’incunabolo paradossale e certamente indesiderato delle icone dell’astrazione mistica della contemporaneità.
Quando Malevic ha dipinto le sue opere suprematiste nel primo Novecento, era evidentemente assuefatto al gusto deteriore dell’insignificante pittura illustrativa che ha praticato prima e soprattutto subito dopo le sue presunte icone dell’astrazione del 1915 e del 1919, condizionato dalla stessa fragilità culturale degli altri presunti protagonisti della contemporaneità e come loro disposto ad accettare l’impegno della scoperta forzata di un mondo creativo che doveva essere sistematicamente nuovo.
Come era già accaduto a quegli altri autori, anche nell’opera di Malevic si è impresso a fuoco un impressionante riverbero di memoria: ed è così che il sorriso disarmante del dipinto nero di Paul Bilhaud – Alphonse Allais si è scandalosamente insinuato nella vuota tetraggine tardo bizantina del Quadrato nero su bianco del 1915, che comunque ripeteva mediocremente l’impressionante pagina del trattato Sui due mondi di Robert Fludd del 1617.
Tavole di G. Doré per Storia della Santa Russia, 1854 (ediz. Ital. 1980, Comic Art)
(1)la sua origine si perde nella notte dei tempi; (2) ho deciso, d’accordo con l’Editore, di lasciare questi spazi vuoti
D’altra parte le ludiche sperimentazioni degli Incoerenti erano tutt’altro che isolate nell’Ottocento, se il geniale illustratore Dorè, che è stato a volte anche un sorprendente, intelligente pittore, aveva giocato con l’astrazione e la gestualità nella sua Storia della Santa Russia già del 1854, assai prima degli Incoerenti, visualizzando con leggerezza la suggestione ipnotica del vuoto e del buio.
Allais 1884, Recolte de la tomate sur le bord de la mer rouge par des cardinaux apoplectiques, stoffa rossa;
Malevic, Quadrato rosso, 1915; Ricostruzione del 2009 dell’opera di Allais
Allais, Première communion de jeunes filles chlorotiques par un temps de neige (1883)
Malevic, quadrato bianco su bianco 1919
Hurlements en faveur de Sade, 1952
E anche qui ci si deve sottrarre alla tentazione di fissare una sterile cronologia evolutiva: il dipinto vuoto di Allais del 1883 non anticipa in forme ludiche l’illustrativo Quadrato bianco su bianco di Malevic del 1919, né tanto meno lo squallido film senza immagini di Debord del 1952. Sono piuttosto quelle opere della seriosa presunzione novecentesca a subire comunque il fascino insidioso dello spirito ludico ottocentesco. E questo vale anche per il romanzo burlesco di Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, 1759-1767, dove figurano pagine completamente nere e marmorizzate, che, pur essendo oggetto di uno studio colto e intelligente (TristramShandyWeb), viene comunque considerato prima di tutto un anticipo dello spirito Dada e un modello per Joyce.
Per riflettere con serenità su questo fenomeno dello spirito ludico che si insinua nelle più seriose icone dell’astrazione, può essere interessante osservare il goffo comportamento di chi ha creduto di valorizzare le opere ludiche di Allais con le recenti ricostruzioni del 2009: con una sorta di maldestro restauro intrusivo sono state cancellati gli imbarazzanti bordi decorativi degli originali, con il risultato di trasformare involontariamente quelle opere in falsi incunaboli dell’arte contemporanea; un equivoco che è stato consolidato anche da chi ha scritto: l’Art contemporain? Du réchauffé des Arts Incohérents. Mais sans humour.
Ma i lavori degli Incoerenti non sono un imbarazzante anticipo ludico delle icone suprematiste dell’arte novecentesca: sono queste che ricalcano le fragili icone dall’arcaico sapore di Cinesarge per assicurarsi l’ossessiva sacralizzazione dell’opera d’arte nell’epoca del massimo rafforzamento dell’aura religiosa che la circonda.
