I limiti della ricerca

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Un diverso atteggiamento critico

 I limiti della ricerca 

L’opera può essere esplorata e indagata, ma l’illuminazione artificiale, così lontana dalla luce solare e dalla luce in movimento del fuoco che hanno sempre illuminato gran parte delle opere esistenti, inibisce con la sua violenta visualizzazione una lettura graduale e frenata dimenticando la condizione fondamentale che rende possibile la decifrazione critica. Questa luce brucia la percezione estesa nel tempo, comprimendo tra di loro i diaframmi sottili che l’opera stessa distende davanti e attorno a sé.
E’ un fenomeno intrusivo, una forma di ingiustificata indagine distruttiva; l’opera d’arte ha bisogno di un approccio graduale, dai tempi lunghi, ha radici future nella decantazione della memoria. Come la musica, ha bisogno di essere ascoltata al buio affinché la percezione non sia disseminata altrove e dispersa.

La luce improvvisa ed estesa uniformemente a tutta la superficie è una luce zenitale che pesa dall’alto verso un piano orizzontale inerte, non è la luce parziale in arrivo da una fonte esterna, in movimento e occasionale; calata dall’alto aderisce alla superficie e la colonizza saldando innaturalmente zone cromatiche e materiche, segniche, già pensate e realizzate con una articolazione di tempi percettivi graduali e diversi, spesso contraddittori, per zone dislocate verso di noi nella forma di un labirinto da attraversare.
Questa decisione di vedere l’opera totalmente, ora, comporta un radicale rifiuto dell’opera stessa con l’adozione di un atteggiamento che è mutuato da campi della ricerca scientifica estranei alla lettura critica della forma.
E’ poi naturale che l’oggetto, illuminato e visto totalmente, continui ad essere sezionato: la riflettografia, i raggi x, la luce radente, hanno un seguito dietro e oltre l’opera, che è sgranata e sorpassata nelle ricerche d’archivio, nella necessità non così vitale di dare un nome all’autore, un nome che non può essere artificiosamente slegato dal groviglio di eventi, spesso remoti, che hanno portato alla realizzazione di un oggetto che è quasi sempre il punto di incontro di linee ortogonali.
Il pagamento, il committente, le osservazioni critiche di altri, sono le tracce dell’allontanamento progressivo dall’oggetto artistico e della rinuncia all’impegno qualitativamente diverso che viene richiesto da una lettura globale.
Il restauro della Sistina sembra essere un episodio esemplare di questa sistematica durezza orientata verso lo scandaglio forzato del testo.
La luce fissa che illumina gli affreschi restaurati dichiara esplicitamente l’accaduto: il restauro non ha certo reso visibile l’opera di Michelangelo, scultore e architetto, che non può essere separata dalle condizioni di visibilità del tempo, dalla penombra che doveva evidentemente permettere al diaframma luminoso del colore di mediare l’aggetto cruento della simulata struttura architettonica e scultorea versata nell’incavo della cappella. Il restauro, non in sé ma nel contesto che lo motiva e che richiede appunto questa ossessiva illuminazione abbagliante, scandaglia lo scheletro interno dell’immagine, fossilizza il campo del visibile ipnotizzato dalla tendenza di questi anni alla concentrazione massiva dell’informazione.
Accade per la Sistina, che si presume retoricamente e acriticamente un’opera superiore alle altre, ciò che avviene per la registrazione della musica da monumentalizzare: il testo non è rispettato nella sua integrità, se ne ignorano le preziose incongruenze e i fondamentali limiti ambientali, il lavoro di laboratorio lo sterilizza; il ricorso alla tecnologia ha lo scopo, in questo caso, di giustificare un’irrazionale depauperazione materica.
Lo scopo di questa operazione culturale è l’affermazione tautologica del testo.
Si può scegliere di vedere l’oggetto subito e totalmente, oppure si può decidere di accorgersene senza frustrarne il momento più prezioso, che è quello dell’iniziale, profonda risonanza strutturale, il momento in cui si affaccia per la prima volta alla soglia della coscienza e nell’ingranaggio della percezione provocando una prima irreversibile reazione.
Invece di addentrarsi epidermicamente nell’opera e nella sua storia esterna, nella sua anatomia, si può indietreggiare di fronte ad essa per cogliere progressivamente il senso del contesto più vasto che la comprende.
Indietreggiando in questo cono prospettico rovesciato si scoprono le connessioni con altre opere, si vede chiaramente che un dipinto mutua le sue forme dalla scultura, che un brano musicale assume una spazialità architettonica; un sigillo rivela la sua vicinanza con un dipinto eccentrico, un oggetto dall’apparenza meramente decorativa assume un valore concettualmente più impegnativo.
Ciò che all’inizio di questo percorso a ritroso era un dipinto, una moneta, ora entra a far parte di un vasto tessuto connettivo, si leggono in filigrana un momento della storia del pensiero, un cambio di paradigma filosofico.
La veduta a distanza evidenzia le affinità strutturali con le opere attorno, esalta le contraddizioni, e soprattutto mostra distintamente la simpatia strutturale che l’opera condivide con una struttura più generale e più articolata.
Il respiro più arioso di questa veduta libera gli autori dalla prigionia retorica che li avvilisce. Invece di essere un genio isolato Altdorfer respira con naturalezza nello splendore diffuso dei danubiani, El Greco nel manierismo internazionale europeo; Rimbaud vive accanto a Corbière e a Lautréamont, Duchamp accanto a Picabia e a Schwitters.

2001