Allais, Marche funèbre composée pour les funérailles d’un grand homme sourd (‘I grandi dolori sono muti’)
Cage, spartito vuoto per 4’33’’,1952
Ricostruzione dello spartito di Allais,2009
Basti pensare che neanche lo spartito di Cage del ’52 per pianoforte chiuso (4’33’’) può evitare la memoria della Marcia funebre per un uomo sordo di Allais, perché questa opera di Allais, più delicata che ironica, è un malinconico memento mori che segna il confine tra lo storico Cinesarge ludico e la scena della drammaturgia novecentesca, una fertile terra di transito che è troppo antica perché la si possa ignorare e perché se ne possa impunemente travisare il significato.
Anche per questa ludica Marcia funebre la recente ricostruzione del 2009 ha falsificato la realtà, trasformando la lievità indifesa di Allais in una inesistente anticipazione dello spartito vuoto di Cage.
L’opera di Cage comunque, nonostante l’intelligenza e la straordinaria sensibilità di questo autore seguace di Thoreau, rappresenta, ed è doveroso annotarlo proprio per chi ammira l’insieme eccezionale del suo lavoro, la trascrizione del sorriso disarmante da socratici minori degli Incoerenti nell’espressione seriosa di una forma di fanatismo evangelizzatore che prevede sempre un’ostinata e insopportabile rieducazione del mondo.
Luigi Loir, L’arc de triomphe de l’avenir, Exposition des Arts Incohérents, 1883
Gropius, Monumento ai caduti di Marzo, 1921, Weimar
Poi, per quanto possa essere anche questo un pensiero sgradito, è impossibile non accorgersi come nel tetro monumento di Gropius del 1921 emerga irresistibile la matrice ludica in uno dei disegni degli Incoerenti.
Anche qui il fanatismo della pesante educazione forzata sostituisce al lieve sorriso ottocentesco quel volto cupo che mostra il sapiente quando esce dalla foresta della conoscenza tanto detestato da Nietzsche.
Krishna con un animale simbolico, Kulu, c. 1730, guazzo su carta, Londra
Cadavre esquis surrealista disegnato da Ray, Mirò e altri.
E può essere utile ricordare che il meccanismo capace di tradurre le forme ludiche in forme drammatiche può anche essere agito al contrario: la conturbante figurazione tantrica dell’animale simbolico di Krishna è con ogni evidenza una delle matrici dei leggeri cadavre esquis surrealisti, che a quanto pare non erano affatto il frutto di un (irrealizzabile) automatismo psichico.
Vasi comunicanti
Kurt Schwitters, Orbite, 1919, New York
Burri,Grande ferro, 1961
A volte l’artista contemporaneo, come il personaggio del disegno di Fussli del 1779, sembra avvertire, senza averne la piena coscienza, la disperazione davanti alle rovine antiche di soluzioni creative del passato che non prevedevano la sterile proliferazione scolastica che invece ha inutilmente inquinato l’ultimo secolo.
E anche le opere di altri artisti possono scatenare il riverbero di memoria in quegli autori che sono sempre troppo ansiosamente alla ricerca di un forte consenso pubblico; in questi casi si crea spontaneamente un sistema di vasi comunicanti attraverso il quale vengono travasate delle soluzioni che poi vengono considerate dall’artista che ne usufruisce inavvertitamente come brillanti forme inedite.
E’ quello che possiamo osservare nei ferri di Burri, dove riemerge con prepotenza il ricordo delle opere di Schwitters, assai meno accademiche di quelle dell’italiano e dedicate alla ricerca di una drastica frantumazione del segno.
Giuseppe Terragni, Progetto per il Palazzo Littorio a Roma, 1934, porfido rosso. La crettatura della superficie di 80 mt. deriva dallo studio delle tensioni (Zevi,1980).
A.Burri, Grande cretto nero, 1977, 108 mq, realizzato espressamente per il museo di Capodimonte
Anche il monumentale Cretto, un’opera che esibisce una retorica piattezza neoclassica che ha fatto pensare alla solennità rinascimentale, destinata significativamente dall’autore a Capodimonte, è debitore del progetto mai realizzato che un autore generoso come Terragni ideò per Roma nel 1934, dove la parete crettata sembra sul punto di crollare accanto alle vicine rovine del Foro Romano e del Colosseo.
Anche qui, come accade per tante altre opere che hanno subito l’affiorare inavvertito della memoria, è proprio la sovrapposizione puntuale delle due opere che legittima la presenza di un armonico di memoria.
J. Turner, Bufera di neve, 1842
E. Vedova, Immagine del tempo, 1958-1959, Lissone
La pittura di Vedova appare più naturalistica e atmosferica, nel senso più tradizionale del termine, della sua matrice formale che si trova nei dipinti di Turner, dove la figurazione è invece un materiale fittile che alimenta una violenta combustione della massa lasciando spazio a sottili percezioni del mondo.
Basta mettere a confronto due dipinti, la Bufera di neve del 1842 e l’Immagine del tempo del 1959, per notare subito quanto la gestualità di Vedova sia stancamente ripetitiva e monotona se confrontata con quella di Turner che è invece sempre intrisa di un’entusiasmante, vivida percezione retinica di ciò che altrimenti non potremmo mai vedere, nello spirito di un fertile e colto empirismo.
Seghers, Paesaggio montuoso con carreggiata (1620 c.)
Schad, Schadografia, 1918
Le opere di Schad fanno sorridere, se confrontate con le inaudite sperimentazioni di Seghers, che operava nel Seicento in condizioni di estremo isolamento.
Duchamp, 1200 sacchi di carbone sospesi al soffitto sopra un braciere, Mostra internazionale del surrealismo, 1938
J. Kounellis, senza titolo,
Kounellis, Sacchi di semi, 1969
I vasi comunicanti, come si diceva, possono mettere a contatto una sola opera di un autore con l’intero percorso di un altro. Da una sola opera opera di Duchamp, i sacchi appesi ad un soffitto nel 1938 sopra un braciere, sembra derivare l’intera opera di Kounellis: e anche in questo caso l’eccesso di ripetizione che appesantisce il lavoro di questo sensibile autore greco sembra essere il segno di un disagio per la percezione indistinta di una matrice dimenticata che si sa irripetibile.
Dante Gabriele Rossetti, Illustrazione per Il Corvo di Poe, matita e penna, 1846. Coll. Privata inglese
Guttuso, Fuga dall‘Etna, 1939, Roma, Gnam
L’intera opera di Guttuso sembra avere invece il suo (inconsapevole?) incunabolo in un disegno di Rossetti del 1846 che potrebbe tranquillamente essere attribuito al pittore siciliano, un caso sorprendente di matrice minima capace di dare origine ad un ductus che è stato poi mantenuto inalterato per una vita intera.
J. Whistler, Notturno, 1870 c.
F. Kline, New York, 1953
E sono tanti altri gli esempi di contatto a distanza tra i pittori: c’è più ariosa gestualità nel Notturno di Whistler del 1870 che in tutta la mediocre pittura ripetitiva di Kline, così minata dalla presunzione di rivivere la freschezza della splendida calligrafia Zen.
Perché Kline credeva evidentemente di operare a contatto della tradizione orientale esportata in Occidente nel secondo dopoguerra, ma gli armonici di memoria sembrano aver imposto ai suoi dipinti la serrata struttura di ombre del Notturno e, nel migliore dei casi, un riflesso della freschezza immaginativa del magnifico Studio di marina con nuvolo di pioggia dipinto nel 1824 da Constable.
J. Turner, Pioggia, vapore,velocità, 1844, Londra
Jean Fautrier, Mi sto innamorando,1957
I riverberi di memoria non consapevoli possono portare dei vitali suggerimenti anche ad un autore sensibile e colto come Fautrier; il suo delicato ductus può essere stato suggerito dal ricordo, non sappiamo quanto cosciente, della magnifica materia cancellata ottenuta da Turner con il suo dipinto più intenso, l’affascinante Pioggia, vapore, velocità del 1844 di Londra.
Kurt Schwitters, Freia, 1938-39
Beuys,
Le opere più delicate di Beuys, i suoi fogli stremati da un pudico silenzio che possiamo trovare solo nella musica più rarefatta di Anton Webern, non esisterebbero senza il precedente delle opere più intense di Schwitters, di cui Beuys deve comunque essere considerato, umilmente, un intelligente continuatore.
Mallarmè, La Dernière Mode, 1874
Duchamp,
Infine, quando Duchamp adottò l’identità femminile di Rrose Sélavy non poteva eludere il ricordo del precedente di Mallarmè, che realizzò da solo i numeri della Dernière Mode firmando con pseudonimi femminili. E d’altra parte non è possibile separare il progetto concettuale di Mallarmè per Le Livre dall’insieme dell’attività creativa di Duchamp; un vaso comunicante altrettanto affascinante di quello che lega Beuys a Schwitters che conferma la necessità di un ridimensionamento anche di questi due grandi lirici del Novecento.
Magico a forza d’ingenuità
Nell’orizzonte di questa creatività che è stata davvero troppo violentemente trascinata a forza verso una seduzione epidermica e troppo sequestrata dall’ipocrisia della retorica del superamento del passato a tutti i costi, campeggia la figura di De Chirico.
Magico a forza d’ingenuità, scriveva Baudelaire nei suoi scritti sull’arte, e De Chirico sembra aver seguito questa suggestione, ma forse con troppa determinazione nel cercare soluzioni apparentemente colte, con una troppo aperta esibizione didascalica di presunti pensieri filosofici.
E anche le sue opere migliori, quelle più vicine alla poesia italiana del suo tempo, rivelano in filigrana degli accecanti riverberi di memoria che inevitabilmente ne ridimensionano l’importanza.
Xanto Avelli, Piatto istoriato, Urbino, sec. XVI; De Chirico, Il trofeo, 1926, Milano; Albarello con grottesche, sec. XVI
Il denso ductus delle sue opere più vive, come Il trofeo del 1926, ha una matrice inequivocabile nella pittura meravigliosamente sciatta degli istoriati cinquecenteschi, dove è possibile ritrovare anche tutti i temi tipici del pittore.
Diluvio universale, incisione cinquecentesca
De Chirico, Il nuotatore misterioso, 1935 c.
Una delle invenzioni più intense di De Chirico, Il nuotatore misterioso del 1935 denuncia la presenza di un suggestivo modello in certe incisioni cinquecentesche che oscillano tra visionarietà colta e ingenuità popolare.
E questo straniante lirismo del Nuotatore, dove le forme si contraggono come in una pagina trasognata di Ossi di seppia, non è il frutto di una pura ricerca del magico a forza di ingenuità, ma della memoria, che può attingere da un deposito quasi insegretito di forme anomale.
Mosaico nel cortile della moschea di Damasco (epoca Omayyade, sec. IX)
De Chirico, Il grande metafisico, 1925 c., Berlino
In un’altra opera, il Grande metafisico (1925), il modello è l’impressionante mosaico di Damasco del sec. IX.
Distruzione di Sodoma, affresco, 1335, Decani, Grecia
De Chirico, la famiglia del pittore, 1926
La perturbante pittura tardo bizantina non poteva non essere impressa nella memoria di De Chirico, ed è questa la fonte di certe poetiche implosioni figurative delle sua pittura.
Erhard Schoen, Tavola dal Trattato delle proporzioni, Norimberga, 1542
Le inquietanti figurazioni scientifiche rinascimentali, poi, dominano, come è già noto, l’immaginazione di De Chirico.
Miniatura persiana, sec. XVIII
De Chirico
E a volte può essere perfino imbarazzante scoprire la fonte esplicita di alcune troppo facili suggestioni.
Maria Bondea, la bontà, disegno medianico (da Francesco Egidi, Pittura e disegni metapsichici, 1954, fig. 74)
Enzo Cucchi, Gli alberi e le donne sono il soffio delle capigliature, disegno,1980
E Magiche a forza di ingenuità sono anche le opere dei due pittori italiani più interessanti della ripresa figurativa degli anni ’80, Chia e Cucchi.
La loro pittura, sempre ricercatamente poetica, viene giustificata dalla critica facendo ricorso alla sensibilità postmoderna per una consapevole, esplicita memoria storica, ma è possibile anche una diversa lettura.
Le opere di questi due autori mostrano infatti un legame vitale con la straniante creatività del disagio psichico, dalla quale mutuano una dolorosa reverie sognante.
Il sottile disegno medianico di Bondea pubblicato nel 1954 è un potente, delicatissimo armonico di memoria che emerge incontrastato nell’opera di Cucchi, condizionandone evidentemente gli esiti più duraturi; e anche in questo caso siamo di fronte al caso di un solo minuto disegno isolato che può essere stato capace, con la sua intensa energia visionaria, di avviare una sequenza interminabile di varianti all’interno dell’intera carriera di un altro autore.
Dipinto realizzato nell’Istituto psichiatrico di s. Lazzaro, Reggio Emilia
Chia e Cucchi, Senza titolo, 1980 (opera di collaborazione a due)
Se l’arte del disagio psichico può essere oggetto di questi riverberi di memoria, e penetrare così profondamente, con una tale incisività, nella materia creativa dei pittori sostenuti dalla cultura egemone, questo accade perché si tratta di una forma di creatività che è stata cinicamente confinata in una zona di confine che è stata resa poi quasi impraticabile per la critica d’arte, e dalla penosa reclusione in questo limbo le forme possono evadere solo scavandosi freneticamente verso l’alto un tunnel sotterraneo che le porti in superficie.
I limiti della fossilizzazione accademica
Hunt, Il capro espiatorio, 1854
Rauschenberg, Monogram (1955-59)
Ora, se tutto ciò che è stato osservato finora ha un senso, non possiamo sottrarci dal formulare un giudizio severo per le forme di un’arte istituzionale che dalla metà del Novecento ad oggi non ha mai smesso di colonizzare slealmente l’immaginazione collettiva. E questo significa biasimare il ruolo deprimente del mercato e quello di una critica d’arte accademica che si è dimostrata sempre più disponibile a giustificare qualsiasi cosa, con una prassi che ormai coincide con la celebrazione dogmatica di uno sgradevole culto religioso ipocritamente schermato da una presunta eticità che è invece sempre più vergognosamente demagogica.
Quella invenzione del tableau vivant che è stato possibile individuare da Duchamp in poi sembra incarnare negativamente il paradigma estetico della contemporaneità. Come abbiamo visto, si sostituisce prima un pensiero con la sua teatrale materializzazione fisica, e poi si celebra questa concrezione come una icona sacra che mostra ambiguamente una doppia natura: di oggetto banale, capace di scatenare artificiosamente la prevedibile reazione del rifiuto, e di presunta, saggia riflessione sul mondo. Però c’è qualcosa che disturba questo stupido gioco barocco.
Monogram, di Rauschenberg, mostra in filigrana la sua remota matrice contenutistica, il dipinto del preraffaellita William Hunt, Il capro espiatorio, dipinto un secolo prima: ancora una volta abbiamo un quadro che viene tradotto come se fosse un testo letterario nella forma teatrale di un tableau vivant che ne concretizza materialmente i contenuti già formulati sulla superficie piana della tela.
Questa opera, troppo acriticamente celebrata, costituisce la messa a punto definitiva del modello funzionante dell’incontrastata retorica neobarocca. Con questo lavoro Rauschenberg ha depositato varie banalità iconografiche del passato in un fascinoso simulacro che è solo apparentemente enigmatico, con lo scopo di rinnovare le forme di un contenutismo moraleggiante che oggi viene esibito impudicamente proprio da quegli artisti che sono più compromessi con l’aspetto prevalentemente mercantile e scarsamente etico dell’arte.
De Dominicis, Calamita cosmica, 1990
E nessuno più di De Dominicis ha sviluppato con insopportabile saccenteria questo modello normativo elaborato a suo tempo con Monogram, ed è questo il motivo che ha permesso alla cultura egemone neobarocca di mitizzare questo autore altrimenti insignificante.
Le opere di De Dominicis, come quelle del suo modesto successore Cattelan, sono ambigui tableau vivant barocchi che mettono in scena la trasmutazione visiva di pensieri comuni; la sua Mozzarella in carrozza è esemplare in questo senso: materializza un’espressione comune e la trasforma, con un procedimento specificatamente barocco, in un concetto universale, dove la luce bianca (la mozzarella) giace protetta, o minacciata, all’interno del buio informe (la carrozza nera).
La sua Calamita cosmica (1990) mostra invece scopertamente un flusso di leggibilissimi armonici di memoria: se le ossa dei dinosauri sono state credute in passato resti di giganti estinti, allora il grande scheletro ne è l’ingenua visualizzazione; è una calamita cosmica perché attrae sulla terra, come indica il percorso dell’asta verticale, l’asteroide che avrebbe provocato l’estinzione dei grandi rettili. Il naso appuntito, poi, è un segno che De Dominicis ha trovato già sfruttato ampiamente in Picabia, ma è presente anche nelle forme dell’arte oceanica che alludono alle mitiche figure del passato, che stringono tra i denti un lungo naso con una parossistica concentrazione.
Come si vede, non c’è niente di così enigmatico, e non c’è nessun nesso con la ridicola idea dell’immortalità che viene sempre evocata a proposito dell’artista.
Gautama Buddha in meditazione
Biennale di Venezia, 1972, Seconda soluzione di immortalità, (con la presenza di Paolo Rosa)
Ed era un tableau vivant anche Soluzione di immortalità del 1972, dove il giovane mongoloide, seduto di fronte ai segni statici dell’universo rievocava l’immagine del mongolo Buddha in meditazione.
Anche qui agiva lo sleale artificio barocco che ha lo scopo premeditato di sollecitare una reazione negativa negli osservatori per poi umiliarli nel rivelare la sua (presunta) vera natura di contenitore occulto di un pensiero profondo.
De Dominicis, Gettando sassi nell’acqua cercando di fare quadrati anziché cerchi, 1969
Un analogo meccanismo barocco che era già stato attivato dallo stesso artista anconetano con le foto (che volevano essere) irritanti del ’69, dove è ritratto mentre simula una ingenua quadratura del cerchio.
Anche qui, alla sollecitata reazione di fastidio per l’apparente idiozia viene contrapposta sotto traccia una umiliante citazione colta che si suppone genericamente autorevole:‘La trasformazione pratica delle cose esteriori è già insita nel primo impulso del fanciullo: egli getta pietre nel fiume e ammira i cerchi che si formano nell’acqua come un’opera di cui egli ottiene l’intuizione di ciò che è suo (Hegel, Lezioni di estetica,)
Klein, Salto nel vuoto, 1960
s Giuseppe da Cupertino in volo, stampa, sec. XVII
E anche le apparentemente ridicole performance di Klein mostrano un’analoga perfidia barocca: colui che si ribella di fronte all’irritante l’idiozia del salto nel vuoto, che è appunto la visualizzazione di un’espressione comune, in realtà sta offendendo senza volere il culto del santo in volo.
E’ evidente come ogni opera della contemporaneità barocca possa azionare senza difficoltà questo meccanismo degno della più artificiosa Scolastica medioevale: ogni forma ostentatamente enigmatica che si affaccia a stupire e ad irritare il senso comune popolare nasconde in sé delle forme che sono sempre state coltivate proprio nelle tradizioni popolari, soprattutto in quelle del mondo rovesciato.
Perché il turbamento del fruitore popolare è dovuto non tanto all’incomprensibilità dell’opera quanto piuttosto alla perturbante, annebbiata familiarità che questa si trascina dietro attraverso un vischioso magma discontinuo che non viene pienamente controllato neanche dall’artista stesso.
Kunstkammern del Castello di Ambras (Innsbruck)
Hirst, L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo, squalo in formaldeide, 1992
Particolare del Frontespizio del Museum Wormianum, Amsterdam, 1652
L’interesse creato artificialmente dal mercato per l’opera di Hirst conferma l’ipocrisia che impedisce alla critica di riflettere davvero sul significato delle teatrali messe in scena dei tableau vivant contemporanei, perché lo squalo di Hirst del 1992 è quello che è sempre stato visibile nelle Camere delle meraviglie preilluministiche, laddove la sedimentazione alluvionale di lacerti cauterizzava lo sgomento che si prova di fronte all’insieme caotico dei segni contraddittori del mondo.
E d’altra parte anche la demenziale riproposta all’infinito dello scheletro, in questi primi anni del XXI secolo, denota il legame indissolubile con le raccolte di arte e di meraviglie.
Ecco, queste sono le stazioni della produzione ipertrofica dell’area post concettuale che all’inizio di questo XXI secolo si è votata senza dignità alla restaurazione di una inaridita retorica teatrale asservita alla cultura egemone; e le opere realizzate in questo contesto non hanno niente a che vedere con l’inverosimile contestazione etica del sistema dell’arte, rivendicata dagli autori con una seriosità che spesso può anche apparire involontariamente comica.
Torsi incompiuti
Maschere Duk Duk dei Baining della Nuova Britannia
Walt Disney, Donald Duk
Ma nell’arte contemporanea non ci sono solo le tetre macchinazioni barocche della cultura egemone, ci sono anche degli spazi affascinanti ancora da esplorare.
C’è un vasto territorio, nell’eterno presente atemporale della creatività, che non ha mai smesso di scavare una falda sotterranea di suggestioni arcaiche, ed è quello dei torsi incompiuti di pensieri che sono troppo densi perché sia stato possibile diluirli nel tempo, pensieri che sono legati al conflitto primordiale e irrisolvibile tra la cultura degli inumatori e quella degli inceneritori.
E il riverbero di memoria di questi inquietanti torsi incompiuti può attivarsi con una violenza tellurica improvvisa e sconcertante, in modi del tutto imprevisti e nei luoghi meno prevedibili dell’esteticità diffusa, come è quello dei disegni animati.
L’ideazione contemporanea dei disegni animati, che evidentemente, come i fumetti degli inizi ottocenteschi, non sono stati mai stati destinati esclusivamente ai bambini, ma piuttosto depositati nel mondo dell’infanzia, deriva dagli spettacoli edificanti che nel passato remoto del cinema venivano realizzati proiettando sulla parete di una stanza buia le immagini capaci di intimorire con l’idea della morte, forme mutuate dalla Danza della morte e poi sopravvissute nelle Calaveras.
E questa derivazione nei disegni animati è denunciata dalla perturbante elasticità magica con la quale le forme totemiche possono subire qualunque violenta pressione senza morire, eredi dello spiritualismo arcaico studiato da Propp (la sua Morfolologia della fiaba è del 1928) e da Levi Strauss.
Maschere Baining, Nuova Britannia, Londra
Ma Donald Duk, in questo scenario, è la spia di un retaggio infinitamente più profondo: è la stilizzazione fossilizzata, amplificata a dismisura con una infestante reiterazione, delle forme più straordinarie che la raffinata cultura Oceanica abbia mai prodotto, di opere che sono tra le creazioni d’arte più autentiche che ci sia dato di conoscere, quelle delle maschere Baining della Nuova Britannia.
Con queste opere straordinarie la società segreta Duk Duk dei Baining aveva il compito di iniziare ai misteri della vita.
Donald Duk si chiama così perché questo sconvolgente riverbero di memoria ha lasciato impresso nel medium che lo ha intercettato una fragile traccia rivelatrice?
1974-2010